lunedì 7 luglio 2014

Delle prime recensioni critiche di OHJ nella blogosfera

A giudicare dalle prime ''critiche'' che sta ricevendo il libro OHJ di Richard Carrier, sembra ormai chiaro sempre più la loro essenziale natura di veri e propri buchi nell'acqua
In principio c'era la critica di Loren Rosson ad avermi in qualche modo impressionato, per poi riconoscere da subito che si tratta di un flop non appena ho letto la replica del dr. Carrier: specie dopo aver capito che non ha praticamente nessun effetto disquisire sulle differenze dottrinali tra Paolo e i Pilastri, con dispute annesse e connesse, per concludere qualcosa sulla storicità.
E se avevo trovato qualche forza nell'argomento di N. Covington, ora non più dopo aver letto le ulteriori considerazioni di Carrier su di esso. E Covington è addirittura più radicale di Carrier nel portare maggiore evidenza a favore del mito di Cristo dai soli vangeli, a giudicare dal seguito della sua recensione.

E sto parlando di critici che ritengo estremamente obiettivi e imparziali nel loro giudizio. Non sto parlando di folli dementi apologeti come l'improbabile mister Pischedda o Gianluigi Bastia, tantomeno di quello scellerato politicante d'un Valerio Polidori (gente che critica un libro senza mai degnarsi di leggerlo, e tantomeno di confutarlo seriamente, è chiaramente STUPIDA a priori, ai miei occhi).

In particolare, vengo a sapere dalla risposta di Carrier probabilmente una sintesi del suo argomento sul famigerato passo di Galati 1:19 circa ''il fratello del Signore''.
Così qual è la probabilità che Paolo a volte si riferisce ad un cristiano battezzato di nome Giacomo come ad un fratello del Signore, dato che tutti i cristiani battezzati erano noti a Paolo e alle sue congregazioni come fratelli del Signore, e Paolo necessitava di distinguere tra un apostolo ed un cristiano non-apostolico, così da rafforzare la sua pretesa di non aver parlato con nessuno che potesse comunicargli i segreti del vangelo fino a molto tempo dopo essere stato a predicare quel vangelo, quindi dimostrando di aver appreso il vangelo dal Gesù rivelato e non da testimonianza umana? Io sottolineo in OHJ che solo dire ''fratello'' non sarebbe sufficiente, dal momento che poteva essere confuso per un riferimento ad un fratello biologico di Cefa; e non aggiungere nulla non sarebbe sufficiente, dal momento che lascerebbe poco chiaro perchè questa persona debba in fondo venire menzionata (se Paolo incontrò proprio qualche ebreo o catecumeno, non sarebbe chiaro perchè li stesse menzionando; che egli incontrò un cristiano battezzato in aggiunta ad un apostolo sarebbe importante, comunque, come là spiego). (mia enfasi)

Da queste parole posso già intravedere l'enorme portata rivoluzionaria dell'interpretazione alternativa di Galati 1:19.
ἕτερον δὲ τῶν ἀποστόλων οὐκ εἶδον, εἰ µὴ Ἰάκωβον τὸν ἀδελφὸν τοῦ κυρίου è usualmente tradotto con "non vidi altro degli apostoli se non Giacomo, il fratello del Signore". Cefa e Giacomo, quindi, in questa traduzione sarebbero gli unici apostoli incontrati da Paolo a Gerusalemme in quella circostanza, anche se è ancora possibile supporre che Giacomo non fosse contato tra gli apostoli (sempre in virtù della necessità di Paolo di mostrare come nessun apostolo lo avesse messo a parte del vangelo, tantomeno dei misteri nascosti da secoli in Dio, ma solo il Gesù celeste). La traduzione alternativa proposta da Carrier, "oltre agli apostoli, vidi solo Giacomo”, evidenzia come Giacomo non fosse un apostolo.

Sembrerebbe un altro indizio a favore della non identità tra il Giacomo di Galati 1:19 e il Giacomo nominato tra i Pilastri di Galati 2 (ipotesi nemmeno tanto ad hoc alla luce della separazione nel vangelo di Marco tra il Giacomo apostolo, figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni, e il fittizio Giacomo fratello di Gesù).

Ma un conto sono questi indizi sparsi qua e là e ancora non poterne cogliere appieno tutte le implicazioni (non avendo ancora letto il libro). Ed un altro conto evidenziare come vedere in quel ''Giacomo il fratello del Signore'' il fratello biologico di Gesù vada a distruggere totalmente l'intero punto che Paolo stava facendo faticosamente, in lungo e in largo, nella lettera ai Galati, di cui riporto i punti salienti:

Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti, 
(Galati 1:1, mia enfasi)
Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare in me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco. In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; di non apostoli vidi solo Giacomo, il fratello del Signore. In ciò che vi scrivo, io attesto davanti a Dio che non mento.  
(Galati 1:15-19, mia enfasi)

In altre parole, la conclusione potrebbe rivelarsi che se ritieni un elemento favorevole alla storicità quel costrutto strano di Galati 1:19, allora c'è la concreta probabilità di andare a distruggere l'intero argomento di Paolo nell'epistola ai Galati, come se fosse un castello di carte. E tu non vorresti mai che l'impressionante, colossale Apostolo si rivolti nella tomba, non è vero?
Dunque, poichè a quanto sto vedendo nelle prime recensioni critiche di OHJ vedo che da imparziali atei e scettici l'unica, sola, reale evidenza di un Gesù storico che riescono a scorgere malgrado tutti i loro sforzi è solo e soltanto ''Giacomo, il fratello del Signore'', la mia futura recensione (che pubblicherò a fine agosto) eviterà di concentrarsi sul resto del libro e si concentrerà solo a valutare tutte le possibili implicazioni di quel famigerato costrutto.

domenica 6 luglio 2014

Del vero scopo di Paolo prima e dopo la sua conversione a Cristo Gesù

C'è un passo nella lettera ai Galati che mi ha fortemente impressionato, perchè getta nuova luce nel tormentato e controverso rapporto tra Paolo e i Pilastri, e si tratta di Galati 6:12.
Tutti coloro che vogliono far bella figura nella carne, vi costringono a farvi circoncidere e ciò al solo fine di non essere perseguitati a causa della croce di Cristo.

Sembra quasi che Paolo volesse insinuare che i suoi avversari, insediatisi nella sua comunità, ovvero il cosiddetto ''partito dei circoncisi'', pretendessero la circoncisione (e come corollario, il rispetto delle norme alimentari ebraiche) non solo per preservare l'ebraicità originaria del movimento a fronte del notevole afflusso di nuovi proseliti pagani, ma anche e soprattutto perchè solo assicurando il rispetto almeno esteriore delle pratiche ebraiche (la circoncisione in primis) si poteva rendere il movimento cristiano appetibile agli occhi degli altri giudei, e guadagnare da parte loro, da ultimo, se non la conversione, almeno la tolleranza. Dunque così si spiega perchè il fariseo Paolo perseguitò la chiesa dei Pilastri prima di convertirsi. Ovviamente non bisogna intendere la persecuzione nei termini leggendari sfacciatamente apologetici in cui la volle vendere di proposito la tendenziosa  propaganda cattolica di Atti degli Apostoli, a maggior ragione se per ostacolare un movimento del genere a Paolo era sufficiente diffamarlo a dovere, dicendone tutto il male possibile tra la gente e presso le autorità: in una parola, diffamandolo pubblicamente in tutte le sedi pubbliche (ottenendo in qualche caso perfino la condanna a morte di qualche suo adepto).
Ricordiamo che la predicazione della Croce era uno ''scandalo per i giudei'', ma uno scandalo che poteva venire tollerato (al modo in cui poteva esserlo presso i pagani in quanto mera ''follia'') dall'ebraismo ufficiale solo a patto di non costituire per se una minaccia alla stessa cultura e tradizione ebraica: i Pilastri erano tollerati freddamente a Gerusalemme invece d'essere perseguitati, nonostante credessero nello ''scandalo'' della Croce, per la semplice ragione che costringevano i loro proseliti di Giudea, se gentili, a farsi circoncidere.  Da questo punto di vista, l'ambiente ebraico di Gerusalemme esercitava sui Pilastri in qualche modo una pressione e un condizionamento indiretti dai quali Paolo nelle altre città dell'Impero era pressochè esente. Per questo Paolo, dopo la conversione, rimase poco tempo a Gerusalemme la prima occasione in cui si incontrò con Pietro mentre trattò in segreto coi Pilastri durante la seconda occasione. Il primo incontro con Pietro fu probabilmente pubblico e formale, perchè Paolo stesso, pur di convincere i Galati della sua buona fede, necessitò di incontrare il maggior numero di persone per chiamarli eventualmente a testimonianza verace della sua avvenuta conversione: non solo Pietro, non solo gli apostoli (se ebbe la fortuna di trovarli a Gerusalemme in quei giorni), ma anche Giacomo, ''il fratello del Signore'' (al di là di cosa questo volesse poi significare).
Il secondo incontro con i Pilastri avvenne invece in gran segreto -  quasi ricalcando la segretezza delle religioni misteriche pagane più esoteriche -, per impedire alla ormai famigerata fama anti-Torah di Paolo di precederlo, destando allarme e preoccupazione a Gerusalemme non solo nel partito dei circoncisi ma anche tra gli ebrei anticristiani, la cui intolleranza anticristiana sarebbe riesplosa con o senza più Paolo tra le loro fila.

Quindi tre aspetti sembrano chiari, da questa mia analisi:


1) che gli ebrei tradizionali non vedevano di buon occhio la predicazione della Croce, considerandola uno ''scandalo'', nonostante fossero ebrei in tutto e per tutto i suoi promotori.

2) che quella disapprovazione della Croce da parte ebraica rischiava in qualunque momento di sfociare in aperta intolleranza (fino alla persecuzione fisica) qualora alla predicazione della Croce si accompagnasse anche il solo sentore del consentito ripudio della circoncisione e con essa, impliciter, dell'accusa di tradimento della propria ebraicità. Ne deriva come corollario che ad avere maggiore motivo di odiare i cristiani, in virtù delle loro eccessive concessioni ai gentili, erano proprio i più gelosi, tra gli ebrei, della propria identità culturale e religiosa.

3) che i Pilastri, stando a Gerusalemme, si guadagnavano giorno dopo giorno la loro tolleranza e sopravvivenza in parte grazie ai fondi inviati loro da apostoli come Paolo per provvedere al loro sostentamento, in parte assicurando al pubblico pressochè ebraico di Gerusalemme la fedeltà alla loro ebraicità di fondo con tanto di ossequioso rispetto della Torah e di esortazione alla circoncisione almeno ai gentili di Gerusalemme.

Dunque Paolo, da fariseo, perseguitò la chiesa giudeocristiana perchè, avendo quella chiesa dato inizio alla predicazione ai non ebrei residenti fuori della Giudea, evidentemente già aveva concesso, ancor prima della sua conversione, a quei medesimi neoconvertiti gentili (specie se ''ex timorati di Dio'') l'abbandono della circoncisione e di riflesso dell'intera Torah.
Paolo era stato così ''zelante nella tradizione dei Padri'' da ricercare e ottenere la persecuzione dei cristiani forse non in Giudea (oppure, non solo in Giudea) ma diffidando gli ebrei della Diaspora dall'accogliere i missionari cristiani: ai suoi occhi di fariseo conservatore, i cristiani erano colpevoli in primo luogo di tradimento della propria appartenenza religiosa, dal momento che non costringevano i pagani a diventare ebrei, col battesimo. Dopo la sua conversione, la chiesa continuò a ricevere l'ostilità degli ebrei per lo stesso motivo, ma i Pilastri cercarono in tutti i modi di rivendicare la loro (eventualmente maggiore) fedeltà alla tradizione ebraica, non esitando ad accusare altri come Paolo di volersi sbarazzare troppo facilmente di ogni legame con l'ebraismo e del rispetto della Torah. Forse i Pilastri ci riuscirono, per qualche tempo, nel tentativo di presentarsi come ebrei in nulla diversi dagli altri (in fondo, non erano i soli tra gli ebrei a venerare un essere cosmico intermediario tra l'uomo e Dio), o forse no (se c'è qualche nucleo storico dietro la leggenda del martirio di Giacomo il Giusto che affiora in Egesippo e forse anche qualche legame tra questa leggenda e la creazione del fittizio proto-martire cattolico noto come ''Stefano'' - ''Corona'', evidentemente del martirio - di Atti degli Apostoli).
Fatto sta che molto probabilmente anche prima della sua conversione Paolo era un apocalittico, e tale rimase, nonostante cessò di essere fariseo.
Già prima di diventare cristiano, Paolo credeva di essere stato scelto da Dio, ancor prima della sua nascita, per compiere una speciale missione. Persino la sua persecuzione ai danni dei primi che ''videro'' Gesù faceva parte del piano di Dio, dato che l'apparente ''voltafaccia'' di Paolo avrebbe conferito maggiore impatto alla sua predicazione per conto del Signore.
 È curioso che lo stesso Paolo non offra alcun dettaglio della sua conversione nelle lettere, limitandosi a dire che Dio ''scelse di rivelare suo Figlio in me'' (e non ''a me'' come appare in molte traduzioni ''ufficiali'', tra cui quella italiana della CEI).
 Quindi sono dell'idea che Paolo seppe dei cristiani, nonostante fossero così pochi, a causa del suo interesse, da apocalittico qual era, verso i movimenti apocalittici marginali rispetto all'ebraismo ufficiale. Da cittadino romano (se questo è ciò che il suo nome lascia intuire) o da fariseo filoromano (come il suo enfatizzato ossequio alle autorità lascia pensare) o da tutte e due le cose, Paolo non poteva accettare che l'apocalitticismo ebraico si declinasse nell'indirizzo zelota e/o filo-zelota (a la Qumran) e da fariseo non poteva neppure accettare una critica più o meno implicita al culto del Tempio, come si manifestava nei profeti apocalittici più o meno anti-sistema dell'epoca (vedi Giovanni il Battista). Ma neppure poteva accettare che i non ebrei venissero salvati nel gran giorno della Fine: era sua piena convinzione invece che la piena salvezza degli ebrei e la distruzione dei non ebrei fosse collocabile nel futuro prossimo, in quanto solo gli ebrei erano i legittimi depositari del favore divino come garanzia presente della salvezza divina. Per questo motivo, quello che stavano facendo i primi cristiani, costituiva agli occhi del Paolo pre-cristiano un pervertimento delle sue più sincere speranze apocalittiche: i cristiani avevano introdotto prima di Paolo l'idea rivoluzionaria che i non ebrei potessero salvarsi nel giorno della Fine senza essere prima diventati ebrei in tutto e per tutto. Il Paolo fariseo non poteva accettare un'idea del genere, perchè per lui equivaleva a introdurre implicitamente l'idea che l'ebraismo non fosse poi così fondamentale e necessario, contrariamente a cosa aveva sempre creduto, per scongiurare la distruzione dell'intera umanità, perfino della sua sola parte ''migliore'', agli occhi di Dio. Ma con la sua conversione, Paolo capì di dover portare fino alla più estrema e rigorosa applicazione pratica quell'innovazione cristiana: portare la salvezza a tutti i non ebrei più di quanto l'avessero già portata i primi cristiani prima di lui, perchè solo così poteva ad un tempo anche salvarsi (e correggersi) l'intera civiltà ebraica nel suo complesso.
Paolo non fu di certo il primo a favorire l'armoniosa convivenza tra ebrei e gentili, ma fu il primo a farne il preciso marchio distintivo della sua predicazione, al punto di associare per sempre quella politica di apertura ai non ebrei al suo nome, nel bene e nel male.
Paolo era profetico, in fondo: percepiva l'oscuro presentimento che il gran giorno della Fine doveva passare ineluttabilmente per la distruzione della Giudea e del Tempio di Gerusalemme, complice la stessa riottosità ebraica, prima o poi. Ma se già prima della sua conversione cercava un modo di migliorare l'apocalitticismo ebraico per farne uno strumento di risanamento morale e sociale del popolo ebraico, una volta scontratosi con l'impossibilità materiale di farlo (a causa dei molteplici e contradditori modi alternativi, difficilmente tra loro conciliabili, in cui si declinava per un ebreo l'esser apocalittico), Paolo ''scelse'' di sentirsi predestinato da Dio - e dalla sua ipostasi, Gesù - a completare fino in fondo la missione che lo stesso Dio aveva da poco fatto iniziare ai cristiani: risanare il mondo con l'estremo e ultimo messaggio di salvezza, finalmente svelato dopo millenni, prima della Fine.
Quella di Paolo non fu la conversione alla quale siamo abituati a pensare, da una vecchia religione ad una nuova religione. Non fu un drastico cambiamento del suo destino ultimo e designato ''fin dal seno di mia madre'' (Galati 1:15) -- l'intima percezione di preparare sé e gli altri ebrei al temuto gran giorno della Fine -- ma fu l'acquisizione di una maggiore consapevolezza della propria missione ultima e soprattutto DEL MODO in cui poterla portare a termine con successo: ossia partecipando delle stesse visioni e rivelazioni del Cristo celeste delle prime comunità cristiane.
CONCLUSIONE:
1) Da Galati 6:12 vengo a sapere che i Pilastri ricercavano l'approvazione degli altri ebrei (e così, di essere in qualche modo legittimati nel loro desiderio di mantenersi entro i confini dell'ebraismo) predicando la circoncisione come prerequisito indispensabile al battesimo. Se non l'avessero fatto in primis almeno i cristiani residenti a Gerusalemme, sarebbero stati come minimo ostracizzati dal resto del popolo ebreo e forse di quella ostilità ne avrebbero patito anche le peggiori conseguenze fisiche. In altre parole, il fariseo Paolo non era il solo ad aver attentato alla vita dei primi cristiani.

2) Questo mi ha indotto a pensare che il movente più plausibile - perchè letto nell'immediato contesto di Galati - alla base della persecuzione dei cristiani da parte del fariseo Paolo (dunque prima della sua conversione) è proprio la sua opposizione naturale, da ebreo e fariseo, al vedere altri ebrei che consentono ai gentili di partecipare al loro stesso culto (che ricordiamolo: era un culto misterico ebraico imperniato attorno ad un dio che muore e risorge) senza diventare a loro volta ebrei ma rimanendo gentili a tutti gli effetti pratici, e dunque in definitiva svendendo a scopi di mero proselitismo religioso l'appartenenza culturale all'ebraismo e perciò macchiandosi di tradimento del più vero e autentico spirito della Torah.

3) Da Galati 1:15 vengo a sapere che Paolo si sentiva un predestinato da Dio ancor prima della sua conversione: in altre parole, Paolo parlava e operava già come un apocalittico ancor prima di ''vedere'' Cristo Gesù.
Proprio come apocalittico, Paolo giunse a contatto con uno dei principali (se non il principale) movimenti apocalittici marginali ebraici del suo giorno.

4) Paolo da ultimo si convertì perchè intravide nella declinazione cristiana dell'apocalitticismo ebraico una specie di teodicea ai mali inguaribili dei quali pativa la civiltà ebraica, in un momento così travagliato e foriero di incipienti sventure della sua Storia: se gli ebrei -  e soprattutto gli ebrei ''apocalittici'' - non fossero riusciti a trovare nel cristianesimo in generale, e nel cristianesimo paolino in particolare, un efficace compromesso di armoniosa convivenza (e dunque, sopravvivenza) con i gentili, allora la Fine dell'intera civiltà ebraica, temeva Paolo, si sarebbe profilata all'orizzonte ancor di più.

Perchè, rischiando continuamente di equivocare sui modi e sui termini in cui quel nuovo apocalittico Ordine Mondiale sarebbe stato imposto da Dio nel giorno della finale apocalisse, quello stesso apocalitticismo ebraico rischiava di risvegliarsi, in misura crescente, come una delle cause, se non la causa principale, che avrebbe favorito da ultimo l'insurrezione generale di tutti gli ebrei contro i romani.

In tutte le sue lettere è fin da subito chiaro quello che stava facendo Paolo:
voler creare una comunità in grado di trascendere per sempre tutti i pregiudizi razziali e sociali e comprendere ogni individuo, per porre fine fondamentalmente ad ogni disgraziata tensione tra Roma e il popolo di Dio, indicando la via della pace e della convivenza armoniosa. Ecco il Nuovo Israele quale doveva essere per Paolo: una comunità che realizzasse finalmente l'utopia della fratellanza universale con i suoi soli sforzi, senza violenza o sedizione. Totalmente libera dall'influenza, che sempre nascondeva una pervicace manipolazione, del corrotto Sinedrio, dai corrotti sadducei come pure dalle caste (economiche, politiche o militari) greco-romane. Paolo cercò con ogni mezzo e con ogni sforzo di perseguire questa sua utopia peregrinando per tutto l'impero romano:
Mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno.
(1 Corinzi 9:23)

Sorprende forse il suo straordinario successo? Certamente Paolo non guadagnò tutto il mondo al suo Cristo Gesù. Ma riuscì tuttavia nel vendere un'idea davvero bella e attraente, e di certo possedeva tutte le qualità e la cultura necessarie per presentare quell'idea al pubblico in qualunque modo allettante avesse desiderato, convincendo e persuadendo senza posa chi lo ascoltava.
Se non ci fosse stato Paolo, non ci sarebbe stato il cristianesimo come oggi lo conosciamo. Il suo ruolo nel salvaguardare la sopravvivenza del cristianesimo, per garantire come secondo fine quella dell'ebraismo in un mondo sempre più minaccioso, non deve affatto essere trascurato.


E dunque Paolo non solo fallì nella sua previsione apocalittica (in nulla di diverso, sotto questo punto di vista, da qualsiasi altro profeta millennarista) ma non riuscì ad evitare che l'esito esasperato di quell'accesso apocalitticismo venisse coniugato da ultimo con il messianismo militare di stampo zelota, portando irrimediabilmente all'inevitabile Disastro del 70 e alle schizofreniche e allucinate visioni del Cristo xenofobo e antipaolino dell'Apocalisse.

venerdì 4 luglio 2014

Il Maestro e Margherita di Bulgakov: quando fantasticare sul Gesù storico diventa Elogio della Follia (non apologetica)

...Dunque tu chi sei? 
Una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene.

(Goethe, Faust)



Non si può certo negare che in particolare l'incipit d'esordio del romanzo Il Maestro e Margherita di Bulgakov costituisca un autentico capovaloro della letteratura del 900, sia pure nella sua apparente incomprensibilità per il profano lettore. A interessarmene, lo confesserei fin da subito, è la menzione, forse la prima in un romanzo, dell'affermazione che Gesù non è mai esistito. Il primo miticista ufficiale che la Storia ricordi fu a dire il vero il deista Thomas Paine, l'uomo al quale Napoleone auspicò che ogni città d'Europa da lui conquistata dedicasse una statua. Ma Paine era un filosofo ma non uno scrittore, al contrario di Michail Bulgakov.
Il fatto curioso, però, è che il Bulgakov non dà mostra, dove ne parla, di tifare per l'una o per l'altra conclusione, se miticista o storicista. Ma è bene riassumere i fatti.

Il romanzo si apre con due intellettuali moscoviti che discutono mentre fanno colazione.
CAPITOLO PRIMO
Non parlare mai con sconosciuti 

Nell'ora di un tramonto primaverile insolitamente caldo apparvero presso gli stagni Patriaršie due persone. Il primo - che indossava un completo grigio estivo - era di bassa statura, scuro di carnagione, ben nutrito, calvo; teneva in mano una dignitosa lobbietta, e il suo volto, rasato con cura, era adorno di un paio di occhiali smisurati con una montatura nera di corno. Il secondo - un giovanotto dalle spalle larghe, coi capelli rossicci arruffati e un berretto a quadri buttato sulla nuca - indossava una camicia scozzese, pantaloni bianchi spiegazzati e un paio di mocassini neri. 
Il primo altri non era che Michail Aleksandroviè Berlioz, direttore di una rivista letteraria e presidente di una delle piú importanti associazioni letterarie moscovite, denominata per brevità MASSOLIT; il suo giovane accompagnatore era il poeta Ivan Nikolaevič Ponyrëv, che scriveva sotto lo pseudonimo Bezdomnyj.
Giunti all'ombra dei tigli che cominciavano allora a verdeggiare, gli scrittori si precipitarono per prima cosa verso un chiosco dipinto a colori vivaci, che portava la scritta «Birra e bibite».


Non si dice l'oggetto della discussione,
perchè all'inizio uno dei due, il direttore, ha quasi un'allucinazione, della durata di un attimo, di ''Un personaggio alto piú di due metri, ma stretto di spalle, magro fino all'inverosimile, e dalla faccia - prego notarlo - beffarda.'' Come sospeso in aria.
Qui successe una seconda stranezza, che riguardava soltanto Berlioz. A un tratto egli smise di singhiozzare il suo cuore diede un forte battito, per un attimo non si sentí piú, poi riprese, ma trafitto da un ago spuntato. Inoltre, Berlioz fu preso da un terrore immotivato, ma cosí potente che gli venne voglia di correre via senza voltarsi dagli stagni Patriaršie. Si guardò in giro angosciato, non comprendendo che cosa avesse potuto spaventarlo tanto. Impallidí, si asciugò la fronte col fazzoletto pensò: «Che cos'ho? Non mi era mai successo! Il cuore mi fa degli scherzi... Mi sono affaticato troppo... Forse è il momento di mandare al diavolo tutto quanto e di andarmi a riposare a Kislovodsk...»
A questo punto l'aria torrida gli si infittí davanti, e da essa si formò un diafano personaggio dall'aspetto assai strano. Un berretto da fantino sulla piccola testa, una giacca a quadretti striminzita, anch'essa fatta d'aria... Un personaggio alto piú di due metri, ma stretto di spalle, magro fino all'inverosimile, e dalla faccia - prego notarlo - beffarda.
La vita di Berlioz era cosí fatta che agli avvenimenti straordinari egli non era abituato. Impallidendo ancora di piú, spalancò gli occhi e pensò sconcertato: «Non è possibile!...»
Ma, ahimè, era possibile, e lo spilungone, attraverso il quale passava lo sguardo, oscillava davanti a lui senza toccare la terra. 
Allora il terrore s’impadroní a tal punto di Berlioz che egli chiuse gli occhi. Quando li riaprí, vide che tutto era finito, il miraggio si era dissolto, l'uomo a quadretti era sparito, e insieme l'ago spuntato gli era uscito dal cuore. 
- Accidenti, che diavolo! - esclamò il direttore. - Lo sai, Ivan, c'è mancato poco che mi venisse un colpo per il caldo! Ho avuto perfino una specie di allucinazione...
- tentò di ridacchiare, ma negli occhi gli ballava ancora l'inquietudine e le mani tremavano.
Però a poco a poco si calmò, si fece aria col fazzoletto, e proferendo con una certa baldanza: - Be', allora... - riprese il discorso che era stato interrotto dal succo di albicocca. 

Quando si ridesta e torna in sè immediatamente poco dopo,
si convince di quello che stava facendo, ovvero spiegare al suo subalterno interlocutore l'intrinseca ragionevolezza della tesi miticista, come rimedio agli errori storicisti del suo poema.
Questo discorso, come si seppe in seguito, riguardava Gesú Cristo. Infatti, il direttore aveva commissionato al poeta, per il prossimo numero della rivista, un grande poema antireligioso. Poema che Ivan Nikolaevič aveva composto, e in brevissimo tempo, ma purtroppo senza minimamente soddisfare il direttore. Bezdomnyj aveva tratteggiato il personaggio principale del suo poema, cioè Gesú, a tinte molto fosche, eppure tutto il poema, secondo il direttore, andava rifatto di sana pianta. Ed ecco che il direttore stava tenendo una specie di conferenza su Gesú, allo scopo di sottolineare il principale errore del poeta.  È difficile dire che cosa avesse sviato Ivan Nikolaevič se la potenza figurativa del suo ingegno o l'ignoranza totale del problema che si accingeva a trattare, fatto sta che il suo era un Gesú del tutto vivo, un Gesú che un tempo aveva avuto una sua esistenza anche se, a dire il vero, era un Gesú fornito di tutta una serie di attributi negativi. Berlioz invece voleva dimostrare al poeta che la cosa principale non era chi fosse Gesù, se fosse buono o cattivo, ma che questo Gesù storicamente non era mai esistito sulla terra e che tutti i racconti che si facevano su di lui erano semplici invenzioni, che si trattava di un normalissimo mito.
Occorre notare che il direttore era un uomo di vaste letture, e con gran perizia nel suo discorso si rifaceva agli storici antichi, al celebre Filone d'Alessandria ad esempio, e a Giuseppe Flavio, uomo di splendida cultura, che non avevano mai fatto la menoma menzione dell'esistenza di Gesú. Dando prova d'una robusta erudizione, Michail Aleksandrovič comunicò tra l'altro al poeta che quel passo del libro decimoquinto, capitolo 44, dei celebri Annali di Tacito, dove si parla della morte di Gesú, era un'interpolazione apocrifa molto posteriore. 
Il poeta, per il quale tutto ciò che gli veniva comunicato era una novità assoluta, ascoltava il direttore con attenzione, fissandolo coi suoi vivaci occhi verdi e solo a tratti emetteva un singhiozzo, imprecando sommessamente contro il succo di albicocca. 
- Non esiste una sola religione orientale, - diceva Berlioz, - in cui manchi, di regola, una vergine immacolata che metta al mondo un dio. E i cristiani, senza inventare nulla di nuovo, crearono cosí il loro Gesú, che in realtà non è mai esistito. E questo il punto sul quale devi insistere... 
L'alta voce tenorile di Berlioz si diffondeva nel viale deserto, e a mano a mano che Michail Aleksandrovič penetrava in un labirinto in cui solo una persona coltissima può penetrare senza correre il rischio di rompersi il collo, il poeta veniva a scoprire un numero sempre maggiore di cose interessanti e utili sull'egizio Osiride, dio benevolo e figlio del Cielo e della Terra, su Tammuz, dio fenicio, su Marduk, e perfino su un dio meno noto, ma terribile, Huitzilopochtli, un tempo molto venerato dagli aztechi del Messico. Ma proprio nel momento in cui Michail Aleksandrovič raccontava al poeta che gli aztechi foggiavano con pasta lievitata una figurina di Huitzilopochtli, nel viale apparve la prima persona.

Ad un certo punto, al sentire che ''Gesù non è mai esistito'', interviene a interrompere il dialogo tra i due un terzo individuo, il quale si mostra visibilmente interessato all'opinione dei due non solo su Gesù, ma anche su Dio.

- Tu, Ivan, - diceva Berlioz, - hai dato un bel quadro satirico, ad esempio, della nascita di Gesú, il figlio di dio. Ma il fatto è che prima di Gesú era nata tutta una serie di figli di dio, come, diciamo, l'Adone fenicio, l'Atti frigio, il Mitra persiano. Insomma, nessuno di loro è mai nato né esistito, neppure Gesú, ed è necessario che tu, invece di raffigurare la nascita oppure, diciamo, l'arrivo dei re magi metta in evidenza le assurde dicerie su questo evento. Se no, da quello che hai scritto, sembra che sia nato per davvero!... 
In quel mentre Bezdomnyj, trattenendo il respiro, tentò di far cessare il singhiozzo che lo tormentava, perciò gli venne un singulto ancora piú tormentoso e forte, e nello stesso istante Berlioz interruppe il suo discorso perché il forestiero si era alzato all'improvviso e si era diretto verso i due scrittori.
Questi lo guardarono sorpresi.  - Vogliano scusarmi, - disse egli con accento straniero ma senza storpiare le parole, - se io, pur non conoscendoli, mi permetto... ma l'argomento della loro dotta conversazione è talmente interessante che... 
Qui si tolse urbanamente il berretto, e agli amici non rimase altro da fare che alzarsi e salutare. 
«No, è piuttosto francese...», pensò Berlioz. 
«Un polacco?...», pensò Bezdomnyj. 
Si deve aggiungere che sin dalle prime parole il forestiero aveva prodotto una pessima impressione sul poeta mentre a Berlioz era andato piuttosto a genio, cioè, non che gli fosse andato a genio ma, come dire... lo aveva incuriosito. 
- Posso sedermi? - chiese gentilmente, gli amici si scostarono meccanicamente, il forestiero si sedette svelto tra loro ed entrò subito nella conversazione.
- Se non ho sentito male, lei stava dicendo che Gesú non è mai esistito - disse volgendo verso Berlioz il suo occhio sinistro verde. 
- No, ha sentito benissimo, - rispose con cortesia Berlioz, - stavo proprio dicendo questo. 
- Oh, com'è interessante! - esclamò il forestiero. 
«Che diavolo vuole costui?», pensò Bezdomnyj e aggrottò la fronte. 
- E lei era d'accordo col suo interlocutore? - s'informò lo sconosciuto volgendosi a destra verso Bezdomnyj. 
- Al cento per cento! - confermò questi, che amava esprimersi in modo metaforico e ricercato. 
- Stupefacente! - esclamò l'inatteso interlocutore, e, gettata intorno un'occhiata furtiva, e smorzando la voce già bassa, disse: - Vogliano scusare la mia insistenza, ma mi sembra di aver capito che, oltre tutto, loro non credono in dio -. I suoi occhi presero un'espressione spaventata, ed egli aggiunse: - Giuro che non lo dirò a nessuno! 
- Infatti, non crediamo in dio, - rispose Berlioz, sorridendo lievemente del timore del turista straniero, - ma di questo si può parlare con la massima libertà. 
Il forestiero si appoggiò allo schienale della panchina, e chiese, quasi stridulo di curiosità: 
- Loro sono atei? 
- Sí, siamo atei, - rispose Berlioz sorridendo, mentre Bezdomnyj pensava arrabbiato: «Che rompiscatole, questo straniero!»
- Ma che bellezza! - esclamò il sorprendente forestiero e cominciò a girare la testa di qua e di là guardando ora l'uno ora l'altro letterato. 
- Nel nostro paese, l'ateismo non stupisce nessuno, disse Berlioz con diplomatica cortesia. - Da tempo la maggior parte della nostra popolazione ha consapevolmente smesso di credere alle fandonie su dio. 
A questo punto lo straniero ebbe questa uscita: si alzò e strinse la mano allo stupito direttore, proferendo queste parole: 
- Mi permetta di ringraziarla di tutto cuore! 
- Perché lo ringrazia? - chiese Bezdomnyj sbattendo le palpebre. 
- Per un'importantissima informazione che per me, viaggiatore, è del massimo interesse, - spiegò lo strambo forestiero alzando un dito con fare significativo.
L'importante informazione doveva aver impressionato molto il viaggiatore, perché lanciò tutt'intorno un'occhiata spaurita alle case come se temesse di vedere un ateo ad ogni finestra. 
«No, non è inglese», pensò Berlioz, mentre Bezdomnyj pensava: «Dove avrà imparato il russo cosí bene, lo vorrei proprio sapere», e aggrottò di nuovo la fronte. 
- Mi permetta di domandarle, - riprese l'ospite dopo una preoccupata riflessione, - che ne fa delle prove dell'esistenza di dio, le quali, come è noto, sono esattamente cinque?  - Ohimè, - rispose Berlioz con commiserazione, - nessuna di queste dimostrazioni vale un soldo, e da tempo l'umanità le ha messe in archivio. Deve convenire che nella sfera della ragione non ci può essere alcuna prova dell'esistenza di dio. 
- Bravo! - esclamò lo straniero, - bravo! Lei ha ripetuto per intero il pensiero del vecchio irrequieto Immanuel. Ma guardi la stranezza: egli distrusse fino in fondo le cinque prove, ma poi, come per dar la baia a se stesso, ne ha costruito proprio lui una sesta. 


E man mano che sosddisfava il suo interesse,
destava quello sconosciuto un misto di allarme e curiosità nei primi due individui, nonchè un impenetrabile senso del mistero.  Derivato in ultima istanza dalla manifesta stranezza di quello strano curioso. Il quale darà subito un serio motivo di dubitare della sua sanità mentale allorchè, dopo aver spiegato la sua teoria sul Gesù storico - in contrapposizione dunque al dichiarato miticismo del direttore - alla domanda di quest'ultimo su quale prova recasse a favore della storicità di Gesù, così risponde:
- Di che cosa si occupa? - s'informò Berlioz. 
- Sono un esperto di magia nera. 
«Perbacco!...» pulsò nella testa di Michail Aleksandrovič. 
- E... e l'hanno invitato qui per questo? - chiese, dopo un singulto. 
- Precisamente, - confermò il professore, e spiegò: Nella Biblioteca di Stato hanno scoperto manoscritti originali del negromante Gerbert d'Aurillac, del decimo secolo. Occorre che io li decifri. Sono l'unico specialista al mondo. 
- A-a-ah! Lei è uno storico? - chiese Berlioz con grande sollievo e rispetto.
 - Sí, - confermò lo scienziato, e aggiunse senza alcun nesso: - Questa sera ci sarà un incidente interessante ai Patriaršie.  Di nuovo il direttore e il poeta si stupirono immensamente ma il professore fece a entrambi un cenno perché si avvicinassero e quando si chinarono verso di lui, sussurrò: 
- Tengano presente che Gesú è esistito. 
- Vede, professore, - replicò Berlioz con un sorriso forzato, - noi rispettiamo il suo vasto sapere, ma al proposito abbiamo un punto di vista diverso. 
- Non c'è bisogno di alcun punto di vista, - rispose lo strano professore, - è semplicemente esistito e basta. 
- Ma ci vuole qualche prova... - cominciò Berlioz. 
- E neppure di prove c'è bisogno, - rispose il professore,
e parlò con voce sommessa: la sua pronuncia straniera era scomparsa. - È tutto molto semplice: al mattino presto del giorno quattordici del mese primaverile di Nisan avvolto in un mantello bianco foderato di rosso, con una strascicata andatura da cavaliere...


(Non posso fare a meno di notare con una certa punta di sarcasmo che anch'io, discutendo con folli apologeti del net cristiani e non, ho sperimentato aihmè lo stesso genere di dogmatismo, pur con tutte le mie migliori intenzioni, allorchè mi sentivo replicare frasi come  ''è semplicemente esistito e basta.'')


Ecco la sua prova della storicità di Gesù:
Questi disse infatti guardando con attenzione il volto dello straniero: - Il suo racconto è estremamente interessante, professore, anche se non corrisponde affatto a quanto raccontano i vangeli.
- Per carità, - ridacchiò con condiscendenza il professore, - lei piú di tutti deve pur sapere che niente di quanto è scritto nei vangeli è mai successo; se cominciamo a considerare il vangelo come una fonte storica... - ridacchiò ancora una volta, e Berlioz restò di sasso perché aveva detto le stesse identiche cose a Bezdomnyj mentre camminavano lungo la Bronnaja diretti verso gli stagni Patriaršie.
- Sono d'accordo, - rispose Berlioz, - ma temo che nessuno ci potrà confermare che quello che lei ci ha raccontato, è avvenuto per davvero.
- Oh no! C'è chi lo può confermare! - rispose con straordinaria sicurezza il professore, cominciando a storpiare le parole, e con un'inaspettata aria di mistero fece segno ai due di avvicinarsi.
Questi si chinarono verso di lui da entrambi i lati, ed egli disse, questa volta con un'ottima pronuncia che (chi sa perché) ora gli veniva e ora spariva:
- Il fatto è... - qui il professore si guardò intorno con fare impaurito, e proseguí in un sussurro: - che ho assistito personalmente a tutto questo. Ero sul balcone con Ponzio Pilato, nel giardino quando parlava con Caifa, e sul palco, ma in segreto, in incognito, per cosí dire; vi prego quindi di non farne parola con nessuno e di serbare il segreto piú assoluto, tsss...
Subentrò il silenzio, e Berlioz impallidí.

Per i suoi interlocutori, quella risposta ebbe il sapore di un'autentica rivelazione. Poichè avevano finalmente la giusta risposta ai loro dubbi, nonchè la conferma dei loro più reconditi sospetti: quell'uomo era matto. Matto da legare.
- Sí, sí, sí, - diceva eccitato Berlioz, - del resto, tutto questo è possibile... anzi, possibilissimo, e Ponzio Pilato e la loggia, eccetera, eccetera... Lei è venuto qui da solo o con la sua signora?
- Solo, solo, sono sempre solo, - rispose amaro il professore.
- Dov'è la sua roba, professore? - indagava con aria insinuante Berlioz. - Al Métropole? Dove alloggia?
- Io?... Da nessuna parte, - rispose il tedesco pazzo mentre il suo occhio verde sorvolava, malinconico e stralunato, l'acqua dello stagno.
- Come?... Ma allora... dove abiterà?
- Nel suo appartamento, - rispose con disinvoltura il pazzo, e ammiccò.
- Io... ne sarò lietissimo... - borbottò Berlioz, - ma veramente, a casa mia non starà comodo... al Métropole, invece, ci sono camere splendide, è un albergo di prim'ordine...
- E neppure il diavolo esiste? - chiese allegramente l'alienato a Ivan Nikolaevič. - Neppure... - Non contraddirlo, - disse Berlioz col solo movimento delle labbra, nascondendosi d'impeto dietro le spalle del professore e facendo smorfie.
- Non c'è il diavolo! - esclamò Ivan Nikolaevič, confuso da tutto quel garbuglio. - Proprio a me doveva capitare? La smetta di dare i numeri!
Qui il folle scoppiò in una risata tale che dal tiglio sopra le loro teste si alzò in volo un passero.
- Questa sí che è bella, - proferí il professore, ridendo a crepapelle. - Ma come mai? Di qualunque cosa si parli, non c'è mai niente! - Cessò di ridere all'improvviso e, cosa comprensibilissima in un malato di mente, dopo il riso cadde nell'estremo opposto, si irritò e gridò con severità: - Dunque, non c'è per davvero? 
- Si calmi, si calmi, si calmi, professore, - borbottava Berlioz, temendo di agitare il malato. - Stia seduto qui un momentino col compagno Bezdomnyj, corro qui all'angolo, faccio una telefonatina, poi la accompagniamo dove vuole. Lei non conosce la città...
Si deve ammettere che il piano di Berlioz era giusto: occorreva fare una corsa fino al piú vicino telefono pubblico e comunicare all'ufficio stranieri che un consulente arrivato dall'estero si trovava agli stagni Patriaršie in uno stato tutt'altro che normale. Bisognava perciò prendere delle misure, se no sarebbe successo un pasticcio.


E nella tensione derivata dal dover subito correre ai ripari e in fretta, sotto l'impellente necessità di dover segnalare al primo manicomio la presenza di quel folle in libera circolazione, quasi fosse peggio del crimine consentire ad un folle di aggirarsi libero per la strada, il direttore non fa a tempo a guardarsi alle spalle che viene travolto tragicamente da un tram, con un epilogo tragico quanto grottesco di quella quasi-farsa:
Il prudente Berlioz, benché fosse al sicuro, decise di tornare dietro il cancello, spostò la mano sul tornello e arretrò di un passo. In quell'istante la sua mano scivolò e perse l'appoggio, il piede, come se si fosse trovato sul ghiaccio, sdrucciolò inarrestabile sul selciato che scendeva declive verso le rotaie, l'altro piede volò in aria, e Berlioz fu sbalzato sulle rotaie.
Tentando di aggrapparsi a qualcosa, Berlioz cadde riverso, urtando leggermente la nuca sul selciato, e fece in tempo a vedere in alto, se a destra o a sinistra questo ormai non lo capí, la luna dorata. Riuscí a girarsi sul fianco, stringendo con un movimento impetuoso le gambe alla pancia, e, voltatosi, vide slanciarglisi addosso con una forza irrefrenabile il volto, completamente bianco di terrore, della conducente e il suo fazzoletto scarlatto. Berlioz non emise un grido, ma intorno a lui tutta la via strillò in un coro di disperate voci femminili. La conducente diede uno strappo al freno elettrico, la vettura s'impuntò, poi sobbalzò all'istante, e con uno schianto e un tintinnio i vetri volarono via dai finestrini. Allora nel cervello di Berlioz qualcuno gridò disperatamente: «Possibile?...» Ancora una volta - l'ultima - balenò la luna, ma ormai rovinando in pezzi, poi fu buio.
Il tram coprì Berlioz, e, sotto il cancelletto del viale Patriaršij, sul pendio lastricato fu gettato un oggetto tondo e scuro, che rotolò giú dalla china, saltellando sul selciato.  Era la testa mozzata di Berlioz.

Come il lettore a quel punto avrà già intuito, quello stano individuo, così insistentemente e dogmaticamente storicista, era nientemeno che il Diavolo, Satana, l'Antico Avversario, giunto a Mosca sotto le spoglie di un mago per sconvolgere la pigra routine della Capitale sovietica. Il suo mestiere, per così dire, lì a Mosca, nella capitale dell'Ateismo di Stato e del miticista Lenin (il quale, ricordiamo, divenne miticista dopo essere stato persuaso in tal senso dal tedesco Arthur Drews), era di tastare, sperimentare, quasi toccare con mano, la strana flaccidia spirituale che aveva investito la società russa sotto la dittatura sovietica, una flaccidia dal riflesso quasi plastico e manifesto nella più totale mancanza della prima caratteristica dell'uomo libero: la fantasia e la capacità di sognare. L'Homo Sovieticus, in altri termini, non sognava più. Era letteralmente privo di fantasia. Ridotto ad un automa, ad un mero ingranaggio destinato all'eterna auto-consumazione di sé, in quell'enorme catena di montaggio che fu storicamente l'U.R.S.S.
E sintomo di quella invincibile incapacità di sognare, di percepire anche solo soltanto con la pura e sola forza dell'immaginazione l'enorme territorio del solo possibile -- del solo possibile, ricordiamolo ancora una volta, e non dell'anche probabile - era e restava l'incapacità congenita di poter concepire un Gesù storico. E ci voleva di sicuro molta, troppa fantasia per poter immaginare un Gesù storico della stessa lega di quello immaginato, anzi testimoniato!, dal Diavolo di Bulgakov: un sedizioso antiromano proveniente da Gamala, tanto per cominciare.
- Nome? 
- Il mio? - replicò in fretta l'arrestato, esprimendo con tutto il suo atteggiamento che intendeva rispondere a tono, senza piú provocare l'ira. 
Il procuratore disse con voce sommessa:  - Il mio lo so. Non far finta di essere piú stupido di quanto sei. Il tuo. 
- Jeshua, - rispose rapido l'accusato. 
- Hai un soprannome? 
- Hanozri. 
- Di dove sei? 
- Della città di Gamala, -
rispose l'arrestato indicando con un movimento della testa che laggiú, lontano, alla sua destra, verso nord, esisteva una città chiamata Gamala.

E allora, cosa ha fatto evidentemente Bulgakov?


Sventolare un bizzarro ed eccentrico Gesù storico, come fa appunto il Diavolo all'inizio del suo romanzo, diventa un sintomo di libertà dinanzi al cupo grigiore del miticismo (ed ateismo) in salsa sovietica, di una società colpevole prima di tutto di aver perso, oltre a Dio, oltre a Gesù, oltre allo stesso Diavolo, anche il gusto stesso della vita e della libertà e della fantasia. Per Bulgakov lo scrittore, allora, e per il Diavolo nel suo romanzo, il Gesù storico aveva una precisa funzione nell'essere sventolato quasi irrazionalmente (fino al grottesco) dinanzi a due attoniti miticisti negatori dell'esistenza di Dio e del suo opposto che è il Diavolo: alla loro Ragione, alla Razionalità del Mito di Cristo (imposto però con la forza) che tutto illumina e che rischierebbe di far sì che ''la terra interamente illuminata splende all'insegna di trionfale sventura'', si contrappone la Follia più libertaria e disconnessa, all'insegna del Gesù storico più indimostrato e bizzarro che mai si possa immaginare (nientemeno che il Gesù storico gamaliota sedizioso antiromano).

Osservate con quanta previdenza la natura, madre del genere umano,
ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia.
Infuse nell'uomo più PASSIONE che ragione perchè fosse tutto meno triste,
difficile, brutto, insipido, fastidioso.
Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza,
la vecchiaia neppure ...esisterebbe.
Se solo fossero più leggeri, allegri e dissennati godrebbero felici di un'eterna giovinezza.
La vita umana non è altro che un gioco della FOLLIA.
Il cuore ha sempre ragione.

(Erasmo da Rotterdam)

 

 Contrapporre ai miticisti sovietici il Gesù storico è indubbiamente un atto di libertà, un elogio della follia, ma non quella apologetica, la follia degli stronzi e dementi apologeti delle varie chiese cristiane sotto mentite spoglie che vogliono tappare la bocca ai miticisti dovunque si presentino, bensì, nella migliore traduzione erasmiana e pre-illuminista, un elogio della Follia PER SE, un elogio della capacità tutta umana di sbagliare - perchè, in definitiva, credere nel Gesù storico È un atto di profonda irrazionalità, comunque lo si voglia nascondere - perchè solo sbagliando l'uomo è libero, e solo sbagliando si può imparare dai propri errori. E infine correggersi.
L'esatto motivo per cui, al termine di una libera e infruttuosa, quanto sterile e pomposa, ''Ricerca del Gesù Storico'', più o meno avulsa e detersa da ogni condizionamento ideologico o religioso di qualunque sorta, si deve riconoscere serenamente che quel Gesù storico non è mai veramente esistito, senza dover neppure ostinarsi a persuadere i creduloni e coloro che vogliono, per loro limite innato, rimanere tali.

Con buona pace perfino del Diavolo storicista di Bulgakov.

mercoledì 2 luglio 2014

Del perchè l'evanescente Maometto è esistito, a differenza di Gesù

Nel breve feedbak avuto con Loren Rosson, Richard Carrier fornisce un link ad un recensore negativo di due autori negatori dell'esistenza di Maometto, Nevo e Koren, autori di Crossroads to Islam: The Origins of the Arab Religion and the Arab State, (Amherst, NY:  Prometheus Books, 2003).


Carrier è stato infatti paragonato dal Rosson a Robert Spencer, il Maometto-miticista di cui avevo già parlato qui. Mentre il Rosson si dice quasi persuaso dall'argomentazione di Spencer, tuttavia fallisce non solo, come rileva Carrier, di evidenziare come Richard Carrier sia semplicemente più qualificato di Spencer, essendo uno storico di professione, a parlare di Storia antica del I secolo (più qualificato, a dire il vero, perfino degli stessi biblisti e teologi cristiani sotto mentite spoglie, che definitivamente non sono storici), laddove invece lo Spencer è solo esperto di religioni in generale. Ma Loren Rosson manca anche di constatare, come invece ho fatto io, come il caso per un Maometto mitico sia decisamente più debole di qualunque caso a favore di un Gesù mitico.

La differenza principale infatti, come avevo spiegato in quel post, è che per Gesù non disponiamo dell'equivalente della Doctrina Jacobi per Maometto, un documento che, a mio modesto parere, da solo riesce dove il Testimonium Flavianum di turno, o il Testimonium Taciteum, aveva clamorosamente fallito nel confermare la storicità di Gesù: ovvero confermare la storicità di Maometto.
''Quando il candidato [cioè, un membro della guardia imperiale bizantina] fu ucciso dai saraceni [Sarakenoi], io ero a Cesarea e partii su barca alla volta di Sykamina. La gente stava dicendo ''il candidato è stato ucciso'', e noi giudei eravamo ultrafelici. E stavano dicendo che il profeta era apparso, in arrivo coi Saraceni, e che egli stava proclamando l'avvento dell'unto, il Cristo che deve venire. Io, essendo arrivato a Sikamina, mi fermai da un certo anziano ben versato nelle scritture, e gli dissi: ''Cosa puoi dirmi circa il profeta che è apparso coi Saraceni?'' Lui replicò, lamentandosi profondamente: ''Egli è falso, infatti i profeti non giungono armati di una spada. Veramente sono opere di anarchia ad essere commesse oggi e io temo che il primo Cristo ad arrivare, che adorano i cristiani, fosse quello mandato da Dio e noi invece stiamo preparando a ricevere l'Anticristo. In verità, Isaia disse che i giudei avrebbero mantenuto un cuore corrotto e indurito finchè tutta la terra dovesse essere devastata.'' Così, io, Abramo, ho indagato e ascoltato da coloro che lo avevano incontrato che nessuna verità poteva essere trovata nel cosiddetto profeta, solo lo spargimento del sangue degli uomini. Lui dice anche che egli ha le chiavi del paradiso, che è incredibile.''
(Doctrina Jacobi, mia libera traduzione e mia enfasi)

Mentre infatti si può dimostrare facilmente
che i testimonia flaviana e il riferimento a Cristo nel Testimonium Taciteum sono interpolazioni cristiane successive, difficilmente si può tentare anche solo qualcosa del genere nel caso della Doctrina Jacobi, dimostrando magari che si tratti di un'interpolazione musulmana successiva: infatti il documento è totalmente sfavorevole ad un anonimo profeta guerriero, dipingendolo come un falso profeta. E soprattutto, difficilmente si può dubitare dell'identità di quell'anonimo profeta con Maometto, alla luce della totale mancanza di altri validi candidati: quello che sarà per sempre IL problema per chiunque desiderasse provare che Maometto non è mai esistito.


Nelle parole di Colin Wells:
Per esempio, la polemica anti-ebraica nota come Doctrina Iacobi nuperi baptizati, sicuramente datata attorno al 634, viene comumente intesa come contenente il primo riferimento a Maometto in una fonte bizantina. Descrivendo l'impero come ''umiliato'', ''scemato e dilaniato a pezzi'', ''decaduto e saccheggiato'', e ''frantumato e diviso'', attribuisce quei disastri a un ''profeta apparso tra i Saraceni'', un ''falso profeta'' che è giunto ''con spada e carro da guerra'', e ''spargimento di sangue''. Più precisamente, il quadro dato nella Doctrina Jacobi sembra alterato, e molti suoi dettagli discordano con il racconto tradizionale (per esempo, nel sembrare di descrivere il profeta mentre conduce lui in persona le armate dei Saraceni). Per quella ragione, gli autori fanno il salto ingiustificato di squalificarlo interamente, suggerendo che il profeta inteso deve essere qualche altra figura distinta da Maometto. Tuttavia difficilmente ci si poteva aspettare una fonte bizantina da questo antico e turbolento periodo di catturare correttamente tutti quei dettagli. Perfino più tardi, la maggior parte delle fonti bizantine mostrarono una grossolana incomprensione delle materie islamiche, proprio come le fonti islamiche la mostrarono in generale delle materie bizantine. Gli autori inoltre ignorano l'evidente questione di quale altra figura distinta da Maometto (nonostante qui forse viene confuso con il califfo Umar) poteva essere presa al tempo come un profeta che aveva condotto gli arabi nella conquista di vaste parti dell'impero.
(Colin Wells, mia libera traduzione e mia enfasi)

Robert Spencer, per quanto possa giustamente puntare il dito sul fatto che i primi conquistatori arabi fossero seguaci dell'Agarismo, ovvero monoteisti i cui principali eroi furono Abramo e Ismaele, e abbastanza filo-cristiani da potersi permettere di coniare delle croci sulle loro monete, per quanto possa giustamente denunciare la sostituzione successiva di questo Agarismo iniziale con la vera e propria religione islamica successiva, per quanto possa criticare giustamente l'uso del criterio di imbarazzo per ricostruire dai fittizi hadith una biografia di Maometto, non riuscirebbe mai a convincere del tutto che l'anonimo profeta della Doctrina Jacobi fosse un personaggio distinto da Maometto, in mancanza di altri candidati. E nemmeno l'uso di un'espressione come ''figura proto-Maometto'' potrebbe cambiare di molto la conclusione che, in fin dei conti, all'origine delle conquiste arabe vi fu un profeta guerriero che risvegliò la coscienza religiosa dei suoi compatrioti.

D'altro canto, occorre pur sempre rinunciare all'immagine tradizionale del Maometto della fede, come si esprime in mirabili termini Tom Holland, nel suo In the shadow of the sword:
Che la nascita dell'Islam fosse una delle supreme rivoluzioni della storia mondiale è abbastanza evidente. Quel che è assai più devastante da realizzare, allora, è che dell'evidenza scritta composta prima dell'800 d.C., le sole tracce in nostro possesso sono o i più scarsi brandelli dei brandelli, o altrimenti il bagliore ingannevole di miraggi. Nessun impero può nascere nel silenzio, naturalmente; ma quello che principalmente ascoltiamo ora della fondazione del Califfato è il più mero rumore e furia, racconti narrati secoli dopo, e allora di significativo, se non nulla, davvero molto poco. Le voci dei guerrieri arabi che fecero a pezzi gli antichi imperi di Persia e Roma, e dei loro figli, e dei figli dei loro figli - tantomeno delle loro figlie e nipoti - sono state tutte silenziate, completamente e per sempre. Nessuna lettera, nessun discorso, nessuna cronaca, se fossero mai stati scritti, sono sopravvissuti; nessun indizio di quel che pensarono coloro che vissero veramente durante l'insediamento del Califfato, o di cosa sentirono, o di cosa credettero. È come se non avessimo alcuna testimonianza oculare della Riforma Protestante, o della Rivoluzione Francese, o delle due Guerre Mondiali. Nessuna meraviglia, dunque, se un prominente storico del processo mediante cui l'Islam, nel nono e decimo secolo cristiano, giunse infine a elaborare un riconosciuto passato per sè stesso, e a far luce del suo sorgere al potere globale, avesse dovuto lamentare la ''perdita dei più antichi strati della tradizione'', e l'avesse definita ''quasi nulla di catastrofico''. Lontano dall'esser nato nella piena luce della Storia, la nascita dell'Islam fu avvolta in quello che è sembrato, ad un crescente numero di studiosi, un'oscurità quasi impenetrabile. Più precisamente, ci sono davvero pochi studiosi che si spingerebbero così lontano da affermare che il Profeta non è mai esistito. Sembrerebbe di certo che qualcuno col come di Maometto si fosse imposto nella coscienza dei suoi quasi-contemporanei. Una fonte cristiana descrive ''un falso profeta'' a capo dei Saraceni in un'invasione della Palestina. Questa fonte fu scritta nel 634 d.C. - a soli due anni dalla data tradizionale della morte di Maometto. Un'altra fonte, scritta sei anni dopo, si riferisce a lui per nome. Nei successivi decenni, una successione di preti e monaci scriverebbero di una figura enigmatica che descrissero variamente come ''il generale'', ''l'istruttore'' o ''il re'' degli Arabi. Tuttavia quelle criptiche allusioni -- per non menzionare il fatto che furono tutte realizzate da infedeli -- non illuminarono che di poco, una volta di nuovo, la totale assenza di ogni antico riferimento musulmano a Maometto. Solo intorno al 690 un Califfo finalmente si prese la briga di inscrivere il nome del Profeta su un monumento pubblico; solo decenni dopo i primi esitanti riferimenti a Maometto incominciarono ad apparire su iscrizioni private; e solo attorno all'800, naturalmente, vennero ad essere scritte le biografie di Maometto che i musulmani ebbero cura di preservare. Quel che potrebbe essere accaduto alle più antiche versioni della sua vita non possiamo sapere con sicurezza; ma una possibilità è fortemente suggerita da nessun altro che Ibn Hisham. Gran parte che le generazioni precedenti avevano ricordato del Profeta, egli commentò duramente, fu o falso, o irrilevante, o sacrilego. ''Cose che è disdicevole discutere; materie che angoscerebbero certe persone; e rapporti tali come li ho sentiti che non devono essere accettati come degni di fede - tutte quelle cose io le ho omesse''. Come pure lui poteva aver fatto. Quel che era in gioco, nella devota opinione di Ibn Hisham, non era semplicemente il suo status di storico di fama, e neppure il suo buon nome come musulmano, ma qualcosa infinitamente per lui più prezioso: il fato della sua anima. Qui, allora, almeno, c'è la terra firma. Quel che sappiamo con assoluta fiducia è che dai primi del nono secolo, i precisi dettagli di quello che Maometto poteva aver detto e fatto circa due secoli prima erano giunti a fornire, per un gran numero di gente, una mappa che credevano conducesse dritto al cielo. Dio aveva preso diretto controllo degli eventi umani. Il mondo era stato posto su un nuovo corso. Dubitare di questa convinzione equivaleva a rischiare le pene dell'inferno. Data questa prospettiva, è scarsamente sorprendente che qualunque ambizione di scrivere Storia o biografia come possiamo intenderla ora dovesse essere svanita nel nulla in confronto all'obbligo infinitamente più pressante di rintracciare nel modello della vita del Profeta i desideri e gli obiettivi dell'Altissimo.
(Tom Holland, In the shadow of the sword: the birth of Islam and the rise of the global Arab empire, pag.32-33, mia libera traduzione e mia enfasi)

Ecco perchè penso che Maometto è probabilmente esistito. Ma che di lui non sappiamo nulla, tranne quel poco che possiamo inferire dalla Doctrina Jacobi.

D'altro canto, a farci mettere in discussione l'esistenza storica di Gesù, nella più totale assenza di una conferma extra-evangelica della sua storicità, sono proprio le lettere dell'uomo che più di ogni altro, e soprattutto prima di ogni altro, subì dall'arcangelo celeste Cristo Gesù il più profondo impatto che cambiò radicalmente la sua vita. Ovvero Paolo.

Della totale assenza del Gesù storico nel conflitto tra Paolo e i Pilastri

Richard Carrier ha postato nel suo blog la sua recensione della recensione di Loren Rosson, confutando una per una le sue obiezioni.

Che Paolo parla evidentemente del martirio di Gesù in generale ovunque alluda alla morte di Gesù non significa che il martirio per se implichi storicità.

Come non è difficile immaginarsi nella dimensione celeste tanto di croci, chiodi, Gerusalemme celesti, città, mure, piante, strade, ecc., così non dev'essere altrettanto difficile immaginare il martirio del Figlio consumarsi drammaticamente, alla maniera più cruenta, nei cieli inferiori, sotto la Luna, ad opera di Satana.

Quanto all'insistente pretesa di Loren Rosson sul presunto conflitto tra Paolo e i Pilastri per contendersi ciascuno l'eredità di Gesù, Carrier accenna alla totale mancanza di evidenza di ogni parte avuta da un ipotetico Gesù storico come oggetto della disputa. Si tratta di un punto che non sfugge, almeno parzialmente, nemmeno all'apologeta criptocristiano Mauro Pesce (il quale se la cava con l'evidente scusa ad hoc che il Gesù storico non aveva lasciato alcuna disposizione in merito alla circoncisione et similia, lasciando i posteri a scannarsi tra di loro su quelle questioni intorno alle quali ''mancò'' di esprimersi: ma ben più di questo, quello che intende dire Carrier, è che non c'è assolutamente nulla nelle epistole che indichi anche solo un punto dove un Gesù storico si sia ''espresso'', o abbia funzionato come ottimo strumento per mettere a tacere una qualsiasi questione problematica una volta per tutte, a favore di Paolo o in contrasto a Paolo - nel cui caso costringendo l'Apostolo a dover necessariamente difendersi).

In breve,
Paolo non poteva vincere un argomento facendo finta che non esistesse.

Paolo non poteva vincere eventuali Pilastri capaci in qualunque momento di far leva sulla loro conoscenza del Gesù storico (per stroncare alla radice ogni riottosa pretesa del parvenu Paolo) semplicemente ignorando il Gesù storico nelle sue lettere.

Se fosse esistito un Gesù storico sul quale i Pilastri potessero contare per domare il riottoso Paolo, l'avrebbero semplicemente usato ad occhi chiusi come instrumentum regni con estrema rapidità, prima ancora che l'eresia (di Paolo o di Apollo) prendesse piede, mediante un banalissimo appello alla sua autorità contro chiunque reo di pervertirne il messaggio originario. Il reo in questione si sarebbe ipso facto sentito mancare il terreno sotto i piedi, perchè sconfessato agli occhi di tutte le congregazioni di ebrei cristiani. Ed all'epoca gli ebrei erano la stragrande maggioranza della chiesa primitiva. E ancor più si sarebbe fatto automaticamente terra bruciata attorno all'eretico, stroncandone ogni pretesa, qualora ques'ultimo, come Paolo, godesse già di una cattiva fama per aver in precedenza peseguito la chiesa primitiva diffamandola presso le autorità.

E se l'avrebbero usato, non solo è improbabile che non sarebbero riusciti, nonostante l'uso di quello strumento, a domare Paolo, ma è ancor più improbabile che quest'ultimo se la sia cavata al punto da fondare lui solo il cristianesimo (e non i Pilastri), come poi invece è accaduto, ed è addirittura quasi impossibile che abbia avuto successo in tutto questo senza impugnare nemmeno una volta sola l'argomento ''ma noi abbiamo conosciuto il Gesù storico, tu no'' utilizzato dai suoi avversari, senza consegnarci nelle lettere nessun riflesso di una sua anche minima apologia che non sia, sempre e soltanto, l'appello all'onnipresente Gesù mitico.

In altre parole, non esiste la benchè minima evidenza nelle lettere paoline che Paolo fosse un Folle Apologeta di sè stesso e del suo Cristo contro un ipotetico messaggio del Gesù storico da lui pervertito a dispetto dei suoi più legittimi custodi, i Pilastri.


Tu non ti difendi contro l'accusa di aver tradito x se quell'accusa non ti è mai stata lanciata.
Viceversa, corri ai ripari per difenderti da quell'accusa solo quando quell'accusa ti è effettivamente scagliata addosso. E a quel punto non potresti mai fare a meno di tradire la tua conoscenza di x, manifestandola almeno in una circostanza.

Nel primo caso non necessiti di un'apologia a tua discolpa. Nel secondo caso, sì.

E Paolo si colloca evidentemente nel primo caso.

Paolo allora poteva ben essersi associato a congregazioni già esistenti, insegnando un nuovo vangelo, proprio come Apollo a Corinto insidiava la sua congregazione promuovendo un vangelo diverso dal suo, costringendo Paolo a correre ai ripari per respingere l'intruso: in quel caso, contro Apollo Paolo si sarebbe ritrovato, mutatis mutandis, nella stessa posizione in cui Pietro & Giacomo si ritrovarono rispetto al nuovo venuto Paolo. Ma perfino se Paolo avesse formato qualche nuova congregazione, lui era già famigerato ai cristiani per essere stato un nemico della chiesa della quale era ora divenuto tenace promotore. Se solo avesse continuato ad agire come un nemico,  o a destare il minimo sospetto in tal senso, magari il sospetto che minacciava di dividere la chiesa spargendo la sua eresia, le sue missioni sarebbero inevitabilmente fallite: coloro che godettero di uno status speciale fin dalla prima ora per aver ricevuto le prime rivelazioni del Gesù celeste avrebbero facilmente rinfacciato a Paolo di essere un usurpatore e un seminatore di zizzania, e a quel punto il povero Paolo non avrebbe potuto difendersi in alcun modo, dal momento che solo loro, i Pilastri, ''videro'' Gesù ben prima di lui e già lo stavano predicando anni prima della sua conversione, prima perfino della sua persecuzione. Paolo dunque era costretto - costretto, dico! - a ricercare, volente o nolente, la loro approvazione.

Si trattava dell'unico e solo modo con cui poteva ottenere potere ed influenza e non venire stigmatizzato come pretendente e usurpatore intento alla distruzione della vera chiesa: un'accusa che era quasi ad un passo dal subire e che lo mosse evidentemente a convincere i Galati di aver ottenuto finalmente l'approvazione degli originari apostoli, con tanto di lasciapassare e di libero transito tra i gentili.

Paolo aveva bisogno di questo anche per mantenere il sostegno dall'intera chiesa sparsa  lungo la frangia orientale dell'Impero: Paolo di frequente si riferisce al suo non esser di troppo e non pesare finanziariamente sulle tasche di chi lo ospitava di volta in volta nelle sue missioni tra i gentili, come pure al suo bisogno di soldi dai proseliti gentili da inviare regolarmente ai Pilastri di Gerusalemme, come d'accordo (impegno che Paolo già assumeva volentieri per ingraziarsi i Pilastri).

Soltanto ingranziandosi i Pilastri Paolo poteva ottenere il potere necessario come Apostolo tra i pagani, solo così poteva meritare l'influenza che ricercava e solo così poteva accedere con discreto margine di libertà alle risorse che le comunità cristiane potevano offrigli quando necessario ad ogni momento. Solo così il fariseo Paolo poteva fare carriera dentro la chiesa primitiva, praticamente. Una carriera fulminea che l'apostolo Paolo non avrebbe mai avuto, qualora avesse cercato di fondare la sua propria chiesa interamente da zero, un'attività che non richiedeva a dire il vero neppure la sua conversione: ma evidentemente era troppo faticoso per Paolo fondare da zero il proprio movimento, mentre al contrario gli era decisamente più facile passare di grado fino al ruolo di leader in un sistema già edificato mediante rapide promozioni. Il denaro, la giusta influenza, e l'adulazione erano già pronti e disponibili all'uso: Paolo davvero non necessitò di fondarsi una chiesa per conto suo se veramente mirava a guidare un movimento.

Paolo cercò di cambiare l'intero sistema, ed ebbe successo. Nella misura in cui si può ipotizzare che Paolo vide nel cristianesimo il modo migliore per correggere seri difetti sociali e/o morali dell'ebraismo tradizionale (stando alla sua parola, se non altro), segue per mirabile necessità che Paolo avrebbe ovviamente cercato in tutti i modi di cooptare e di espandere un movimento religioso già esistente, non di scimmiottarlo per costruire da zero uno simile. Per il bene dell'umanità, Paolo doveva cercare di riformare la chiesa esistente, non di fondarne una nuova.

Quel che è impressionante è che in questa azione Paolo ebbe in ultima istanza successo:
ci fu una rottura con alcuni estremisti giudeocristiani del movimento (gli stessi che poi si inventarono di sana pianta le visioni xenofobe e antipaoline del Cristo celeste guerriero dell'Apocalisse) ma quelli che ruppero i ponti con Paolo furono così pochi e ininfluenti che la loro setta non sopravvisse al Disastro del 70 (salvo per esalare l'ultimo canto del cigno nell'Apocalisse, appunto).


L'enorme successo di Paolo è chiaramente qualcosa che gli sarebbe riuscito impossibile sotto l'ipotesi di un Gesù storico: come diamine avrebbe mai potuto Paolo reclamare per sè la pretesa autorità di conoscere meglio lui Gesù di ogni uomo che lo aveva accompagnato passo passo in vita mentre ancora calcava il suolo polveroso della Judaea?

Soltanto a patto che Gesù fosse conosciuto unicamente per rivelazione Paolo poteva aver avuto successo in quello che fece, dal momento che solo a quella condizione il legame tra Paolo e Gesù sarebbe stato identico al legame che univa gli stessi Pilastri a Gesù: Paolo avrebbe avuto la medesima visione di Gesù che ricevettero prima di lui i Pilastri, Paolo sarebbe stato istruito appositamente da Gesù allo stesso modo in cui prima di lui i Pilastri furono istruiti da Gesù, e i Pilastri non avrebbero avuto nulla da rimproverargli, tanto a lungo in cui Paolo continuava a meritare la loro fiducia con la sua buona condotta morale, l'unico e solo test per verificare se si trattasse o meno di un falso profeta.

Paolo litigò seriamente con i Pilastri solo su un singolo punto, e su nient'altro: se i cristiani dovevano convertirsi all'ebraismo o meno. Quella fu l'unica disputa che ebbe con loro. E lo sappiamo perchè Paolo ce lo dice a chiari lettere in Galati 1-2. Non avrebbe potuto mentire, perchè altrimenti avrebbe ottenuto l'effetto esattamente opposto tra i Galati: la sua menzogna sarebbe stata immediatamente denunciata, e quindi Paolo sarebbe stato ipso facto screditato come mendace ed eretico.

Nessun'altra disputa su nessun'altra questione turbò Paolo e i Pilastri all'infuori della circoncisione o meno per i gentili, nelle circa 20000 parole della lettera ai Galati.

Dunque Loren Rosson non può semplicemente ''inventarsi''
dal nulla una disputa non attestata da nessuna parte in Paolo e usarla come premessa in un argomento. Se ci fossero state altre dispute tra Paolo e i Pilastri (tipo quelle descritte vividamente dal miticista Roger Parvus, o dallo storicista Robert Eisenman, ad esempio) non sappiamo nulla di loro. Nulla di nulla. Vuoto totale.


E non mi sto riferendo a dispute marginali o banali sulla politica della chiesa o su aspetti poco importanti della dottrina, ma dispute degne di questo nome, dispute capaci da un momento all'altro, se mal gestite o mal controllate, di sfociare in autentici scismi o dissidi insanabili.


La sola tensione tra Paolo e i Pilastri di Gerusalemme
nacque dalla pretesa di Paolo che il suo Cristo Gesù gli aveva comunicato per rivelazione celeste che i gentili potevano diventare cristiani senza passare per la circoncisione.

Un permesso divino che divenne ancor più tale dopo che ricevette l'approvazione anche dai Pilastri, e dunque, poco dopo, anche dai Galati a cui si rivolgeva Paolo.

Se fosse esistito un Gesù storico, è molto strano che i Pilastri approvarono in un primo momento la politica di apertura ai gentili che Paolo diceva di essergli stata comandata da Cristo per rivelazione: è molto strano perchè indica evidentemente che non passò loro neppure per idea la possibilità di contrastarla su due piedi, il che diventa ancor più strano, fino al limite dell'assurdo, sotto l'ipotesi che i Pilastri avessero accompagnato Gesù in vita e potevano quindi denunciare da un giorno all'altro che quanto andava proclamando Paolo era contrario ad ogni cosa detta o approvata dal Gesù storico durante la sua esistenza, mentre se tutto quel che sapevano su Gesù proveniva da visioni celesti, allora non potevano in nessun modo contraddire le visioni di Paolo senza a loro volta minare la propria fonte di autorità, a meno di non poter cogliere sul fatto Paolo in qualche atto immorale: al contrario, dopo la sua conversione, Paolo si assicurò con estrema facilità l'approvazione dei Pilastri con tanto di baci sulla guancia, ottenendo quasi del tutto carta bianca nella sua azione tra i gentili.

 Quindi la critica di Loren Rosson a Richard Carrier è che la storicità di Gesù dev'essere vera perchè c'era qualcosa di più, in quella tensione, oltre alle differenze dottrinali. Ma se non sappiamo nulla di nulla di quella tensione oltre alle trite e ritrite differenze dottrinali, allora non possiamo neppure dire ''c'era qualcosa di più, perciò dev'esserci stato un Gesù storico''. E se non possiamo dire che ci fu qualcosa di più, allora tutto quel che sappiamo è solo quanto riporta Paolo di quel dissidio con i Pilastri: ovvero nulla che possa implicare la storicità di Gesù (e addirittura marcia contro la sua possibilità).


Sarebbe argumentum ad ignorantium covare dei meri sospetti che dietro quella tensione tra Paolo e i Pilastri si potesse nascondere qualcosa di ancor più importante della pur problematica questione della circoncisione dei gentili.

Ma i fatti si svolsero pressapoco così:

Paolo insegnò ai Galati che non avevano bisogno della circoncisione: non dovevano diventare ebrei rinnegando la loro matrice culturale precedente.

Qualche giudeocristiano ''di ultradestra'', non necessariamente Pietro o Giacomo, disse loro che si trattava di zizzania eretica.

Paolo perciò assicura i Galati che costoro stavano mentendo e dovevano essere isolati.

E poi procede a spiegare come aveva ottenuto definitivamente il beneplacito alla sua politica da parte dei Pilastri di Gerusalemme, seppure indugia in qualche misura nel descrivere vividamente il drammatico scontro che si consumò tra lui e Pietro, per spiegare ai Galati la genesi della diceria a suo sfavore (evidentemente, un interessato soffiare sul fuoco) che lo dipingeva a tinte fosche in irreparabile rotta di collisione con i Pilastri.

Non sapremo mai se la comunità di Galati fu fondata o meno da Paolo: se lo fu, di certo aveva più libertà di contraddire i Pilastri. Ma ad ogni modo, quella comunità, per quanto isolata dalle altre comunità cristiane, doveva versare il proprio contributo in moneta ai ''poveri'' di Gerusalemme. E così doveva fare qualunque comunità fondata o o incontrata da Paolo. Perchè Paolo aveva bisogno di appoggiarsi a quelle comunità per pura sopravvivenza. Non poteva assolutamente partire da zero.

Ecco perchè speculare su possibili altre dispute tra Paolo e i Pilastri in merito ad un Gesù storico mai da nessuna parte entrato in ballo, significa solo annebbiare ancora di più il già limitato quadro in nostro possesso. Non si possono far seguire conclusioni così forti (come la storicità di Gesù) da premesse così deboli e di dubbia verità (presunte dispute tra Paolo e i Pilastri che vanno al di là dall'ebraizzare o meno i gentili).

Ho parlato diffusamente sul movente che spingeva Paolo a ingraziarsi i Pilastri per poter spiccare il volo come voleva tra i gentili.


Ma vedo ora di descrivere meglio il movente dei Pilastri (Pietro, Giacomo, Giovanni), alla luce di Galati 2:11-14, il cosiddetto incidente di Antiochia.
Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?
Cosa successe di preciso? La questione verteva principalmente sulla circoncisione, e come corollario si estendeva alla dieta alimentare da seguire. I giudeocristiani ''venuti da Giacomo'', al di là se istruiti o meno in tal senso da Giacomo in persona, andavano dicendo ai Galati che dovevano circoncidersi se desideravano condividere il desco in pari diritti con gli ebrei. Era dunque necessaria la piena conversione all'ebraismo, se davvero la circoncisione era così necessaria, più necessaria delle stesse regole alimentari: nessun compromesso paolino era permesso.

Questo poteva significare solo una cosa:
che i Pilastri avevano appena fatto carta straccia del precedente accordo con Paolo. In Gerusalemme avevano concesso con riluttanza in un primo momento a Paolo di lasciare i gentili liberi da ogni obbligo di diventare ebrei con tanto di circoncisione:
Anzi, visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi - poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani - e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi. Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare.
(Galati 2:7-10)

Perchè il drastico voltafaccia di Antiochia, allora?


Onore e vendetta. Nient'altro.

Nel suo primo incontro con Pietro, Paolo era riuscito a strappargli il riconoscimento della sua politica di apertura ai gentili senza dare nulla in cambio se non quello che stava già facendo piuttosto volentieri, ovvero ''ricordarsi dei poveri''. Col risultato che i Pilastri si ritrovarono de facto con nulla tra le mani, dopo quel primo abboccamento con Paolo. Perchè Pietro doveva considerare un dono gratuito da parte di Paolo quello che era già suo per la mera realtà delle cose?

Si trattava chiaramente di una vittoria diplomatica di Paolo.

Paolo approfittò di quel successo, e il successo attira successo. Infatti riuscì a isolare i ''falsi fratelli'' di Galati 2:4-5, proprio in virtù della carta bianca che aveva strappato ai Pilastri:
E questo proprio a causa dei falsi fratelli che si erano intromessi a spiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù, allo scopo di renderci schiavi. Ad essi però non cedemmo, per riguardo, neppure un istante, perché la verità del vangelo continuasse a rimanere salda tra di voi. 

Ma la sconfitta diplomatica del partito dei circoncisi alimentò in loro il desiderio di rivincita. Il loro onore era stato sporcato da quel profittatore di Paolo, dopo che aveva ottenuto il meglio per sè al primo incontro con Pietro, e dunque in questa cultura era inevitabile aspettarsi prima o poi una reazione da parte dei Pilastri per restituire il colpo subito e riparare al torto ricevuto, lavando l'onta di essere stati in qualche modo turlupinati da Paolo. Prima o poi avrebbero colto l'occasione di rovesciare il tavolo delle trattative con Paolo.

E Paolo se lo aspettava.
Non aveva appena finito la fortunata trattativa con Pietro, che si guardò bene le spalle da ogni sua possibile reazione.

In quella cultura chi riceveva un'onta di tal fatta non perdonava né dimenticava. I giudeocristiani più oltranzisti fecero sempre più pressione sui Pilastri, dopo la partenza di Paolo, per costringerli a revocare il loro patto, a farne carta straccia.

Questa diffidenza dei Pilastri non significa affatto che erano bugiardi e dunque immorali, come potrebbe sembrare a noi moderni. Menzogne e inganni erano cose onorevoli e attese in culture basate sulla vergogna e sulla difesa ad oltranza del proprio onore. La categoria di Cultura di vergogna (shame culture) o Civiltà di vergogna fu applicata al modello sociale su cui si basa la civiltà omerica. Infatti i grandi eroi, quali per esempio Achille o Agamennone, non si sentivano realizzati sapendo nella propria coscienza di essere gloriosi, e pieni di onori, ma dovevano sentirsi considerati tali dagli altri del gruppo. Solo in questo modo sapevano di esistere. Appare quindi ovvio capire che non bastava il sentimento interiore, ma il giudizio degli altri. Nel caso in cui un eroe avesse perso la pubblica stima, arrivava anche a uccidersi, come fece Aiace. Si tenga conto che l'onore, da cui poi deriva la gloria, non è un concetto astratto, ma il risultato di atti e comportamenti concreti secondo questa logica.
Paradossalmente, per esempio, un omicida nella cultura della vergogna non si sente neanche tale fino a quando non viene “scoperto” dagli altri e su di lui ricade la denuncia e la riprovazione pubblica dei componenti della società, così come l’onore, anche il reato è tale solo quando “di dominio pubblico”. Ovviamente avviene diametralmente l’opposto nella civiltà della colpa in cui l’omicida di prima sarebbe il primo a patire e “autocondannarsi” consapevole del proprio sbaglio, proprio come all’eroe sarebbe dovuta bastare la consapevolezza del proprio valore.
Come apostoli rivali, i Pilastri non erano per nulla obbligati a mantenere una qualunque delle ''promesse'' fatte a Paolo, anzi se l'avessero fatto, questo sarebbe stato oltre che ingenuo, quasi infantile da parte loro, anche un evidente sintomo di debolezza agli occhi dei loro seguaci. I Pilastri potevano e dovevano dunque sparigliare i giochi come e quando lo volevano. Paolo, dal suo canto, non si faceva alcuna illusione sulla durata della difficile tregua, a lui così conveniente, che aveva strappato così abilmente al suo primo incontro con Pietro. Quella tregua, quella concessione, era del tutto precaria. E Paolo lo sapeva.

Ma com'era riuscito Paolo a ottenere così tanto per sé senza dare nulla in cambio al suo primo incontro con Pietro? In realtà Paolo ottenne da quell'incontro con Pietro solo il mantenimento dello status-quo precedente, evidentemente assai vantaggioso per lui: l'apocalisse era vicina, dunque i gentili dovevano essere salvati in quanto gentili. Nessuna necessità di diventare ebrei all'ultimo momento, prima della fine.

Così dando libertà d'azione a Paolo,
Pietro non stava facendo nient'altro che sancire l'approvazione di quanto già i giudeocristiani stessi stavano permettendo, prima ancora dell'ingresso in scena di Paolo: ovvero convertire i gentili senza richiedere loro la circoncisione. Pietro disse di sì a Paolo perchè Paolo si proponeva di fare su vasta scala tra i gentili dell'impero nient'altro che quello che Pietro aveva da tempo iniziato a fare tra i primi gentili avvicinatisi al movimento: battezzarli senza farli diventare ebrei a tutti gli effetti. Di certo c'erano fin dall'inizio cellule impazzite di giudeocristiani oltranzisti duri e puri (coloro che poi avrebbero rovesciato tutto il loro odio xenofobo e antipaolino nello schizofrenico libro dell'Apocalisse). Ma queste cellule impazzite accrebbero la loro influenza nella misura in cui l'enorme successo di Paolo tra i gentili rischiava davvero di rovesciare i rapporti di forza tra gentili ed ebrei a tutto vantaggio dei primi e a totale discapito dei secondi. I poli inevitabilmente dovevano polarizzarsi. E i Pilastri non più a lungo si sarebbero dovuti mantenere indifferenti al drammatico mutare della situazione (così fatale per l'ebraicità del movimento).


E dunque i Pilastri ruppero la loro promessa (e dunque anche la loro pratica del passato) per amore del loro onore appannato, per riparare all'onta subita. Così facendo, si considerarono in dovere di tenere in vita la chiesa in un'epoca di grandi stravolgimenti, entro i limiti dell'ebraismo, in un'epoca che prometteva, a dispetto di tutte le più impazzite e allucinate previsioni apocalittiche più nere, di prolungarsi indefinitamente. Naturalmente Paolo non poteva accusare Pietro di mendacia e di tradimento dei patti stabiliti. E come poteva? Sarebbe sembrato folle imporre ad un disonorato (agli occhi di tutti) di non doversi sentire in disonore. Paolo non si aspettava minimamente che i Pilastri avrebbero tenuto fede ai patti convenuti con lui la prima volta. Sapeva fin dal primo istante che non avrebbero mantenuto la parola data. Perchè così era nell'ordine delle cose. Nelle leggi non scritte di una società basata sulla vergogna. Al più, quello che poteva fare Paolo per reagire a sua volta alla defezione di Giacomo e Pietro dalla sua linea politica, era di accusare Pietro di ''ipocrisia'' e di incoerenza.
Ma i più accorti sapevano benissimo che non si trattava affatto di mera ipocrisia. Al contrario, si trattava di pura reciproca diffidenza: manifestazione di slealtà al servizio del costante tentativo di aggiornare i credi e le pratiche e renderle meno imbarazzanti al senso comune sempre cangiante, tipica caratteristica di ogni movimento millennaristico della Storia.

E in tutta questa disputa tra Paolo e i Pilastri, l'UNICA davvero consumatasi, non c'entra nulla il Gesù storico. Dunque nessuna necessità di farlo entrare in scena.

Richard Carrier, intanto, si dice impressionato dal fatto che Loren Rosson abbia inserito OHJ nella sua lista delle dieci letture raccomandate, accanto al nome di un Dale Allison, per dire. 

Carrier shows that Jesus-mythicism is a viable theory after all.

Qualcosa che evidentemente i folli apologeti non potranno mai digerire.

Ma ormai è chiaro quanta verità sta in questa frase di Robert Price:

Ci troviamo di fronte ad una guerra per procura in cui l'apologetica teologica schiera le sue truppe, come i soldati di Vladimir Putin invasori della Crimea: non contrassegnati da insegne nazionali, la loro identità era comunque fin troppo chiara.
(Robert Price)