sabato 17 gennaio 2015

Dell'Invasione Marcionita: Mia Recensione di Marcion and the Dating of the Synoptic Gospels di Markus Vinzent

Ego meum dico verum, Marcion suum. Ego Marcionis affirmo adulteratum, Marcion meum. Quis inter nos determinabit?
(il folle apologeta proto-ortodosso Tertulliano, Adv. Marc. IV 4,1)



La lettura del libro ''Marcione e la Datazione dei Vangeli Sinottici'' (Peeters 2014) del prof Markus Vinzent è stata rapida. Lo stile è sobrio, analitico e molto fluido. Raramente mi ha appesantito (a dispetto del fatto che l'opera figura come istanza di ''studia patristica'') ma al contrario, come è tipico di Vinzent, mi invoglia a saperne di più e ancora di più e a non perdere affatto di vista la sua ricerca futura.

Questo libro è fatto di 3 capitoli. Il primo capitolo si preoccupa di passare in rassegna criticamente tutti i riferimenti impliciti o espliciti fatti a Marcione e/o al suo Vangelo nelle opere dei vari Egesippo, Giustino, Ireneo, Epifanio, Tertulliano, ecc.
Al termine di quel capitolo realizzi che il caso Marcione va assolutamente riesaminato. Perchè l'ambiguità delle parole di Tertulliano o di Ireneo è troppa.

Il secondo capitolo si disperde (anche troppo!) nel tracciare un bilancio di tutte le datazioni dei sinottici finora proposte, da quella più idiota (con Giovanni addirittura il primo vangelo!) a quella più intelligente (Goodacre ovviamente!) passando per la palude mefitica della fonte Q in cui sguazzano come porci i folli apologeti cristiani alla Kloppenborg, non trascurando en passant di mostrarne tutte le inconsistenze e inadeguatezze. È di certo il solo capitolo più noioso.

Il terzo capitolo vuole essere un piccolo assaggio gustativo di ciò che il prof Vinzent mi riserverà in futuro: nientemeno che un grandioso Commentario di Mcn in parallelo coi sinottici, volto a evidenziare definitivamente la reale misura di quanto i secondi fossero debitori al primo perchè del primo vangelo essendo nient'altro che le sue mere copie e reazioni.
Il terzo capitolo esordisce anche con un approccio diretto contro l'obiezione più comune e a cui più rapidamente fa ricorso il folle apologeta della datazione tradizionale: ossia che all'analisi ''del computer'' il manoscritto più antico di questo o quel sinottico risalirebbe ''probabilmente'' al 1 secolo. In realtà, replica il prof Vinzent quotando le parole di esperti in paleografia:

...noi dobbiamo sempre ricordare che la datazione dei manoscritti non è una scienza esatta e che veramente come minimo noi necessitiamo di concedere un margine di una generazione su ciascun lato della data suggerita.
(pag. 218, mia libera traduzione)


Nella misura in cui io sono stato capace di leggere, la ricerca critica mantiene che nessun'altra disponibile evidenza punta ad una datazione pre medio-secondo secolo di quei vangeli.

(pag. 224, mia libera traduzione)

Sulla Sindone si può sbagliare di secolo meno o secolo più, ma rimane sostanzialmente un artefatto medievale, con buona pace dei folli apologeti boccaloni alla Vincenzo Di Mauro. Ma per i brandelli di un vangelo un secolo meno o un secolo più di errore d'approssimazione nella datazione fa una differenza sostanziale.

Siamo lasciati solo con i testi. A noi il tremendo compito di vedere quale vangelo fu veramente il primo.

Penso che fondamentale per ritenere definitivamente più probabile l'indirizzo e la conclusione presi dall'autore del libro sia considerare possibile ogni somiglianza, lieve o evidente, tra i sinottici (e non solo i sinottici, ma in definitiva tutti i vangeli e i ''pocket gospels'' disseminati tra gli apocrifi e le lettere false) solo a patto di accettare come veri due aspetti, fondamentalmente:

1) una discussione tra maestri, sette, comunità, correnti che, seppure quando raggiunge punte di ostilità o di pura opposizione alla sola idea di accettare la dignità della tesi dell'avversario, tradisce comunque il sincero desiderio STORICO di trovare e voler trovare un accordo comune, al di là delle varie divergenze. Condizione necessaria per un dialogo.

2) una distanza geografica la più possibile minore a separate fisicamente gli stessi maestri, sette, correnti, comunità. Condizione sufficiente per un dialogo e un confronto.

E qui mi ricordo del saggio monito del dr. Carrier: di quanto dovrò diminuire la probabilità della mia tesi se dovessi puntellarla con ipotesi gratuite ad hoc?

Penso però che siano esattamente i sostenitori della datazione tradizionale (nelle loro infinite varianti di quest'ultima) ad abbisognare disperatamente di ipotesi ad hoc che siano l'esatto contrario di quei due aspetti. Merito del prof Vinzent nel primo capitolo è esattamente quello di portare sana EVIDENZA che il polemico ma persistente dibattito scatenato da Marcione fu, almeno fino a Ireneo, un dibattito certamente pieno di insulti reciproci misto a parziali ammiccamenti alle idee dell'avversario, ma mai rotto dall'accusa che diventerà solo più tardi di per sè emblema per antonomasia della più intollerante e dispotica manifestazione di cristianesimo nonchè autentico marchio di infamia di questa religione nei secoli dei secoli: l'accusa di ERESIA.

Se non c'era ancora necessità di fare terra bruciata attorno al ''nemico'' definendolo ERETICO, allora questo significa solo che il ''nemico'' era vicino al punto da poter ancora sperare un pò tutti, compreso lo stesso ''nemico'', che si potesse diventare ''amici'', previa opportuna persuasione.
Questo significa anche che i marcioniti (menzionati prima) cominciarono a chiamarsi Cristiani? Almeno - contrariamente a Tertulliano - Giustino non nega loro il titolo 'Cristiani', perfino se egli suggerisce di chiamare loro piuttosto secondo il nome del loro rispettivo maestro.
(pag. 41, mia libera traduzione)


Comunque, Giustino non parla di odio, ma prega per il pentimento dei suoi rivali (compresa un'unificazione con gli ebrei di Trifone) e spera che essi saranno infine salvati; da qui mentre l'abisso tra la sua personale comunità e quella di Marcione (Valentino ecc.) fu un abisso profondo, Giustino non lo considerò finale.
(pag. 43, mia libera traduzione)

Perchè un tale dialogo polemico ma sincero (o se la parola suona troppo azzardata, quantomeno volta alla ricerca di un compromesso realistico) avvenisse tra Marcione e i proto-ortodossi senza ancora che dei dogmi si fossero già cristalizzati (e dunque senza che il dogma si portasse ancora seco la denigrazione del suo negatore quale ERETICO - per quello bisognerà aspettare un Ireneo e un Tertulliano) condizioni necessarie e sufficienti perchè tutto questo potesse naturalmente avvenire non sarebbero altro che i due aspetti sopra menzionati.

Dunque la conclusione (che in realtà, più che conclusione, rappresenta solo l'inizio dell'intera faccenda) non può che essere quella così vividamente espressa dalle parole del prof:
Letteratura mondiale, come io scrissi nella mia monografia del 2011, e quella è ciò che è stata scritta con Luca/Atti, Matteo, Marco e Giovanni - testi che sono così simili e intrinsecamente collegati a dispetto delle loro differenze -, non cresce naturalmente in campi così assai distanti come Roma e Gerusalemme, Alessandria e il Peloponneso, Berito e Antiochia; [nota 21: Si veda la fiction di Gregorio di Nazianzo, Carmina dogmatica I  12, 6-9: 'Matteo scrisse le meraviglie di Cristo per gli Ebrei, Marco per l'Italia, Luca per l'Acaia, ma Giovanni, il grande araldo e pellegrino del cielo, scrisse per ciascuno.'] e neppure accade di serpeggiare in tali simili forme, come ho dichiarato nella mia precedente monografia. David Trobisch ha mostrato che l'ordine degli scritti nel nostro Nuovo Testamento è basato su un'antica, consapevolmente pubblicata 'edizione canonica', più probabilmente fatta a Roma.
(pag. 281, mia libera traduzione)

È perciò quel momento stesso, sulla soglia fatidica tra la profonda anarchia del passato (e ancora del presente) e il dogma incipiente (con tanto di relative qualificazioni di ''eresie'') che richiede per intima necessità, come sola spiegazione della sua unicità e criticità (nonchè del suo improvviso emergere dal silenzio e dal dubbio precedenti), solo e soltanto una sfolgorante scintilla capace di aver scatenato e provocato un così incendiato dibattito e segnato una così profonda manifesta inquietudine e lancinante tensione nei volti e negli scritti di tutti gli attori coinvolti in quel drammatico incontro-scontro tra le più disparate opinioni, al latente parto scaturito di ciò che egemonizzerà tutto e tutti sotto l'ombra funesta della ''Grande Chiesa''.

Per il prof Vinzent - e a questo punto anche per me - quella sfolgorante scintilla non poteva che essere una nuova, potente e possente narrazione.

Più precisamente, un vangelo.

Il primo vangelo che fosse mai stato scritto.

Citando il vate mai come in questo momento, fu l'irruzione dall'ombra di quel primo vangelo a rappresentare, in breve tempo
Poca favilla gran fiamma seconda (Paradiso I, 34).

E da allora il mondo non fu più come prima.

Se la parola ''vangelo'' era solo allora uscita dall'ombra come riferimento ad un testo scritto con tanto di detti ed azioni terrestri di Gesù fu perchè era solo allora stato creato oppure perchè era stato fino ad allora tenuto nascosto ed occultato? Il folle apologeta cristiano è inchiodato tra le due corna della bestia. Se ammette che solo allora era stato creato il primo vangelo è costretto a rinunciare alla datazione tradizionale e a far accomodare Marcione e il suo Vangelo nel Problema Sinottico, senza più alcuna possibilità di barare. Viceversa, se ammette che il vangelo era stato fino ad allora tenuto nascosto e segreto, era solo in virtù della sua natura di allegoria dei sacri misteri e della vita di Paolo quale unico riflesso umano disponibile del mitologico ''Cristo Gesù'' celeste.

Dunque, poichè si introducono troppe ipotesi ad hoc (e per giunta tremendamente in odore di cospirazionismo) per difendere l'indifendibile, imbarazzante silenzio su un vangelo scritto (per tutto il tempo anteriore a Marcione) - e quella di R. Parvus sulla segretezza obbligata di osservazione simoniana intorno al primo vangelo di Marco da parte dei suoi autori originari, con tanto di voto di silenzio, non fa eccezione nella sua natura di ipotesi assolutamente gratuita per spiegare un così profondo e vasto silenzio, al pari delle varie, ridicole scuse accampate dai folli apologeti cristiani - non mi resta che accettare l'unica, vera alternativa disponibile e sensata: che il finimondo sul vangelo, oggettivamente registratosi appena prima della pubblicazione del primo ''Nuovo Testamento'', fu immediatamente conseguente alla stesura del primo vangelo quale unica causa di tutto quel medesimo finimondo.

Non s'è mai vista nè udita una bomba che esplode
10, 20, 40, 50, 70, 80, 100 anni dopo l'accensione della sua miccia. Se una bomba è esplosa e ne hai registrato l'impatto dell'esplosione, allora la miccia di quella bomba non può che essere stata accesa appena qualche minuto o secondo prima di quel momento.

 
Divampano da una sola scintilla incendi diffusi (Lucrezio, De rerum natura, libro 5, verso 609)

La miccia fu il vangelo di Marcione. La bomba il dibattito e le mille reazioni che ne seguirono poco dopo.

E c'è EVIDENZA dell'uno e dell'altro. [1]

Questo argomento della bomba, da solo, già mi persuade del tutto della profonda verità della tesi del prof Vinzent.

E poi, preludio al suo futuro Commentario, c'è dell'altro:
Vangelo di Marcione 1:39-41

1:39 [Gesù] Diceva <loro> anche una parabola: «Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio; altrimenti il nuovo lo strappa e al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo. 1:40 E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi.
Altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti.
1:41 Invece, si versa il vino nuovo in otri nuovi <ed entrambi saranno preservati.>».
Luca 5:36-39

36 [Gesù] Diceva loro anche una parabola: «Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio; altrimenti il nuovo lo strappa e al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo. 37 E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti.
38 Il vino nuovo
deve essere versato in otri nuovi. 39 Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: “Il vecchio è gradevole!”».
In questa parabola, noi abbiamo un testo letteralmente identico per il Vangelo di Marcione e Luca, ad eccezione degli ultimi due versi. Noi tutti sappiamo la storia. Nuovo vino non può essere riversato in vecchi otri, poichè il fermentare del vino eromperà e spaccherà loro ed essi entrambi periranno, mentre quando vino è posto in nuovi otri, entrambi saranno preservati. Fin qui la logica conclusione. Luca deve aver adottato questa storia, ma necessitò di cambiare il finale, in quanto Marcione usò questa storia, come ci è detto da Tertulliano, per mostrare che la novità del cristianesimo rende la nuova religione distinta dall'ebraismo: il Nuovo Testamento non può essere messo assieme coll'Antico Testamento, o peggio ancora esso non può essere integrato nei vecchi otri dell'Antico Testamento. Per permettere quest'inclusione, Luca recide il corto finale di Marcione e lo sostituisce con un'aggiunta che perfino gli studiosi più conservatori del Nuovo Testamento hanno percepito essere una rottura radicale nella logica di questa pericope.
Dopo aver approvato che nuovo vino deve andare in nuovi otri, Luca aggiunge, quasi costernando il lettore: `Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: “Il vecchio è gradevole abbastanza!”»´

 Così - perchè la storia circa il nuovo vino e gli otri allora? È la novità del cristianesimo non quel che si vuole, perchè la religione tradizionale, l'ebraismo con le sue Scritture, `è gradevole abbastanza´? In verità, nessuno prima di Marcione, ad eccezione di Ebrei, aveva brandito la sola diretta citazione di Paolo del Signore da 1 Corinzi 11 circa il suo sangue che è `il nuovo patto´; persone che erano chiamate cristiani dovevano rimanere nella loro vecchia tradizione religiosa dell'ebraismo, in quanto essa era `gradevole abbastanza´ senza percepire la necessità di veder sé stessi oppure il messaggio di Cristo come `nuovo vino´ che bisognava di `nuovi otri´, nuove forme di letteratura, nuovi sacramenti, nuovi riti liturgici, un Nuovo Testamento ecc.
(pag. 275-276, mia libera traduzione e mia enfasi)


La parabola degli otri non ha altri autore che Marcione. È presente in Matteo, dunque Matteo è post-Marcione. Sfido chiunque a negare che Matteo fu quello che pretese più di tutti gli altri sinottici di ubriacarsi di vino vecchio.

È presente in Marco. Marco, il paolino Marco, non dovrebbe disdegnare tanto facilmente il vino nuovo - in fin dei conti Paolo aveva rotto da un pezzo con la Torah, con gran sdegno dei Pilastri - ma il problema con Marco è che non era affatto antitetico all'ebraismo per se ma solo rivale degli altri ebraismi all'interno dell'ebraismo [2]. Dunque non riesco ad immaginare per quale cazzo di ragione un ''giudeo-paolino'' Marco si sarebbe inventato una parabola degli otri così fortemente esplicita e radicale nella sua genuina antitesi tra vecchio e nuovo, quando un Giovanni il Battista (per quanto egli stesso paolinizzato a dovere) proprio all'esordio di Marco faceva da subito pomposamente mostra di sé quale simbolo di pretesa e insistita - quanto edulcorata e interessata - continuità tra vecchio e nuovo.

Il peccato originale di Marco, quello che gli costerà fatalmente ai miei occhi il titolo agognato di ''primo vangelo'', è quello di aver versato colpevolmente il vino nuovo in un otre vecchio, disobbedendo al significato autentico e originale della parabola degli otri. Che piaccia o no, Giovanni il Battista è un otre vecchio: paolinizzarlo a dover - farne un Alter Paulus nella misura in cui Paolo era fatto un Alter Christus (e nel caso del Battista, a differenza di Paolo, senza il permesso del diretto interessato!) - non lo rende giammai meno vecchio.

Marco avrebbe dovuto escludere del tutto quel rompipalle del Battista dall'incipit del suo vangelo, se Marco fosse stato davvero il primo vangelo.
E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi.
Altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti.
Il vino nuovo si versa/bisogna versarlo in otri nuovi.

(Mcn 1:40-41, Luca 5:37-38)



Come minimo, questo libro rafforza la mia opinione che il cristianesimo primitivo era un vero miscuglio di diverse fedi e punti di vista che si fusero in qualcosa di vagamente simile a quello che abbiamo oggi ma solo a partire dalla fine del 2° secolo. 

Però voglio, nel mio piccolo e con i miei ben più logori strumenti, aggiungere un minuscolo quid alla fredda analisi dell'evidenza che il prof Vinzent ha fatto e si accingerà a fare secondo tutti i pronostici.
Vorrei sottoporre ad un rapido, efficace test bayesiano tutte le principali manifestazioni dell'evidenza riscontrate dal prof che a suo dire confermerebbero con ogni probabilità l'assoluta priorità del Vangelo di Marcione rispetto a tutti gli altri sinottici e apocrifi che a quel primo vangelo si ispirarono.

Ma questo per un altro post.

[1] perfino se di quel dibattito e di quelle mille reazioni ci giunge l'eco di una sola campana, quella protocattolica che risultò vincitrice.

[2] questo costringe Parvus ad inserire parecchie ipotesi ad hoc per puntellare la sua tesi (ma complessivamente indebolendo la sua probabilità effetto) circa un originario vangelo di Marco più simoniano ed anti-ebraico, senza il riferimento d'esordio a Giovanni il Battista.

1 commento:

Klaus Schilling ha detto...

Hermann Detering ha scritto alcune pagine ( http://radikalkritik.de/wp-content/uploads/2016/06/Weinregel2.pdf ) per mostrare l'origine della regola del vino vecchio e nuovo. Luca 5:39 ci si mostra come un'interpolazione contro il Marcione.