martedì 10 marzo 2015

Il falso Paolo e l'impossibile Gesù

Se sapessimo niente di più su Attila di quello che si legge nel Nibelungenlied, dovremmo essere costretti a dire: È molto incerto se sia mai vissuto, se non è altrettanto un personaggio mitico come lo fu Sigfrido. Le fonti per una vita di Gesù non sono migliori.
 (Eysinga)

Come da titolo, intendo far vedere come tutte le più grandi questioni & obiezioni erano già state sollevate piuttosto seriamente in passato, in particolare in questo capitolo liberamente estratto e tradotto del critico radicale olandese G. A. van den Bergh van Eysinga, Radical Views about the New Testament.

La lettura di quel libro mi conferma ancor di più nella convinzione che l'intero Nuovo Testamento è pura letteratura, un grande, intricato puzzle come i romanzi di George R. Martin. Rimuovere un personaggio dalla fiction per eguagliarlo ad una persona reale magari originatore del movimento è una scorciatoia fin troppo a buon mercato: non licet, verrebbe da dire.
E questa è la mia posizione, come sempre, che stiamo leggendo pura letteratura. Nient'altro. L'intero ''Nuovo Testamento'' non è altro che un racconto di eroi e divinità che porta le credenze religiose del culto ai suoi adepti (peraltro collezionato la prima volta da Marcione), non diversamente da quello ce faceva la letteratura di ogni altro culto greco-romano di quel periodo. Ci sono persone reali che servivano come modelli per i personaggi? Forse. Ma dobbiamo vagliare le allusioni letterarie per prima cosa, come consiglia il serio studioso Thomas L. Thompson, per vedere se, tolte quelle, ci resta qualcosa che si possa attribuire ad un personaggio storico. E la mia convinzione è davvero
che ogni vangelo altro non sia che un sacro dramma per un particolare culto religioso del tempo.
Capitolo IV
Paolo e Gesù

Di tutte le obiezioni che sono state sollevate dalla Scuola Radicale contro l'autenticità delle Epistole Paoline, la più importante, secondo Holtzmann, nel passo appena citato, è la seguente:
Possiamo supporre che Gesù e Paolo fossero così vicini contemporanei l'uno dell'altro; oppure, in altre parole, non ha la figura di Gesù nel sistema paolino già assunto tali colossali dimensioni da non poter ipotizzare che un intervallo di non più di alcuni anni separò i due? È vero che questo è sempre stato, dal principio, uno dei più forti argomenti utilizzati dai critici olandesi. E tuttavia nella controversia che è stata sollevata in Germania dalla pubblicazione del libro di Drews, Die Christusmythe, gli oppositori di Drews hanno impugnato esattamente l'opposta posizione. Infatti insistono che chiunque desideri disputare con successo l'esistenza storica del maestro di Nazaret deve cominciare dimostrando l'inautenticità delle lettere paoline; e ci dicono che Drews è eccezionale nell'ammettere l'autenticità delle lettere, e a basarsi su di loro come una delle principali dimostrazioni della sua teoria che Paolo non sapeva nulla di un Gesù storico. Ma il vero stato del caso è l'opposto di quel che ci raccontano. Infatti la teoria che Gesù non ebbe alcun'esistenza storica è più probabile sull'assunzione che le epistole paoline sono autentiche che sull'opposta assunzione che esse sono false. Infatti la differenza tra il cosiddetto Gesù storico della teologia liberale, quella figura che ha così arbitrariamente ricostruito e recuperato l'interpretazione razionalistica dei vangeli, e il Gesù paolino, è così grande che non è possibile riconciliare i due l'un con l'altro.  Questo fu già osservato da Schopenhauer nelle sue Parerga und Paralipomena, che apparvero nel 1851. Schopenhauer era dell'idea che Gesù deve aver compiuto cosiddetti miracoli mediante la sua soprannaturale forza di volontà, e poi continua:Del resto, soltanto a queste condizioni ci riesce fino a un certo punto spiegabile, come mai Paolo, le cui lettere principali debbono certamente essere autentiche, abbia potuto rappresentare del tutto seriamente come Dio incarnato come essere identico al Creatore del mondo, un individuo morto così poco tempo prima che molti suoi contemporanei erano ancor vivi allora, mentre simili apoteosi, intese del resto seriamente, richiedono di solito molti secoli per poter gradualmente maturare.

D'altra parte, Schopenhauer esprime l'opinione che è possibile utilizzare questo stesso fatto come un argomento contro l'autenticità delle lettere paoline.
Drews ha ragione quando dice:
Circa tutto ciò in cui la moderna teologia critica vede l'essenziale grandezza e significato della dottrina di Gesù, la sua fede nella bontà paterna di Dio, la sua esortazione ad amare il nostro prossimo e perciò a realizzare la legge, la sua predicazione di mitezza e compassione, i suoi moniti contro l'eccessivo desiderio di beni materiali, e così via circa tutto questo Paolo è completamente silente come lo è circa la persona di Gesù.

  Holtzmann ha tentato di confutare quest'affermazione di Drews sottolineando che parecchi pensieri e idee delle lettere paoline si possono anche trovare nei vangeli. Ma quando asseriamo che Paolo non reca una testimonianza della storicità di Gesù, naturalmente non per questo neghiamo che Paolo potrebbe aver utilizzato un vangelo pre-canonico dal quale copiò affermazioni di Gesù. Questo prova solamente che lui sapeva di un Gesù storico tanto quanto ne trovò in questa stessa fonte. Quando scrive in 2 Cor. 5, 16:

Cosicché non guardiamo più nessuno nella carne; se anche abbiamo conosciuto Cristo nella carne, ora non lo conosciamo più così.

questa è un'affermazione davvero straordinaria se la pensiamo essere stata fatta da Paolo. La domanda è suggerita in breve: Paolo, allora, conosceva Gesù secondo la carne? Questo ci porta al punto sollevato da Wrede, che espresse l'opinione che il nome ''discepolo di Gesù'' non poteva essere applicato a Paolo, se fosse inteso a indicare con questo qualche connessione storica tra i due. Lui è distante assai più da Gesù di quanto il secondo lo è dai più nobili esempi di pietà ebraica. La vita e l'opera di Gesù, come descritti nei vangeli, non erano il fattore determinante nella teologia di Paolo. Il Maestro, del quale Paolo si dichiarò egli stesso discepolo e servo, non fu l'uomo storico Gesù, ma il celeste Cristo. Paolo credeva in questo Cristo prima di credere in Gesù. Prima di diventare un cristiano, gli sembrò criminale nominare Gesù, il Cristo. Quest'uomo Gesù non era in alcun modo, come sempre, identico al Cristo celeste, la cui immagine egli portava. Ma al momento della sua conversione, quando Gesù lo incontrò nella gloria luminosa del suo corpo celeste, egli lo identificò con il suo Cristo, e trasferì semplicemente su Gesù tutte le concezioni che egli aveva già associato al Cristo Celeste per esempio, la sua pre-esistenza anteriore al principio del mondo, e la sua cooperazione nella sua creazione. L'uomo Gesù fu quindi, propriamente parlando, solo il portatore, come esso era, di tutti quelli alti titoli che erano già in esistenza; ma la rigenerazione dell'Apostolo consisteva in questo, che quello in cui egli aveva fin qui solo sperato, lui poteva ora osservare visibilmente manifesto nel mondo. Questo era precisamente perchè fece una tale differenza nel suo caso il fatto che egli non conosceva Gesù. Il reputato circolo interno dei discepoli non trovò così facile credere che l'uomo che si era seduto a tavola con loro a Cafarnao e salpò con loro sul Mar di Galilea fosse il Creatore del mondo. Per Paolo questo ostacolo non esisteva.
Fin qui Wrede. Parecchi teologi hanno tentato di confutarlo; ma J. Weiss ha espresso l'opinione che le ''decise esagerazioni di Wrede'', come le chiama, sono eventi del tutto più ragionevoli delle imprecisioni dei suoi oppositori. È vero che Gesù è per Paolo l'oggetto di venerazione religiosa, un essere divino.
Ma tutto ciò che Weiss porta avanti a sostegno della sua opinione, che Paolo deve nondimeno aver ricevuto una potente impressione della personalità di Gesù, manca di convincere.
In Cor. 5, 12ff un parallelo è tratto tra il Primo e il Secondo Adamo; se questo significa qualcosa del tutto, dice Weiss, allora Paolo deve aver inteso dire che l''uomo Gesù'' ebbe proprio lo stesso tempo e opportunità per una libera scelta tra il bene e il male, tra la rinuncia e la perseveranza, come lo ebbe Adamo; in altre parole, nel fare questo confronto, Paolo non lascia alcuno spazio per tutto ciò che contiene la storia evangelica.
 Nella mia opinione, il parallelo che è derivato tra Gesù e la figura assolutamente non-storica di Adamo, nella cui esistenza Weiss stesso non ci crede, dovrebbe essere stato un monito per lui di non leggere fin troppo tra le righe qui.
Perfino lo stesso Weiss è obbligato ad ammettere che l'espressione paolina ''sangue di Cristo'' è strana, perchè davvero poco sangue fu versato alla morte di Gesù. Ma Weiss è dell'opinione che quest'obiezione è più che contro-bilanciata dal frequente uso dell'espressione ''croce di Cristo'' dalla quale così tanta certezza storica può essere estratta.
 Infatti quando Paolo utilizza quelle parole non solo egli deve aver avuto nella sua mente un concreto ritratto del Crocifisso; egli deve inoltre essere stato consapevole che la crocifissione fu una punizione romana, così da direttamente recare una testimonianza al fatto che l'esecuzione fosse eseguita da autorità romane. Poichè, comunque, d'altra parte, Paolo deve indubbiamente aver conosciuto che gli ebrei erano responsabili della morte di Gesù per la cui ipotesi, ad ogni modo, non c'è nessuna prova nelle epistole, segue che egli deve aver conosciuto abbastanza accuratamente il corso di eventi al processo. Ecco, il suo ritratto del Crocifisso deve aver contenuto tuti gli aspetti di una personalità forte, vivente, chiaramente delineata, altrimenti non sarebbe mai stato capace di esporlo davanti agli occhi dei Galati (Gal. 3, 1). Le parole con cui Paolo descrive l'Ultima Cena presuppone un resoconto dettagliato dell'ultimo pasto. L'espressione  ''nella notte in cui il Signore Gesù fu consegnato'' contiene una porzione considerevole della storia della Passione in germe. Parla della ''notte'' quindi includendo un indizio della cornice cronologica della narrazione evangelica; parla di ''tradimento'' da cui possiamo inferire che Paolo sapeva qualcosa del traditore e dell'arresto. Permetti al lettore, dice Weiss, di entrare, cuore e anima, nei pensieri dello scrittore di quelle parole, ed egli non più a lungo dubiterà che Paolo fu non solo a conoscenza della Passione e Morte di Gesù in tutti i suoi dettagli, ma ebbe anche un vivo e simpatetico interesse in quel che accadde.

 Noi ammiriamo, con tutto il nostro cuore, l'ingenuità dello studioso tedesco, ma noi siamo non di meno dell'opinione che tutto ciò che qui ci dice non è nient'altro che pura fantasia. Tutto il turbamento che si prende per provare che Paolo deve aver conosciuto parecchio intorno al Gesù storico, è fatica sprecata, e serve soltanto a rammentarci una volta di più di quanto penosamente poco che è storico è preservato per noi nelle lettere paoline. Questo è, naturalmente, una caratteristica essenziale della Gnosi, a cui, come abbiamo visto, la dottrina paolina è strettamente collegata. Il Paolinismo, come la Gnosi, non ha alcun interesse in mera Storia. Fa solo uso della Storia in ordine di arrivare a più alte verità per mezzo di interpretazione allegorica. Delle multilaterali azioni di Gesù difficilmente una traccia dev'essere trovata negli scritti di Paolo. Essi sono dappertutto interessati solamente alla missione, morte, e resurrezione di Cristo, il Figlio di Dio. Non è strano allora, anzi più che strano, che Paolo, il contemporaneo del Signore, dovrebbe essere stato così indifferente alle parole e azioni del Signore e ai vari eventi della sua carriera? Non è strano che egli intenzionalmente e deliberatamente confinò sé stesso alle sue relazioni spirituali con il glorificato Cristo, ed escluse dalla sua esistenza religiosa tutti i fatti concreti circa Gesù - che le tradizioni potevano aver rifornito in abbondanza? No, lo stesso Weiss si rifiuta di credere a questo, e in tutta sincerità sarebbe incredibile sulla base sia della psicologia sia del senso comune. 
Nondimeno, se l'Epistola ai Galati è genuina e la reale composizione di Paolo, allora quel che è incredibile è un fatto. Noi abbiamo già visto sopra come Pierson ha illustrato l'innaturalezza della situazione mediante il suo istruttivo parallelo tra Paolo e un ipotizzato discepolo convertito di Socrate.
Ma, Weiss procede a domandare, come poteva Paolo nella visione sulla via per Damasco, aver riconosciuto che il Messia celeste che gli apparve fosse Gesù, se non aveva alcuna definitiva conoscenza di Gesù sotto quale mai nome che si basi su una conoscenza personale? Anche quest'obiezione non ci ostacola. Infatti non possiamo ignorare il fatto che noi siamo qui alla presenza di un'occorrenza soprannaturale, che tutta la verbosità della ricerca, fortificata dai risultati della moderna scienza psicologica, non può ridurre al livello di un evento naturale; un tale tentativo non può essere giustificato dalla narrazione della miracolosa conversione di Paolo in alcuna delle forme nella quale è stata preservata. Infine, tutta la grandezza e altezza che troviamo in Paolo sono attribuite da Weiss all'influenza che la personalità di Gesù ebbe su di lui. Ma su quali basi? Ecco, perfino la parte presa da Paolo nella persecuzione dei cristiani è resa debitamente come una prova che Paolo era a conoscenza di un Gesù storico.
Colui che cerca di provare fin troppo non prova nulla. Noi siamo involontariamente rammentati della cosiddetta ritrattazione di Socrate nel Fedro di Platone, dove leggiamo di una persecuzione di Zeus e di altri Dèi. Dobbiamo noi suppore che Zeus sia stato una persona storica?

Per tornar indietro al testo che stavamo discutendo:

Cosicché non guardiamo più nessuno nella carne; se anche abbiamo conosciuto Cristo nella carne  (vale a dire, in una relazione umana, ordinaria, con lui), ora non lo conosciamo (vale a dire, non lo conosceremo) più così.

Questo dev'essere spiegato come l'espressione di una più tarda fase di cristianesimo, che sorge sopra la formazione storicizzante del vangelo dei nostri evangelisti, e  guarda a tutte quelle pretese ad una conoscenza di un Gesù storico come rappresentanti di un punto di vista inferiore dello sviluppo. La nostra opinione ipotizza, non che uno scrittore di lettere di nome Paolo conosceva Gesù di Nazaret personalmente, ma che un autore che scrisse un trattato ammonitorio e dogmatico sotto il nome di Paolo, fu a conoscenza di un Vangelo che, nei suoi aspetti essenziali, era simile ai nostri vangeli sinottici. Questo vangelo era la fonte di tutta la sua conoscenza della vita di Gesù, ma la sua brama di spiritualità lo fece tendere ad una più alta conoscenza di Cristo.
In ogni caso, questa ''spirituale'' conoscenza di Cristo, così presto dopo il termine dell'esistenza terrena di Gesù, non si può supporre un riferimento al Gesù storico. Paolo che, stando a 1 Cor. 3, è capace di adattarsi ad ogni punto di vista, l'apostolo conciliante par excellence è uno gnostico, che considera il vangelo come un'utile allegoria per i molti, una presentazione di verità metafisiche in una vernice storica, nella quale, nondimeno, il significato sottostante è la cosa principale.  
I veri magri riferimenti ad un Gesù storico nell'Epistola ai Galati neppure ci forniscono, quando considerati adeguatamente, qualche dato biografico, nell'accettazione comune del termine. Ci viene detto di Cristo che fu nato da donna sotto la Legge (4, 4), e che fu crocifisso (6, 14; 2, 20). È ovvio che le due prime dichiarazioni sono assolutamente inutili per la biografia di un Rabbi ebraico, e soltanto hanno qualche significato quando sono intesi riferire ad un pre-esistente Figlio di Dio.
L'intero, preso insieme, contiene i tre principali elementi del dogma della più antica Chiesa Cattolica, l'incarnazione di Dio, la condizione della sua umiliazione, e la sua soggezione alla morte. 
L'essere che Paolo descrive è un Dio invece che un uomo.
Ma se un più giovane contemporaneo di Gesù fu convertito intorno all'anno 30, è inconcepibile che lui dovrebbe aver esaltato il suo maestro al cielo nel senso letterale della parola, rappresentandolo come il pre-esistente Figlio di Dio, e tuttavia essersi trattenuto dal cercare una stretta intimità con i personali fratelli del Signore nella carne e il circolo interno dei suoi discepoli. Sull'ipotesi dell'autenticità delle epistole paoline, la vita di Paolo, come descritta dagli studiosi moderni, al principio del primo secolo è un'impossibilità. Ognuno che accetta il quadro di Gesù come tratto da quei studiosi, comunque tanto possa essere enfatizzato il punto di vista legalistico ebraico o apocalittico, trova nel Paolo delle lettere un problema insolubile. E neppure possiamo consentire di ipotizzare con qualcuno che Paolo aveva già cominciato a nutrire dubbi sulla Legge perfino prima che la visione del risorto Cristo fosse a lui pervenuta; infatti il linguaggio in Gal. 1, 14, dove la conversione di Paolo è descritta come quella di uno che fu insolitamente zelota a beneficio della Legge dei suoi predecessori, non ci permette di supporre che egli avesse già cominciato a dubitare mentre era ancora un ebreo. 
La difficoltà a riconciliare le Epistole di Paolo con un Gesù storico è stato da lungo tempo riconosciuto.
 Uno studioso olandese, Straatman, che accettò l'autenticità delle Quattro Lettere, tentò di spiegare l'origine del Vangelo Paolino nel seguente modo. Tentò di provare che durante i primi sei anni dopo la sua conversione, dal 36-41 A.D., lui rimase sempre un ebreo, e fu interamente in simpatia con gli altri apostoli. L'esperienza incoraggiante che ebbe tra i pagani Galati contrastava così fortemente con la sua dura ricezione tra gli ebrei a Lystra che fu indotto, quasi malgrado sé stesso, a diventare l'Apostolo dei Gentili. Ora, in esteso ''per rivelazione'', come egli pensò di vedere il vangelo nella sua vera luce.

Un altro teologo olandese, Blom, ha confutato l'ipotesi di Straatman. Le fonti non ci danno alcun diritto di asserire che Paolo predicò un diverso Vangelo al principio e il Vangelo Paolino in seguito. La nuova confessione di fede, in tutti i punti essenziali, fu fermamente fissata dal principio. La rivelazione del Figlio nell'uomo chiamato a predicare il vangelo tra i pagani coincide con la sua conversione, che lo trasformò da un violento partigiano dell'ebraismo ad un membro della chiesa perseguitata; si veda Gal. 1, 11-23. Il Paolinismo è datato a partire dalla conversione di Paolo.
 Dev'essere stato solo dopo un duro dissidio che Paolo fu quindi cambiato da un persecutore ad un campione del vangelo, circa tre anni dopo la morte di Gesù. Egli ora vede in Gesù il Messia. I convertiti sono spesso fanatici; da un entusiasta come Saulo noi ora aspettiamo che, sotto il suo nuovo nome di Paolo, egli mostrerà un fervente zelo a beneficio della fede che egli ha appena abbracciato. Ma noi non siamo preparati ad ascoltare che immediatamente dopo la sua conversione egli ha identificato le deficienze del cristianesimo, e dall'essere un proselita è diventato un riformatore. Un tale sviluppo è psicologicamente impossibile. Come difficile fosse, per uno che era stato un ebreo, accettare serenamente il vangelo paolino, è provato dalla dura opposizione che incontrò fino a molto tempo dopo nel secondo e terzo secolo. Come poteva allora Paolo essere venuto in esistenza tutto in una volta?
È ovvio che gli uomini non cominciano a riformare quello che è nuovo e sconosciuto per loro, le cui mancanze, perciò, essi hanno non ancora avuto una possibilità di scoprire. Per Paolo, Gesù era stato un pò di tempo prima un impostore; era morto non molto tempo fa come un malfattore sulla croce; perfino se Paolo non fosse ora convinto dell'innocenza e messianicità di Gesù, non è facile vedere come poteva averlo proclamato al mondo come un essere soprannaturale, il personale Figlio di Dio. Tutto questo van Manen vide chiaramente, ed espanse nei suoi libri su Paolo. Egli fu dal principio un uomo di carattere conservatore, e fu solo con grande riluttanza che trovò sè stesso indotto ad abbandonare il Paolo consacrato dalla tradizione. Ma quando, come un uomo di scienza, egli ebbe una volta fatto questo sacrificio alle sue convinzioni, il suo credo in un Gesù storico ricevette una fresca introduzione di forza; ora in esteso l'esistenza di Gesù era diventata probabile. Se le lettere furono scritte un secolo più tardi rispetto al tempo quando visse Gesù, allora la sua deificazione nelle lettere paoline smette di essere così impressionante. Sembra che allora Drews non fece un così grande errore dopo tutto, quando egli usò l'autenticità delle lettere paoline come un argomento contro la storicità di Gesù. Grazie a recenti investigazioni, è ora noto che l'elemento mistico e magico recitò una grande parte nel più antico cristianesimo, specialmente nei Sacramenti, nel Battesimo, e nella Cena del Signore. Nel Theologisch Tijdschrift for 1905 io ho tentato di mostrare che lo spezzare il pane era originariamente una cerimonia indipendente, che non aveva nulla a che fare con l'uso della coppa, e fu solo più tardi associato ad essa. Nel racconto di Luca dell'Ultima Cena, secondo alla lettura del Codice D (Codex Bezae), una solenne spezzatura del pane senza la coppa fu un nuovo rito che introdusse Gesù al termine di un pasto ebraico. Nelle storie della miracolosa alimentazione di una moltitudine, che mostra un'inequivocabile affinità con la Cena del Signore, non c'è anche nessuna menzione dell'uso del vino; e il fatto che in 1 Cor. 11, 23 la parola ''pane'' corrisponda a ''coppa'' dove noi dovremmo piuttosto aspettarci una qualche parola come ''vino'' è già un indizio che i due elementi costitutivi della Comunione provengono da due fonti diverse. Lo spezzare il pane è l'atto del Signore glorificato. È descritto in regolari termini cerimoniali:  ''prese il pane, lo benedì, lo spezzò e lo diede loro''.

Ora, è facile dire:

I quattro atti sono tutti quanti ovvi e naturali; ognuno che presiede ad un pasto sacro deve, naturalmente, richiedere una benedizione del pane prima di consegnarlo a coloro che siedono al desco con lui; se molti devono partecipare di esso, allora esso deve essere spezzato per prima; e in ordine di poterlo spezzare, deve, di necessità, essere preso prima di tutto.


 Ma quel che fa apparire questo ragionamento così convincente a prima vista è, ad un più attento scrutinio, solo una dimostrazione della sua debolezza. Infatti se è così ovvio e naturale che quelle quattro azioni dovrebbero sembre prendere posto allo spezzare il pane, perchè sono menzionate da capo ogni volta? Il ''prendere'' il pane sembra meno di tutto richiedere una menzione separata. Una tale ripetizione caratteristica diventa più comprensibile quando la consideriamo come una formula liturgica, regolarmente utilizzata in un rituale particolare.
Ora, quando Paolo dice (1 Cor. 10, 16)

E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?,Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.

il pane è qui identificato con il corpo del Signore. Quando i credenti mangiano di questo pane, essi ricevono in loro stessi il corpo del Signore; essi diventano uno con lui mediante un rito magico. Il Salvatore glorificato è il padrone del banchetto, che alimenta il suo popolo con il suo corpo; partecipando di questo loro diventano identici con lui. Ora questa ''offerta'' del pane ci fornisce l'eco alla spiegazione degli altri termini, che anche contengono un significato nascosto. Il Cristo Celeste dà il suo corpo per alimentare il suo popolo; ma questo stesso corpo egli ha per prima preso, consacrato, e spezzato, prima di darlo a loro per partecipare di esso. Qui, in questa breve ma pregnante formula, abbiamo un compendio dei principali contenuti del vangelo nel periodo apostolico, che include poco più che l'Incarnazione di Cristo, la Passione e la Resurrezione. Il significato di questa spezzatura del pane era quello di tipificare e simboleggiare la vita e Passione di Cristo. Nella consapevolezza religiosa dell'antiquità, simbolo e realtà sono inestricabilmente intrecciati. Al sacro pasto il pane è trasformato mediante consacrazione o formula magica nel veicolo fisico del dio; questo corpo che lui pone su come un mantello, consacra per essere un cibo, che risveglia alla vita e comunica conoscenza; rompe questo pane allo scopo di poter perciò rinunciare a sé stesso per coloro che cercano salvezza. Il Cristo celeste, che è uno Spirito, ha preso su sé stesso un corpo, cioè per dire un corpo di carne, che può perciò anche essere chiamato carne, ma in virtù dello Spirito dimorante è nondimeno un corpo vivente; il corpo terreno è concesso e consacrato mediante la sua unione con lo Spirito divino. Ma il Cristo è mandato a morire (Rom. 8, 3-32); lo spezzare del suo corpo ossia, la sua morte e Passione è per il bene di coloro che ottengono una parte di lui, che partecipando del suo corpo spezzato diventano membri del nuovo corpo (1 Cor. 12, 27), di cui di qui in avanti egli è il capo (Ef. 1, 22). Quindi egli spezza il suo corpo per loro allo scopo che da lì in poi essi, avendo partecipato di lui, potrebbero essere il suo corpo (1 Cor. 12, 12/., Rom. 12, 5, ecc.), il corpo mistico del Signore.
 Lascia che il lettore ponga la domanda a sé stesso: È concepibile che Paolo possa aver avuto pensieri come quelli circa un contemporaneo, solo di recente morto? Sicuramente giungerà una volta di più alla conclusione che, perfino se noi assumiamo l'autenticità delle lettere principali di Paolo, l'Apostolo non può essere considerato come un testimone dell'esistenza di un ''uomo'' di nome Gesù.
 Ora, comunque, che per altre e sufficienti ragioni abbiamo soddisfatto noi stessi col fatto che le lettere non sono autentiche, e abbiamo appreso a vedere nella storia evangelica una mitologia con un significato nascosto, la letteratura paolina viene a confermare la nostra opinione che anche i vangeli stanno descrivendo non un uomo, ma un Essere Divino. 

Il vangelo e l'insegnamento paolino sono collegati l'un l'altro come una drammatica rappresentazione in uno spettacolo muto, e la spiegazione scritta o chiave che l'accompagna, così che ai non-iniziati l'oscurità della rivelazione contenuta nei vangeli è in diretta proporzione al grado a cui è stata celata nella forma di una storia o rappresentazione scenica per il beneficio della moltitudine. 
(Bolland).
(G. A. van den Bergh van Eysinga, Radical Views about the New Testament, pag. 91-105, mia libera traduzione e mia enfasi)
 Concludo con una acuta citazione di Schopenhauer:
Per la grande massa gli unici argomenti comprensibili sono i miracoli, per questo tutti i fondatori di religioni ne fanno. - I documenti di una religione contengono miracoli, per accreditare il suo contenuto: ma viene l'epoca, nella quale i miracoli hanno l'effetto opposto. - I Vangeli volevano sostenere la propria credibilità con la narrazione dei miracoli, ma proprio così l'hanno messa in questione. - I miracoli nella Bibbia dovrebbero dimostrarne la verità: ottengono invece l'effetto contrario. - I teologi cercano di interpretare ora in modo allegorico, ora in modo naturalistico i miracoli della Bibbia, per liberarsene in qualche modo: sentono infatti che «miraculum sigillum mendacii»
(Arthur Schopenhauer)

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