lunedì 31 agosto 2015

Paolo fu una chimera (VII)



«Menzogna e inganno son del mondo aratro e carro!
Antica quanto il mondo è l'arte del mentire,
e l'una all'altro si confanno.
Il principe del mondo,
e creator d'inganni,
compì con Eva,
la madre di tutti noi,
il suo capolavoro,
con Eva che ingannò sì atrocemente che lei e noi,
la sua progenie,
pianger ne potremo senza fine.»

(Georg Paul Hönn, Betrugs-Lexikon)


Una dimostrazione completa e bayesiana al 100% della maggiore probabilità della fabbricazione delle epistole paoline rispetto all'autenticità di almeno alcune di esse richiederebbe ad essere onesti tomi e tomi di volumi da parte di esperti. Certamente non da parte mia. Eppure l'ipotesi dell'autenticità provoca ad un primo sguardo riscontri così sorprendenti, così inattesi, così improbabili nell'esame delle lettere, che neppure un fiero teorico pro autenticità come Richard Carrier, io penso, ha il diritto di nascondersi dietro la nostra ignoranza sulla contingenza precisa che ispirò Paolo dietro quella particolare interruzione nella continuità del filo logico, oppure dietro questa stranezza o dietro quell'enigma, ecc. (testuali parole di Carrier:
«...non trovo nulla di anacronistico nelle lettere di Paolo. O è troppo vago per essere rivendicato come tale. O è perfettamente coerente con le condizioni degli anni 50 dC».) e contemporaneamente accusare magari il dr. Detering di accumulare un sacco di ipotesi ad hoc intese a spiegare quelle medesime stranezze e tensioni nel testo. Preferisco di gran lunga le seconde ipotesi (specie se sono secunda facie ben lungi dall'essere gratuite viste le reali misure della loro plausibilità nella cornice del II secolo EC — una plausibilità che aumenta di pari passo nella misura in cui progredisce la stessa conoscenza del II secolo riesaminata alla luce dell'ipotesi dell'invenzione per quel periodo del corpus paolino) alla Mega-Scusa irrazionale per la quale i vari problemi riscontrati dai Critici Radicali Olandesi nelle lettere (sotto l'ipotesi della loro autenticità) avrebbero ciascuno una «soluzione» perfino se non è nota a noi ma è seppellita per sempre assieme al Paolo storico e ai suoi lettori originari.
Curiosamente, in questo caso, si applica il silenzio (indotto dalla nostra ignoranza e da una presunta perdita di dati) per provare l'esistenza di qualcosa — un'ipotetica scusa ad ogni problema presente nelle lettere—e non per negarla o quantomeno metterne in discussione l'esistenza.
Nascondersi dietro il buio su cui si proiettano inevitabilmente le lettere (quando considerate genuine) non illumina le lettere stesse, ma le rende più enigmatiche e oracolari di prima, tradendo nel ripiegamento stesso entro lo sfondo nero delle lettere un elemento di debolezza intrinseco alla propria posizione. Uno scettico sull'autenticità delle epistole paoline è per definizione qualcuno che pretende umilmente di sapere di meno, e non di più, sul I secolo. Viceversa, i teorici del Paolo tradizionale peccano due volte di arroganza, la prima volta perchè credono di sapere di più sul I secolo (per trovare plausibile in quel tempo l'origine delle epistole)—ma si tratta solo di una loro infondata fiducia—; la seconda volta perchè dimostrano di non sapere granchè del II secolo —quando invece sappiamo relativamente meglio intorno al II secolo rispetto al I secolo. 

Secondo Richard Carrier, sebbene a priori ancora equivalenti, le probabilità che le lettere furono composte da più falsi «Paoli» nel II secolo EC sarebbero ancora inferiori alle probabilità che fosse effettivamente comparso un Paolo storico nella prima metà del I secolo che avesse prodotto quelle lettere.  Al contrario dello studioso americano, per quanto le lettere che si cercano di spiegare evocando un insieme di falsi «Paoli» del secondo secolo in combutta tra loro a seconda delle diverse teologie (gnostica, marcionita, proto-cattolica) nella falsificazione delle lettere possano sembrare improbabili, l'idea stessa di un singolo Paolo storico scrittore di quelle lettere è almeno altrettanto improbabile. Perchè la sua mera ipotesi, invece di risultare davvero la soluzione più semplice, si limita invece a trasferire la complessità che si pretende eliminare dalle lettere a quel singolo «Paolo», che assurge così ad essere il nuovo enigma irriducibile da spiegare.   

Una profonda comprensione degil argomenti dei Critici Radicali ci insegna a non presumere con troppa faciloneria che un singolo autore sia l'unica alternativa per la genesi plausibile di quelle lettere, come fa Carrier. Molto prima di Bruno Bauer e dei Critici Radicali Olandesi, gli antichi avversari dei primi paolinisti, gli ebioniti e i nazorei, intuirono che l'autore di quelle lettere non era veramente ebreo (fingendosi soltanto tale: si veda Epifanio nella nota 3 di questo post), ma non per questo riuscirono a immaginare l'alternativa: che quelle lettere erano totalmente inventate perchè uno storico Paolo non era mai esistito. Dopo i Critici Radicali Olandesi, dopo la ricerca di Hermann Detering, Robert M Price, Stuart Waugh,  tutti dovremmo sentire un'istintiva diffidenza per l'idea stessa di un singolo autore delle lettere. È una trappola in cui siamo già cascati in passato ma ormai la pratica costante dell'antichità di veicolare idee dietro fittizi emblemi ideologici (come lo furono «Paolo», «Pietro», «Giacomo», «Giovanni», «Simon Mago», «Valentino», «Ebion», «Elcasai», ecc.) dovrebbe averci da tempo immunizzato, risvegliando la nostra coscienza critica. Peccato che non sia riuscito a risvegliarla a tutti. E soprattutto non ai folli apologeti cristiani.
Ma rifletti: se furono davvero le estreme contingenze e le più ignote circostanze della vita che coinvolsero Paolo coi suoi Galati, Paolo coi suoi Corinzi, ecc, a spiegare uno per uno tutti i problemi denunciati dai Critici Radicali nelle lettere—contingenze e circostanze che si persero definitivamente colla morte degli unici ad esserne coinvolti (ossia Paolo e i suoi lettori di turno)—allora puoi portare il ragionamento alla mia stessa conclusione, ipotizzando un Paolo così pigro che fà il meno possibile per spiegare tutti i potenziali equivoci che dissemina nelle lettere, lasciando ogni volta che fosse il semplice ricordo della singola circostanza di questo o quell'evento a far comprendere ai suoi lettori originari cosa intendeva dire davvero presso ogni punto corrispondente della lettera potenzialmente equivoco per il lettore non originario. Passo, passo, questo ipotetico Paolo riduce la sua quantità di spiegazioni—tanto se la cavano i suoi lettori: almeno loro sanno di cosa stava parlando!—, finchè diventa un Paolo che non fa proprio nulla: potrebbe benissimo non disturbarsi affatto di esistere, tanto è inattivo, inerte, superfluo, inutile. E allora possono benissimo essere altri «Paoli» a fabbricare tutte quelle lettere, col fin troppo tacito permesso del «Paolo» originario.

A me questa scusa
«onnipotente» del tipo «la spiegazione dei vostri problemi è persa per sempre con la morte di Paolo e dei suoi lettori originari, però almeno è esistita», ricorda per grado di complessità, l'argomento degli apologeti teisti quando dicono che la presenza di un Dio creatore spiega l'universo assai meglio della sua assenza: anche in quel caso infatti, con l'ipotesi «Dio» si pensa di guadagnare parecchio in semplicità e di eclissare ogni altra spiegazione alternativa come troppo «complessa» e perciò «ad hoc». Ne deriva l'utilità di rammentare qui le parole di Richard Dawkins contro questa folle apologia teista:

Il culto delle lacune
Cercare esempi particolari di complessità irriducibile è un modo poco scientifico di procedere: è un caso di argumentum ad ignorantiam, la stessa fallacia logica cui fa ricorso la strategia del «Dio delle lacune» condannata dal teologo Dietrich Bonhoeffer.
I creazionisti cercano affannosamente una lacuna nelle conoscenze attuali. Se ne trovano una, sia pure apparente, assumono che Dio debba colmarla per default, ossia automaticamente. A preoccupare teologi rigorosi come Bonhoeffer è che le lacune si colmano sempre più con il progredire della scienza, e Dio rischia alla fine di non avere niente da fare e nessun posto dove nascondersi. A preoccupare gli scienziati, invece, è qualcos' altro. È parte essenziale dell'impresa scientifica riconoscere l'ignoranza e perfino rallegrarsene, perché essa rappresenta una sfida per conquiste future.
Come ha scritto il mio amico Matt Ridley: «La maggior parte degli scienziati è annoiata da ciò che ha già scoperto. È l'ignoranza a spingerli ad andare avanti». I mistici esultano nel mistero e vorrebbero che restasse misterioso. Gli scienziati esultano nel mistero per un motivo diverso: vi trovano motivo di ricerca. Più in generale, come ribadirò nell'VIII capitolo, uno degli effetti veramente negativi della religione è che ci insegna a considerare una virtù il pascersi della propria ignoranza.

(L'illusione di Dio, pag. 90-91, mia enfasi)

L'argumentum ad ignorantiam, istanziato nel caso specifico nella scusa che «solo Paolo sapeva la soluzione, perchè “esiste di sicuro” la soluzione»
o per dirla alla Richard Carrier: «...non trovo nulla di anacronistico nelle lettere di Paolo. O è troppo vago per essere rivendicato come tale. O è perfettamente coerente con le condizioni degli anni 50 dC», è la scusa di comodo con cui evitare perfino di prendersi il disturbo di osservare se magari una soluzione alternativa è già presente, per nulla gratuita, nel cristianesimo del II secolo. Col risultato che è possibile, come dimostra Stuart Waugh, ricostruire le lettere originali di «Paolo» nella loro prima versione marcionita, una volta rimossi gli strati valentiniani e cattolici delle lettere. Il «Paolo» tradizionale e l'onnipotente «buio spiega-tutto» che si porta seco nelle sue cosiddette «lettere sicuramente autentiche»  rischiano alla fine di non avere niente da fare e nessun posto dove nascondersi. Perchè una soluzione elegante, migliore ed economica è nel frattempo già stata trovata.


Invito il lettore a vedere l'analogia nel caso di Paolo, in particolare prendendo spunto dalla lettura del Critico Radicale olandese van Eysinga che ho liberamente tradotto qui (essa stessa da vedere come una comoda e interessante introduzione al problema):
 










Capitolo III.

LA FALSITÀ DI TUTTE LE COSIDDETTE EPISTOLE PAOLINE
 Dal punto di vista della teologia ordinaria del tempo è un enigma psicologico come il Paolo delle Quattro Lettere può aver seguito il Gesù storico in un intervallo così breve. Pierson aprì gli occhi di Loman su questo fatto. Gli sembrò che il cristianesimo maturo della comunità e l'attività del pensiero teologico, che formano lo sfondo delle Quattro Lettere, giustificano l'ipotesi che esse forse appartengono ad un tempo più tardo.  Loman percepì che il lavoro cominciato da Bruno Bauer dev'essere ripreso di nuovo. Uno studio completo dell'opera di Bauer gli mostrò che le lettere di Paolo non si adattano nel periodo dove si è solito collocarle. Vero, son stati fatti tentativi di risolvere la difficoltà mediante la suggestione che Paolo fu un uomo davvero straordinario, e non vincolato dalle leggi che governano gli uomini ordinari. È possibile, è vero, andare in profondità nella spiegazione delle lettere coll'aiuto di quest'ipotesi; ma il dovere della critica, quando si cerca una spiegazione di fatti storici, è di scartare per quanto è possibile tutte le soluzioni che assumono qualcosa di insolito e straordinario. La Scuola di Tübingen aveva spiegato il fatto che le Quattro Lettere non sono menzionate fino all'incirca la metà del secondo secolo, e allora soltanto da pochi scrittori, coll'ipotesi che Paolo fu insolitamente profondo, e che i suoi scritti erano troppo avanzati per essere accettati senza equivoci da parte dei suoi contemporanei. Ma Loman non darebbe retta a questo. Il fatto che le opere rimasero sconosciute doveva piuttosto venir spiegato, a suo parere, dall'ipotesi che esse vennero in esistenza solamente ad un periodo più tardo.
Pierson e il suo amico, lo studioso S. A. Naber, pubblicarono in collaborazione nel 1886 un'opera in latino, chiamata Verisimilia, nella quale illustrarono come sono confuse le lettere paoline—una circostanza che dev'essere spiegata come il risultato di una ricostruzione più tarda; come incomprensibili devono essere state per chiese costituitesi di recente, le quali, generalmente parlando, difettavano di un'educazione filosofica; e come l'intero Nuovo Testamento è permeato in lungo e in largo da uno spirito cattolico. 
Van Manen

Van Manen fu persuaso circa allo stesso tempo. Finora lui era sempre stato il più pericoloso oppositore della Scuola Radicale. Nel 1886, comunque, ammise apertamente che, nella sua opinione, nemmeno una delle epistole paoline è genuina. Lui fu confermato in questa conclusione leggendo l'importante libro di R. Steck, di Berna, sull'epistola ai Galati (1888). Van Manen stima Steck per aver tenuto interamente separata la questione dell'autenticità delle epistole da quella dell'interpretazione simbolica della storia evangelica. Nei libri di Loman quelle due questioni sono combinate assieme, e si crea l'impressione che la falsità delle epistole è assunta solamente allo scopo che l'interpretazione simbolica possa essere trattenuta. Un'epoca fu creata nella storia della Scuola Radicale Olandese dalla pubblicazione dei personali libri di van Manen su Paolo, di cui una descrizione dettagliata per i lettori inglesi fu offerta da T. Whittaker in The Origins of Christianity (London, 1904). Prima di tutto, gli Atti degli Apostoli vennero fatti il soggetto di una completa investigazione; poi seguirono le epistole ai Romani e ai Corinzi. Ho già menzionato i suoi articoli nell'Encyclopaedia Biblica.
In una recensione delle porzioni più antiche di questa Encyclopaedia Biblica, van Manen aveva trovato un difetto col trattamento fin troppo conservatore di numerosi soggetti del Nuovo Testamento. A dispetto delle energiche proteste della stampa inglese, gli editori dell'Encyclopaedia decisero di affidargli il compito di scrivere alcuni articoli sul paolinismo. In articoli pubblicati nei numeri di Febbraio, Marzo e Aprile dell'Expository Times, nel 1898, egli aveva già manifestato la sua insoddisfazione del modo in cui pensatori progrediti  in Inghilterra e America ignoravano il lavoro scientifico della Scuola Radicale, e accettavano ciecamente le conclusioni dei critici tedeschi. Il suo rimpianto era ben fondato; e neppure è la tesi smentita dall'esistenza di un libro da parte del Rev. R. J. Knowling (Londra, 1892), che tenta di confutare Loman, Pierson e Steck da un antiquato punto di vista integralista. Che van Manen non era interamente privo di riconoscimento nel mondo anglofono, appare da quel che è stato già detto sopra, come pure dalla sua elezione come Associato Onorario della Rationalist Press Association, Londra, nel maggio 1904—una distinzione che, ecco! egli solamente fu capace di goderne per un breve tempo.
Dopo la morte di Loman, van Manen e Meyboom resero note una porzione delle sue opere inedite, compreso un trattato incompiuto sull'Epistola ai Galati. Il presente scrittore ha sostenuto in parecchie occasioni durante gli ultimi dieci anni contro l'autenticità delle epistole paoline; tra le altre cose, ha puntato l'attenzione alle cosiddette epistole di Ignazio, il cui scrittore chiaramente considera Paolo non come lo scrittore di lettere nel senso ordinario del termine, ma di lettere aperte, o di trattati in forma epistolare. Anche il Professor Bolland, in un importante capitolo del suo libro Het Evangelie, ha collezionato gli argomenti più essenziali contro l'autenticità delle epistole paoline.
Sono le lettere di Paolo reali lettere? In ordine di rispondere a questa domanda dobbiamo prima definire cosa si intende per una lettera. Una lettera è un mezzo per lo scambio reciproco di idee tra due persone, oppure in certi casi tra lo scrittore e un circolo ristretto di lettori; quindi non è intesa per il pubblico. Deissmann ha già distinto tra la lettera e l'epistola, la seconda essendo una produzione letteraria che non è realmente intesa per le persone a cui è indirizzata, ma per il pubblico generale. Nel caso di una corrispondenza reale lo scrittore naturalmente rivela la sua personale personalità, ed entra al contempo nei pensieri e sentimenti della persona indirizzata. Un tale documento, perciò, ci permette di formare qualche idea non solo dello scrittore, ma anche in una certa misura dei lettori. Le lettere di Cicerone ad Attico appartengono a questa classe: lui si mostra nel suo vero carattere. Nelle sue lettere ai suoi amici, d'altra parte (Ad Familiares), lui conta su altri lettori invece che veri amici soltanto, e perciò non sono prive di una certa quantità di abbellimento retorico.  Verso la fine del primo secolo A.D. troviamo nella scrittura di lettere una forma regolare di composizione letteraria. Nelle scuole di retorica lettere che trattano di qualche evento storico, e scritte sotto qualche fittizio nome storico (le cosiddette suasoria), erano composte come esercizi, e divennero parte della letteratura del periodo. Varrone fu il primo a scrivere saggi scientifici nella forma di lettere, e il suo esempio fu seguito da molti altri dopo di lui. La lettera didattica venne in esistenza; trattati su giurisprudenza e medicina presero la forma di lettere. La lettera di esortazione la troviamo specialmente favorita dagli Stoici; Panezio e Posidonio scrissero trattati etici in forma epistolare; e le epistole di Seneca, in particolare, potrebbero essere descritte come un manuale di sapienza pratica per tutti. La forma di letteratura che potrebbe essere descritta come la Lettera di Edificazione fu particolarmente in voga coi cristiani. Scrivere lettere nel nome di un'altra persona era a quel tempo proprio altrettanto comune come lo era introdurre persone ben note nei racconti, e porre detti e discorsi sulle loro bocche—come quelli di Gesù, per esempio, nei vangeli, oppure quelli di Pietro e Paolo negli Atti. In tutto questo non esiste la più remota intenzione di ingannare. Ognuno che aveva qualcosa da dire coll'intento di esortazione o di edificazione scrisse una lettera senza preoccuparsi circa deficienze nella forma esterna. Quindi l'epistola agli Efesini è sprovvista di un indirizzo, quella agli Ebrei priva di un'introduzione appropriata, quella di Giacomo senza un'adeguata conclusione; la prima epistola di Giovanni difetta sia di introduzione che di conclusione. Al principio nessuno pensava di considerare quelle produzioni come lettere reali scritte dagli uomini i cui nomi esse portano. Gradualmente tutto questo era cambiato. Il desiderio di informazione, la riverenza per l'autorità della parola scritta, la formazione di un canone—quelli sono i fattori che portarono pressochè al risultato che, dal tempo di Ireneo (± 180 A.D.) in poi, le tredici (o anche quattordici) epistole paoline e le epistole cattoliche—o meglio, tutti i documenti del cristianesimo primitivo così com'erano accettati dalla Chiesa—passarono per l'opera degli scrittori di cui portarono i nomi, ed erano anche immaginati intesi per i lettori che erano nominati o al principio, oppure alla fine, oppure nel titolo, oppure dalla tradizione. Questo si applica anche a lettere che sono universalmente considerate composizioni più tarde—come, per esempio, l'epistola di Paolo ai Laodiceni, la terza epistola ai Corinzi, la lettera di Gesù a re Abgar, e altre.
Tempi moderni portarono ad una reazione contro questa attitudine. Le lettere apocrife furono scartate immediatamente dopo la Riforma; più tardi anche la genuinità di alcuni scritti dei Padri Apostolici fu messa in dubbio; sin da Semler, parecchie lettere paoline e cattoliche furono aggiunte alla lista; la Scuola di Tübingen lasciò poco altro che le quattro lettere principali. La Scuola Radicale è giunta alla conclusione che le lettere cosiddette non sono per nulla lettere, perciò tornando al punto di vista del tempo in cui esse erano composte. Il frammento Muratori, una lista di libri del Nuovo Testamento appartenente alla fine del secondo secolo e così chiamato dal nome dello studioso italiano  dal quale fu scoperta, ci dice di Paolo:
“Sebbene l'apostolo benedetto scrive solo a sette chiese”—i cui nomi seguono—“nondimeno è chiaro che una singola Chiesa era diffusa sulla Terra intera. E Giovanni, sebbene nell'Apocalisse parla a sette chiese, nondimeno indirizza parimenti tutte le chiese.”
Laddove nel tempo di Giustino Martire (± 150 A.D.) i vangeli erano i soli libri sacri riconosciuti dalla Chiesa, vent'anni più tardi, al tempo di Dionisio di Corinto, esisteva una collezione piuttosto considerevole di lettere. Tutte le nostre lettere canoniche devono essere considerate modelli e tipi di lettere episcopali pastorali; erano le voci ammonitrici degli uomini apostolici che, dopo che erano morti, ancora parlavano alle chiese cristiane, allo scopo di convertirle dal vecchio punto di vista ebreo al nuovo punto di vista della fede cattolica.
Ora che T. Whittaker ha reso accessibili ai lettori inglesi le opinioni di van Manen sull'epistola ai Romani e sulle due epistole ai Corinzi, è forse desiderabile dedicare una particolare attenzione all'epistola ai Galati, specialmente dal momento che gode di una grande reputazione di inattaccabile autenticità. È considerata quasi universalmente il più antico documento sopravvissuto di origine cristiana, sebbene non abbiamo alcuna evidenza positiva della sua esistenza prima del 180, e perfino allora solo l'evidenza dei più acritici dei Padri della Chiesa—precisamente, Ireneo, Clemente di Alessandria, e Tertulliano—uomini che hanno dichiarato di origine apostolica quasi tutti gli scritti del Nuovo Testamento, compreso pure il Quarto Vangelo, le Pastorali, e le epistole cattoliche.
Se davvero abbiamo di fronte un documento giunto in esistenza dalle circostanze del tempo, allora dev'essere possibile spiegarlo per intero tramite riferimento alle condizioni che sono presupposte dalla lettera stessa. Tradizione, titolo, perfino il carattere del documento, tutto testimonia che è una lettera. Porta l'apparenza di essere stata estorta dal mittente contro la sua volontà, così che al termine lo scrittore può dire, “D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi” (vi, 17). Sebbene “fratelli” siano nominati come congiunti autori dell'epistola, è Paolo da solo che parla; il suo linguaggio è pieno di energia e passione; egli scrive sotto l'influenza di forte emozione. Percepiamo che c'è qualcosa che lo induce a scrivere. Egli indirizza un circolo definito di lettori, a cui lui non è un completo estraneo—o meglio, a cui si pone su un terreno di stretta intimità. Esteriormente siamo confrontati con una difficoltà soltanto: è priva del solito indirizzo di una lettera antica. Un tale indirizzo lo troviamo altrove nel Nuovo Testamento—ad esempio, in Atti xv, 23; xxiii, 26, e in Giacomo i, 1; il nome del mittente è dato nel caso nominativo; è dichiarato in modo così breve come possibile e senza l'aggiunta di alcun titolo; poi segue il nome della persona o di persone a cui la lettera è inviata, e ultima di tutte la parola “salute”. Nella nostra epistola, al contrario, l'indirizzo reale è grammaticalmente separato dal saluto; il nome del mittente riceve ogni tipo di aggiunte descrittive; pure nell'indirizzo stesso troviamo indizi dei contenuti della lettera; per esempio, contiene per implicazione una risposta a coloro che si rifiutavano di riconoscere lo scrittore come un apostolo, nel passo: “Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti” (i, 1). Tutto questo ci colpisce come singolare, per cominciare; ma vi restano altri aspetti che sono non meno singolari. Appare che la lettera è scritta, non da Paolo soltanto, ma da tutti i fratelli con lui. Tuttavia dopo una perlustrazione della lettera, non rapidamente sovviene al lettore che altri oltre Paolo sono responsabili di ciò che è scritto in essa; dappertutto il numero singolare è utilizzato ad eccezione di i, 9. La menzione di altri autori deve essere spiegata come un'aggiunta fittizia, dovuta ad un'imitazione di 1 e 2 Cor., dove Sostene e Timoteo sono nominati assieme a Paolo, al fine di garantire l'autorità dei documenti e di introdurli con dovuta solennità ecclesiastica. 

Per chi è intesa la lettera? Le parole dell'indirizzo sono: “Alle Chiese della Galazia”. È una vecchia questione, che è stata ed ancora è il soggetto di una controversia senza fine, quale Galazia è intesa qui—la Galazia propriamente detta oppure la provincia romana molto più estesa che porta quel nome. L'ultima ipotesi Schürer la descrive come “una singolare delusione”. Non siamo obbligati a prendere posizione con nessuna delle due parti. Se consideriamo che è intesa la più piccola o la più grande Galazia, in ciascun caso una lettera così indirizzata non poteva essere consegnata. Quante vi erano di quelle chiese? Quante dovevano trovarsi? Forse sarà detto che la lettera fu senza dubbio posta a carico di un messaggero che sapeva dove circolarla. Ma in quel caso come fu messa in circolazione? Come dobbiamo spiegare il fatto che non troviamo indicazioni nella lettera stessa su come deve circolare in giro?  Se per Galazia è intesa la provincia, allora la difficoltà del problema è accresciuta; dobbiamo ricordare che il linguaggio e il carattere delle persone della Galazia propriamente detta non erano gli stessi come nei centri di Antiochia in Pisidia, Iconio, Listra, e Derbe, che appartengono alla provincia di Galazia, e a cui la lettera, nell'opinione di parecchi critici, era anche intesa ad essere inviata.
Quando prendiamo tutte quelle circostanze in considerazione, la sola possibile conclusione è che siamo a che fare qui non con una lettera reale ma con una lettera aperta, come se uno dovesse scrivere una lettera  “Ai Cristiani di Inghilterra”, che in tal caso non è mai realmente consegnata, ed è intesa per ognuno che ha in mente di leggerla. Così presto, comunque, appena realizziamo questo, non abbiamo più alcuna ragione di parlare della perplessità e dell'agitazione dell'apostolo, che è riflessa in questa lettera alle sue chiese, e che deve spiegare tutto ciò che è altrimenti inspiegabile nel documento. Esso non può più venir considerato come un'esortazione o un rimprovero dal padre inquieto, che è preoccupato della salute delle anime dei suoi figli spirituali. Dove occorrono difficoltà, è un modo comune dei commentatori dire che esiste qui un'allusione a circostanze ben note allo scrittore e ai lettori, perchè essi stanno su un terreno di così tale intimità l'un con l'altro. Così presto, comunque, non appena ammettiamo che abbiamo di fronte a noi non una lettera ma una produzione letteraria, questa soluzione non è più disponibile. Calvino aveva ragione, anche se non nel senso che lui intendeva, quando scrisse:  “Non dobbiamo supporre, perchè alcune delle lettere di Paolo sono indirizzate a particolari città e altre a particolari individui, che perciò esse non sono egualmente intese per tutti”. Le lettere di Paolo non sono intese per comunità o persone speciali, ma per l'intera Chiesa.
È ora apparente perchè esiste così poca oggettiva realtà circa le condizioni reali che sono indicate nel corso della lettera. La condizione presupposta di una defezione generale dal vangelo predicato da Paolo dev'essere stata vera di un gran numero di posti. L'intero contenuto è piuttosto una dissertazione nella forma di una lettera che una lettera. L'indipendenza di Paolo dev'essere difesa; il cristianesimo dev'essere proclamato la religione di libertà, e il ritorno al'ebraismo dev'essere censurato. L'intera epistola è un pezzo di una speciale arringa. Questa è la ragione del perchè gli editori nei loro commentari e nelle loro introduzioni si impegnano così tanto nel rintracciare la linea di pensiero dello scrittore, e nello spiegare che posizioni devono essere difese. Holtzmnann ha davvero detto che le Quattro Lettere sono intese ad essere studiate piuttosto che lette. Ma in quel caso devono essere chiamate libri, oppure trattati, invece che lettere.
La relazione nella quale Paolo come scrittore si pone coi suoi lettori è un mistero. Questo non lo è perchè siamo sprovvisti di informazione sufficiente—in altre parole, per mancanza di dati. I campioni della loro autenticità di buon grado ci farebbero credere questo, ma non è il caso. La difficoltà sorge piuttosto dal fatto che lo scrittore è incoerente con sè stesso. Paolo aveva appena fondato le chiese poco tempo prima (iv, 19; i, 6). Esse allora avrebbero fatto ogni cosa per lui; di fatto esisteva un attaccamento quasi sentimentale tra i Galati e lui (iv, 14ff.). Sorge il problema, com'è possibile quest'intimità, equivalendo quasi ad un affetto, nel caso di un numero di chiese allo stesso momento? E come possiamo farla coesistere con una defezione così rapida? Se lui realmente, quando era presente con loro, li convertì tramite la grazia di Cristo al  cristianesimo “paolino”, alloa è inconcepibile che quei cristiani che avevano raggiunto tali vertigini spirituali—non in un singolo caso isolato, ma tutte le chiese della Galazia in egual misura—dovettero improvvisamente procedere a mettersi sotto la Legge e permettere di farsi circoincidere (i, 6; iii, 1-5; iv, 21; vi, 12), e così solo perchè erano stati incitati a ciò da “certe persone” oppure da “una certa persona”. Lo scrittore parla con un tono di comando, come un uomo di autorità, adirato e indignato (i, 1, 6; iii, 1-5; vi, 17); un momento dopo egli diventa un istruttore un pò più calmo, e li chiama “fratelli”; o meglio, diventa perfino più grazioso, e si rivolge loro come a figli prediletti (iv, 19). Com'è sorprendente che non otteniamo nessun'informazione positiva da questa composizione circa il carattere e le idee dei Galati nella metà del primo secolo A.D. È concepibile che un missionario moderno che ha a che fare con un qualche problema reale possa scrivere ad una chiesa da lui stesso fondata una lettera così incolore come questa? Ci manca qui l'elemento di vita e realtà; invece di questo abbiamo una freddezza e impersonalità che non è meramente sospetta, ma fatale all'autenticità della lettera, specialmente quando prendiamo ulteriormente in considerazione l'evidente affettazione di una personalità, il tentativo infruttuoso di produrre una figura umana e naturale.
Domandiamo invano chi erano gli uomini che formarono le chiese a cui lo scrittore si rivolge. Erano pagani cristiani, oppure giudeocristiani? Entrambi le viste potrebbero essere supportate da passi nella lettera. Per tutto il libro entrambi i tipi di membri della chiesa sono presupposti, che è abbastanza naturale in un libro o un trattato, ma non in una lettera che è intesa ad un particolare gruppo di persone. Troviamo qui credenti convinti, credenti esitanti, ebrei convertiti, e pagani convertiti, tuti abbracciati nel circolo dei lettori.
Sebbene l'epistola sia un'unità, nella quale un flusso di connessione non è mancante dal principio al termine, nondimeno notiamo qua e là che lo scrittore introduce idee che egli ha estratto nel corso della sua lettura. A volte quelle appaiono in una connessione errata, quindi tradendo la dipendenza dello scrittore su altre fonti. In ii, 16 lui quota senza riconoscimento una frase che copia dalla versione Septuaginta del Salmo cxliii, 2; riporta la frase, con una modifica sua propria, senza ulteriore commento, e ci lascia supporre che ci sta offrendo una sentenza originale. Esistono vari passi nella nostra epistola che per sé stessi sono oscuri, e diventano chiari soltanto quando li poniamo accanto a versi da Romani e Corinzi. Per esempio, Gal. ii, 17 ff. dev'essere solamente compreso quando abbiamo letto Rom. vi. e vii., dove Paolo parla di sé come morto per la Legge mediante il corpo di Cristo (vii, 4); iii, 29 è illustrato da Rom. ix, 7, dove è derivata una distinzione tra la discesa secondo la carne e la discesa secondo la promessa; iv, 12 da 1 Cor. iv, 16 e xi, 1; iv, 19 è spiegato da 1 Cor. iv, 14 ff. La figura nominata alla fine è particolarmente strana. Tenti il lettore di rischiarare la netta—o meglio, incorretta—metafora: “figli miei”, dice Paolo alle chiese che lui ha appena fondato—“figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi!”
Che quadro innaturale! Paolo, rappresentato non come un padre ma come una madre, una madre che soffre le doglie del parto, e lo fa per figli che sono già nati. Qui rintracciamo la mano di colui che cerca di correggere un predecessore; egli sta tentando di intensificare il quadro davvero naturale di Paolo come un padre, ma lo guasta soltanto. Gal. v, 13-18 mostra stretta dipendenza su Rom. xiii, 8-10. Quando in vi, 2 parla della Legge di Cristo, appare quasi come se Cristo fosse reso il datore di una nuova Legge. La singolarità dell'espressione dev'essere spiegata da frasi come “Legge della Fede” (Rom. iii, 27) e “Legge dello Spirito della Vita” (Rom. viii, 2), che, nella connessione in cui si pongono come antitesi della Legge delle Opere e dela Legge del Peccato e della Morte, sono piuttosto naturali e nel loro posto appropriato.
La nostra attenzione è anche arrestata da vi, 11, dove ci imbattiamo inaspettatamente sulla sentenza: “Vedete con che grossi caratteri vi scrivo, di mia mano.” A cosa si riferiscono quelle parole? Gli studiosi non sono concordi nella loro risposta a questa domanda. Alcuni di loro dicono che il riferimento è all'intera lettera; altri che è solamente alla conclusione, che è introdotta da quelle parole. La spiegazione solita è come segue: Paolo era solito dettare le sue lettere; come un artigiano lui non era pronto colla sua penna. Quindi, quando aggiunge un pò di righe alla lettera già dettata, lui fa grandi, malfatte lettere, e lui stesso in questo verso fa una divertente allusione a questa circostanza. Deissman, che offre questa spiegazione, procede anche a dire che questo autografo postscritto è un'evidenza di autenticità, appellandosi all'affermazione di un certo C. Julius Victor all'effetto seguente:
“Quando gli antichi scrivevano ai loro intimi amici, essi di solito scrivevano con la loro propria mano, oppure in tutti gli eventi aggiungevano un autografo postscritto”. Secondo Deissmann, Paolo aggiunse un tale autografo postscritto a tutte le sue lettere, perfino dove nessuno si deve trovare ora. Come dimostrazione di questo si appella a 2 Tess. iii, 17: “Il saluto è di mia mano, di Paolo. Questo è il segno autografo di ogni mia lettera; io scrivo così”. “È strano”, dice Deissmann, “che è proprio quelle parole che sono utilizzate come un argomento contro l'autenticità di 2 Tess.” Quest'osservazione di Deissmann sembra mostrarmi una singolare assenza di discernimento. Numerosi critici, perfino di coloro che considerano 1 Tess. una lettera genuina dell'Apostolo, si ritrovano confermati nei loro dubbi dell'autenticità della seconda epistola proprio da quelle parole in iii, 17. Se i lettori consocevano lo stile di scrittura di Paolo, allora era inutile per lui derivare speciale attenzione al fatto che l'aveva scritto lui stesso; se non lo conoscevano, allora l'affermazione perde del tutto di significato. Se la lettera fu portata da persone degne di fede che erano note alla comunità, allora l'assicurazione che proveniva da Paolo era superflua. Se non ci fossero di tali persone, allora come accadde che era loro affidata la consegna di un documento così importante? Non esiste nessuna ragione concepibile per l'introduzione delle parole in Gal. vi, 11, a meno di supporre che lo scrittore sta meramente copiando ciò che è assunto essere altrove la pratica solita di Paolo—la pratica, per la precisione, di aggiungere una riga o due alle sue lettere come una prova della loro autenticità; il passo che lo scrittore aveva nella sua mente era senza dubbio 1 Cor. xvi, 21 ff. Ma l'aggiunta nel caso di 1 Cor. non è fuori posto, perchè la lettera stessa era stata scritta da un segretario; nella nostra lettera nulla è detto dell'impiego di un segretario.
Mediante quei pochi sorprendenti esempi, che potevano facilmente essere moltiplicati, io ho tentato di illustrare come le difficoltà con cui siamo confrontati nella lettura dell'epistola ai Galati scompare non appena chiamiamo in aiuto Romani e Corinzi. Lo scrittore evidentemente conosceva quelle lettere, oppure le loro fonti, e ne fece uso nel suo proprio lavoro di espressioni da loro copiate, proprio come un predicatore moderno fa uso di espressioni, termini, e perfino interi testi nei suoi discorsi, che sono a volte solo suggeriti dal mero suono di una parola, e non hanno alcuna connessione col resto della frase; così che quelli del suo uditorio che non conoscono a fondo le loro Bibbie sono spesso incapaci di dire cosa è suo e cosa è copiato. Quindi questa lettera è il successore letterario delle altre tre lettere principali; gli stessi pensieri ed espressioni che appaiono in loro nella loro connessione appropriata sono qui combinati soltanto artificialmente.
La tradizione, allora, che Paolo scrisse questa epistola alle chiese galate è tutt'altro che probabile. In aggiunta a questo, non trova alcun supporto negli Atti. Ognuno che legge la sua Bibbia attentamente è conscio all'istante di una grande differenza tra la rappresentazione data nell'epistola e negli Atti dello stesso e unico evento. Se l'epistola è un'opera genuina dell'Apostolo, scritta da Efeso all'incirca nell'anno 55, allora il libro indubbiamente più tardo di Atti non possiede, naturalmente, alcun diritto di essere ascoltato. Per v. Baur e Zeller, che provarono in modo convincente che non esiste nessun modo di armonizzare i contenuti dei due scritti, l'autorità dell'anonimo e molto più tardo autore degli Atti non può in alcun modo essere posta contro quella dello scrittore della nostra epistola, che descrive gli episodi che lui riferisce con tutta la pienezza di chi sta narrando la sua personale esperienza. Quali erano le ragioni per quest'intenzionale armonizzazione? La spiegazione offerta dagli studiosi di Tübingen era questa: lo scrittore di Atti stava tentando di riconciliare i due opposti elementi del cristianesimo primitivo—in particolare, un elemento giudeo-cristiano che prende il nome di Pietro, e un elemento pagano-cristiano che prende il nome di Paolo. Ma com'era possibile che uno scrittore che fu a conoscenza delle Quattro Lettere, e le riconobbe come la composizione di un predestinato apostolo di Gesù Cristo, dovesse nondimeno aver trascurato il cristianesimo paolino e il Paolo delle epistole? Infatti questo è ciò che fa l'autore di Atti. Laddove nell'epistola ai Galati Paolo si fa avanti come il predicatore assolutamente originale e indipendente del vangelo, qui lui si pone dal tempo della sua conversione fino al suo primo viaggio missionario (Atti ix, 26-xii, 25), in una posizione di subordinazione—di fatto, come una specie di protégé di Barnaba e della chiesa di Gerusalemme. Secondo gli Atti, l'universalismo di Paolo è già veicolato nella pratica da Pietro; immediatamente dopo la conversione di Paolo Pietro battezza i primi pagani (Atti x, 1-xi, 18). Il conflitto tra le tendenze legalistiche e le tendenze progressiste, come si dispiega nelle lettere paoline, è assolutamente inconcepibile se seguiamo Atti, dove Paolo viene descritto come un ebreo osservante della Legge e fariseo.
Gli studiosi di Tübingen avevano soltanto una risposta da dare a questa contraddizione: il Paolo delle lettere era un radicale intransigente poco avvezzo a compromessi. La Chiesa Cattolica, che era allora nel processo di formazione, lo poteva accettare come un'autorità canonica solamente dopo aver prima modificato le sue dottrine così da farlo apparire meno estremista. L'apostolo dei gentili, ignorato al principio, doveva essere riabilitato come un maestro ortodosso da uno scrittore cattolico. 

Quest'ipotesi, comunque, lavora sotto serie difficoltà. Come poteva ricevere il quadro del periodo apostolico che ci offrono gli Atti una tale rapida accettazione tra i cristiani? Com'era possibile che l'epistola ai Galati doveva essere rimasta per un intero secolo senza alcun'influenza sullo sviluppo della fede cristiana e della vita cristiana? È possibile che allo stesso tempo e nelle stesse comunità a due documenti mutualmente inconsistenti del periodo apostolico—uno che offre il ritratto originale di Paolo, e l'altro il suo deliberato travisamento—doveva essere stata concessa dalla Chiesa la possibilità di permettere un confronto l'un con l'altro? Per nominare solo un pò delle inconsistenze. Secondo Gal. i, 17, Paolo, dopo la sua conversione, va in Arabia; lo scrittore di Atti non sa nulla di questo viaggio. Secondo Gal. i, 18, Paolo parte tre anni dopo la sua conversione per Gerusalemme per fare la conoscenza di Pietro; ad eccezione di Pietro, non vede nessun altro là se non Giacomo, e vi rimane solo quindici giorni. In Atti ix, 26 ff., al contrario, siamo informati che Paolo è introdotto alla comunità di Gerusalemme da Barnaba, ha un intercorso quotidiano con la chiesa, e predica il vangelo—in altre parole, vi rimane per qualche tempo, e fa la conoscenza dell'intera chiesa. L'epistola ai Galati evidentemente intende entrare in lizza a favore di un Paolo presentato come un maestro indipendente. Questo è fatto a spese dei più antichi apostoli di Gerusalemme; egli si pone sopra di loro, e non ha alcuna compagnia con loro—o meglio, egli allude a loro senza astiosità: “Da parte dunque delle persone più autorevoli – quali fossero allora non m’interessa, perché Dio non guarda in faccia ad alcuno”, ecc (ii, 6). Gli Atti non sanno nulla di quest'ostilità, che culmina nel conflitto tra Pietro e Paolo ad Antiochia (ii, 11 ff.). Confronta anche Gal. ii, 1-10 con Atti xv, che evidentemente descrive lo stesso evento – precisamente, l'incontro a Gerusalemme voluto dagli apostoli assieme con Paolo e Barnaba, al fine di discutere il comportamento da tenersi dai convertiti gentili verso la Legge. Laddove, secondo Gal. ii, 2 Paolo sale a Gerusalemme in conseguenza di una rivelazione, e senza nessun'altra chiamata, in Atti xv, 2 troviamo che lui è commissionato dalla chiesa ad Antiochia ad agire come loro rappresentante ufficiale. L'esito delle loro delibere è che i cristiani gentili dovrebbero essere dispensati dall'obbligo di osservare la Legge ebraica; mentre, comunque, secondo gli Atti essi sono comandanti di astenersi dalla carne offerta agli idoli, dalla fornicazione, da cose soffocate, e dal sangue, lo scrittore ai Galati non ci comunica niente di tutto questo, ma ci informa invece della promessa di Paolo di fare una colletta per i poveri di Palestina.
Luca lascia l'impressione che Paolo , all'occasione del suo primo viaggio ai Galati, poteva solo prestar loro una rapida visita; e che ad una seconda occasione, quando passò attraverso la loro regione, non poteva fare niente più che confermare la loro fede (Atti xvi, 6; xviii, 23). In nessun caso può essere stata intenzione di Luca suggerire ai suoi lettori che la Galazia era stata la scena di un conflitto di vita o di morte circa le più essenziali questioni della fede, come la lettera ci insegna che era il caso. Per di più, come poteva questa lettera—sull'ipotesi che fosse genuina—non aver lasciata alcuna traccia di sè stessa nella narrazione di Luca? Come poteva aver contraddetto le sue affermazioni su parecchi punti importanti? Luca non può aver riconosciuto l'autorità che lo scrittore della lettera pretende per sé stesso.
Nulla viene detto negli Atti di ogni lettera scritta da Paolo. Da nessuna parte troviamo qualche traccia della loro esistenza o in questo libro o altrimenti; da nessuna parte udiamo una parola di qualche influenza che esse esercitano, finchè affiorano nei circoli gnostici. Come passarono dal possesso delle comunità a cui erano indirizzate, nelle mani di uomini come Basilide e Marcione? Non esiste niente che mostri che nel periodo intermedio stavano circolando in giro e venivano lette da altri. Quando Giustino Martire allude a documenti scritti usati dalla Chiesa, lui parla di “Memorie” oppure di “Vangeli”, mai di qualche lettere scritte da apostoli. Papia esalta la parola vivente a spese di opere scritte. È probabile che un uomo così conservatore dovrebbe aver fatto questo, se lo scambio di letteratura sacra fosse stato una pratica regolare del cristianesimo primitivo? La luce che la lettera getta sul periodo diventa davvero irregolare quando la nostra attenzione si posa sulle difficoltà di natura storica, con le quali ci troviamo di fronte non appena assumiamo la sua autenticità. Per nominare solo qualcuna. Prima della sua conversione, Paolo era un ebreo che fu zelante per le tradizioni del suo popolo, e per questa ragione perseguitò la Chiesa di Dio (i, 13, ff.); altrove, comunque, egli dice che solo i cristiani paolini sono esposti alla persecuzione, così che Paolo l'ebreo non poteva avere avuto nessuna ragione di perseguitare i cristiani che non erano ancora cristiani paolini. In ii, 9 leggiamo di un compromesso tramite il quale Paolo e i suoi compagni dovrebbero operare tra i pagani, e gli altri apostoli—Giacomo, Cefa e Giovanni—tra i circoncisi. Questo suona ragionevole, ma come materia di fatto non era fattibile, e fu impossibile in pratica. Gli ebrei dovevano essere presenti perfino tra i pagani; chi doveva predicare loro? Oppure, in altre parole, era la divisione del lavoro una divisione etnologica oppure una divisione geografica? Tutto questo professa di essere Storia, ma non è un ricordo di eventi reali. Se lo fosse, perchè Paolo allora non si appella a questo compromesso nel trattamento dei Galati? Qualunque interpretazione poniamo su quel compromesso, i più antichi apostoli non potevano aver nessun diritto di immischiarsi con la Galazia, perchè la regione sta fuori dalla Palestina ed era abitata da gentili; questo era, di fatto, il motivo perchè essi avevano accettato senza obiezione il vangelo antinomistico di Paolo. Ancora una volta Paolo appare in una doppia luce. Da una parte lui è geloso dell'indipendenza della sua personale autorità apostolica (i, 1, 12, 16), parla della posizione legalistica come qualcosa di inferiore (iii, 2, 3), chiama folli i Galati perchè desiderano vivere sotto la Legge (iii, 1, iv, 21), considera che tali persone meritino di essere espulse dalla comunità (iv, 30; v, 2, 4). E tuttavia lo stesso Paolo che dice tutto questo è di una sola mente con i più antichi apostoli, riferisce il suo vangelo a loro (ii, 2); di fatto, egli è l'esatta incarnazione della riconciliazione, ergendosi superiore a tutte le distinzioni di credo (iii, 28; v, 6; vi, 15, ff). Non è concepibile che Paolo possa aver dato espressione ad entrambi quei sentimenti. No; noi abbiamo qui l'opera di un ardente discepolo di Paolo, che stava avanzando nella direzione dell'antinomismo di Marcione, ma le cui opinioni estreme furono armonizzate da uno scrittore paolino meno impetuoso con simpatie cattoliche.
È inutile suggerire che le denunce di Paolo in questa lettera, che sono più vigorose di quelle in Romani e Corinzi, devono essere attribuite ad una soverchiante emozione, infatti esiste anche una gran quantità nella lettera che mostra perfetto auto-controllo. Una tale alternanza di violenta emozione e calmo ritegno è impossibile tranne che in una lettera fittizia.
Ogni cosa indica che le chiese erano state in esistenza da lungo tempo. I catechismi sono già necessari per catecumeni così da poter comunicare la parola ai loro maestri (vi, 6); udiamo già il problema sollevato dell'esclusione dalla comunione della Chiesa. Quindi una fase davvero avanzata di organizzazione ecclesiastica deve essere stata raggiunta. E non solo di organizzazione, ma anche di dottrina. La Legge è rimossa e sostituita dalla Grazia; la rottura coll'ebraismo è completa. Dio non è più connesso con la Legge, sebbene è il Dio del fedele Abramo. La Legge fu data dal ministero di angeli (iii, 19), e non esiste nulla che mostri che procede da Dio.  Quando osserviamo l'Apostolo che mette in evidenza che la Legge non è stata capace di annullare le promesse di Dio (iii, 17, 21), concludiamo che lui suppone che essa non procedeva da Dio—o meglio, che è invece antagonista a Lui.
Al fine di vivere con Dio, noi dobbiamo morire alla Legge (ii, 19). Sia gli ebrei che i gentili , che in precedenza erano soggetti a potenze inferiori (iv, 3, 8-10), sono redenti nella pienezza del tempo dall'invio del Figlio. Esiste quindi, di fatto, una nuova rivelazione di Dio, sebbene è vero che la nostra lettera, nella sua forma presente, è l'opera di un adattatore che combina la nuova dottrina con l'antica, inflessibile concezione ebraica di Dio (vi, 7-8). All'elemento ellenistico appartiene l'uguaglianza di donne e uomini, e l'interpretazione allegorica delle Scritture.
Come potevano i non-filosofici Galati comprendere questa lettera? Loman paragona ciò ad Hegel che tiene un corso di lezioni agli aborigeni delle Indie Orientali. Era possibile per uomini convertiti di recente, appartenenti in gran parte alle classi più basse, comprendere quelle discussioni teologiche, che sono così oscure perfino a studiosi del giorno d'oggi? Il lettore guardi ai loro commentari, e osservi quanto sono eloquenti quando capitano di comprendere qualcosa, e come sempre falliscono ogni volta c'è una difficoltà. E tuttavia non possiamo rifugiarci nella spiegazione che lo scrittore della lettera trova una difficoltà nell'esprimere i suoi pensieri, che lui sta lottando con un linguagio che comprende solo imperfettamente. Al contrario, lui si trova piuttosto a casa sua col greco, che deve aver udito a casa dei suoi genitori ogni giorno e appreso a scrivere a scuola. Riconosciamo nelle lettere paoline lo studioso allenato nelle scuole filosofiche, e non del tutto estraneo all'artificio retorico. È vero che fa errori, ma potremo essere sicuri che ne avrebbe fatti molti di più se fosse stato obbligato a scrivere in ebraico oppure in aramaico.
Tutta l'incoerenza e la vaghezza, di cui ho dato esempi dall'epistola ai Galati, ma che caratterizzano tutte le Quattro Lettere senza eccezione, si devono spiegare col fatto che le persone indirizzate sono rappresentate come i contemporanei e convertiti di Paolo, ma sono designati contemporaneamente per servire come ammonimenti ed esempi per i cristiani del tempo dell'autore più recente.
I difensori dell'autenticità delle Quattro Lettere non sostengono la loro opinione tramite nessun argomento davvero profondo. Loro applicano la qualifica di “ipercritico” al lavoro della Scuola Radicale; descrivono il Paolo delle epistole come una personalità “che non poteva essere stata inventata”, e parlano dell'“individualità” delle lettere, senza, comunque, prendere molta pena di dimostrare la sua esistenza. Nientemeno che una persona come P. Wendland adotta il tono prevalente quando scrive: “Ognuno che manca di riconoscere una vivente personalità religiosa nelle Quattro Lettere di Paolo non è qualificato a intraprendere alcun'investigazione storica di questo periodo”. Ma da quand'è una vivente personalità religiosa il fattore decisivo nel giudizio dell'autenticità o falsità di un'opera letteraria? Se lo scrittore di una lettera meramente si fa chiamare Paolo, oppure davvero è Paolo, non fa alcuna differenza all'individualità del suo carattere oppure all'autenticità del suo sentimento religioso. O meglio, quando lo scrittore assume il nome del saggio Re Salomone, che visse molto prima del suo tempo, egli può darci nei libri dell'“Ecclesiaste” e della “Sapienza di Salomone” più profonda filosofia di quanta mai ne avesse avuto lo storico Re Salomone al suo comando. Nel campo della Storia e della critica non dobbiamo affidarci così tanto all'intuizione. Per di più, io ho già mostrato a cosa ammonta realmente tutta questa individualità.
Holtzmann una volta pose la seguente domanda al Radicale, Steck: Come'è che quello che consideriamo impossibile che Paolo possa aver scritto, diventi naturale e ragionevole sulla bocca di un membro della scuola paolina nel secondo secolo? Nelle sentenze seguenti, comunque, Holtzmann inconsapevolmente fornisce la risposta alla sua stessa domana: “Le contraddizioni, nella cui scoperta Steck mostra grande acutezza, non sono più grandi di quando, per esempio, il Don Carlos di Schiller nel secondo atto non ha ancora letto qualcosa dalla mano della regina, laddove nel quarto egli è in possesso di un intero pacchetto di lettere, una delle quali—quella che lei scrisse ad Alcala—custodisce specialmente; oppure quando i soldati nel campo di Wallenstein, nel secondo atto, hanno ricevuto una doppia paga, laddove nell'undicesimo non hanno neppure ricevuto la loro paga ordinaria per quaranta settimane.”
Esattamente così. È precisamente in una libera composizione del secondo secolo che le contraddizioni, le quali non creano nessun commento negli scritti poetici, si spiegano più facilmente che in una lettera reale di Paolo.
il ben noto studioso J. H. Moulton,  nel replicare a van Manen, pensa di poter dimostrare l'autenticità dell'epistola a Filemone col riferimento al fatto che i nomi, Cresimo e Onesimo, sono presenti nel papiro. Per lo stesso processo di ragionamento potremo sostenere che l'occorrenza costante del nome Piet è una prova dell'esistenza storica di Piet Smeerpoets. [oppure in inglese—che l'occorrenza costante del nome Paul è una prova dell'esistenza storica di Paul Pry.—Ta.] 
Nella seconda edizione del Neutestamentliche Theologie di Holtzmann, pubblicata dopo la morte dell'autore, quello studioso considera la seguente la più seria obiezione alle conclusioni della Scuola Radicale: questa vigorosa combinazione di idee ebraiche con una chiarezza greca di espressione è non concepibile più in alcuno degli Epigoni del secondo secolo. A questa obiezione io replico: Ma erano quei due elementi così opposti irreconciliabili, dopo esser diventati così mescolati l'un con l'altro nella Diaspora? È solo necessario rammentare al lettore il ritratto che lo studioso francese Bréhier ha derivato di Filone, nel quale la più sorprendente caratteristica è che Filone non ritiene necessario cercare una riconciliazione della sua fede ebraica con la filosofia pagana, semplicemente perchè lui era completamente inconsapevole di alcun antagonismo tra di loro. In aggiunta a tutto questo, nel periodo sotto discussione, la filosofia ellenistica era diventata satura di elementi religiosi, come specialmente Reitzenstein ci ha mostrato. Tali combinazioni dello spirito greco ed ebraico erano perciò non insolite, e non dobbiamo ipotizzare che il Paolo tradizionale della metà del primo secolo godesse di un monopolio in questo senso. Quel che Holtzmann poi procede a citare come tipica teologia delle scuole ebraiche, non cambia da gran parte dello stesso genere che troviamo anche in Filone, e perciò non ha bisogno di essere spiegato dall'ipotesi che lo scrittore si era una volta seduto ai piedi di Gamaliele; lui poteva aver appreso tutto ciò nella Diaspora. O meglio, esiste una buona quantità di ciò che è proprietà comune dell'intero periodo, nella misura in cui era sotto l'influenza di un platonismo con un miscuglio di pitagorismo e di elementi stoici, così da poter facilmente considerare Dio il giudice del mondo, santo egli stesso e che richiede santità in altri. Nello stoico Epitteto, Dio è l'Uno moralmente Perfetto; la sua volontà è giusta e migliore; Egli semina in noi la legge morale, e osserva che sia obbedita. Il sistema puramente soprannaturale di una storia che è sospesa tra cielo e terra—come quella che troviamo nelle epistole di Paolo—necessita, anche meno dell'interpretazione allegorica delle Scritture, di essere copiato dalle scuole degli ebrei. La fede in una rivelazione era una forza attiva sotto l'Impero: la miglior prova di questo dev'essere trovata nella nascita dappertutto durante questo periodo di segreti culti orientali. Ogni cosa che Holtzmann inoltre enumera come specificamente ebreo nelle epistole paoline, era ben noto nei circoli ellenistici al principio della nostra era: l'antitesi del sopra e del sotto; del mondo presente e futuro; degli angeli e demoni; la dottrina che il mondo sarà alla fine distrutto; l'idea del peccato e dell'espiazione, della sofferenza espiatrice e della redenzione—nessuna di quelle idee può essere definita la proprietà esclusiva dell'ebraismo.
Ma, inoltre, la Scuola Radicale non ha mai negato che il paolinismo aveva una sicura connessione coll'ebraismo; tutto ciò che dichiara è che sorse in un circolo gnostico—un fatto che appare sia dalla storia del Canone sia dalla collezione di Marcione delle lettere. Infatti le tracce più antiche della formazione di un Canone sono da trovarsi nell'eretico Marcione. Sono chiamati canonici quei testi che possono servire come una regola oppure come un canone di fede e di condotta. Nessuno dei ventisette libri del Nuovo Testamento era canonico al principio; solo gradualmente lo divennero, spesso solo dopo tanta controversia. Secondo Tertulliano, Marcione nel suo conflitto con la Destra dei suoi giorni si appellò ad un unico Vangelo e ad una collezione di dieci lettere paoline. Gli gnostici più che ogni altro avevano bisogno di un nuovo libro sacro, perchè non riconoscevano l'Antico Testamento come una rivelazione. Prima di ascoltare una parola circa commentari sui testi del Nuovo Testamento nei circoli cattolici, li troviamo già esistenti tra gli gnostici—una prova che quei testi già godevano di autorità canonica tra di loro. I cattolici seguirono l'esempio degli eretici e assunsero il loro canone, ma lo legarono all'Antico Testamento e modificarono i contenuti di entrambi Vangelo ed epistole. Se Marcione aveva usato un singolo, anonimo Vangelo, la chiesa ne riconobbe non meno di quattro, sotto i nomi di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, di cui le prime tracce certe sono da trovarsi in Ireneo (± 180 A.D.).
Dobbiamo considerare quest'espansione un'espressione dello spirito cattolicizzante, che era ansioso di offrire a ciascuno qualcosa che soddisfasse i suoi gusti particolari. E laddove gli oppositori degli eretici hanno sempre mantenuto l'idea che Marcione mutilò e accorciò le lettere dell'Apostolo, sembra da più di un passo che, al contrario, egli possedeva una lettura più originale delle lettere di quella che emerge nella nostra edizione canonica. Il testo gnostico delle epistole di Paolo fu sostituito nei circoli cattolici dal primo testo cristiano.
Ogni cosa, perciò, punta all'origine del paolinismo da fonti gnostiche. Non proviene dalla Palestina. Se la dialettica rabbinica dev'essere trovata nelle lettere, questo è da spiegarsi per la natura della polemica; lo scrittore che sta sostenendo contro gli ebrei, allevato nelle tradizioni del legalismo farisaico, ha più probabilità di successo usando i loro stessi metodi di argomento. Ma le Quattro Lettere contengono anche un numero di passi che mostrano punti di contatto, sia nella forma che nel contenuto, con la Diatriba Cinica—vale a dire, con la predicazione missionaria di maestri morali delle scuole cinica e stoica.
Gli scrittori delle lettere paoline parlano greco e pensano in greco. Quando Paolo in Rom. i, 14 (ep. 1 Cor. xiv, 11), chiama sè stesso un debitore, ad entrambi “Greci e barbari”, una tale espressione procede dalla coscienza nazionale, non di un ebreo, ma di un greco. Che l'uomo dovrebbe pregare col capo scoperto e la donna col suo volto coperto era  un costume greco e romano; è la dottrina di Paolo in 1 Cor. xi, 4-7. Se lui parla di ebrei e di ebraismo, egli sempre lascia l'impressione che lui stesso detiene un punto di vista esterno. Prendi per esempio i passi seguenti: “Ma se tu ti chiami Giudeo e ti riposi sicuro sulla Legge e metti il tuo vanto in Dio”, ecc. (Rom. ii, 17); “Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche delle genti?” (Rom. iii, 29); “mi sono fatto come Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei.” (1 Cor. ix, 20). Nessuno che legge quelle parole senza sapere chi sia presunto di averle scritte, poteva forse considerare lo scrittore un ebreo di nascita. E neppure ci si aspetterebbe da un ebreo di nascita che lui dovesse dappertutto impiegare la traduzione greca dell'Antico Testamento. Il libro della Sapienza di Salomone, che è parte della Bibbia greca ed un precursore della filosofia di Filone, è tra le fonti di Paolo. È una produzione completamente alessandrina, permeata di filosofia greca. Quando Paolo, in 1 Cor. xv, 35, 36, comprende la resurrezione dei morti in un senso spirituale, e rifiuta tutte le attese di una resurrezione del corpo, questo non è ebreo. L'antitesi tra spirito e anima, carne, corpo; tra l'uomo spirituale e l'uomo psichico; tra il corpo celeste e il corpo terreno; inoltre, il desiderio di rivestirsi del corpo celeste, la doppia esistenza di un uomo nell'estasi, la trasfigurazione di forma e figura—tutte quelle concezioni Paolo condivide con le religioni di redenzione pagane. Lo stesso si potrebbe dire dell'idea che questa redenzione deve estendersi al cosmo, l'intero mondo creato.
Quanto è lontano dall'ebreo il carattere delle epistole paoline, appare più chiaramente dall'impressione che quei testi lasciarono sugli studiosi rabbinici del nostro stesso tempo. Quindi C. G. Montefiore, sebbene non dubita della loro generale autenticità, si esprime così: “O quest'uomo non è mai stato un ebreo rabbinico, oppure altrimenti lui ha completamente dimenticato che cos'era ed è l'ebraismo rabbinico”. E J. Eschelbacher pensa che nessuno scriba, nessuno che fosse mai stato a casa sua nella Legge, poteva aver mai scritto parole che evidenziano una così completa rinuncia dell'ebraismo come le troviamo qui. Di ogni profonda conoscenza delle Scritture, oppure perfino di generale apprendimento ed esperienza di ciò che veniva insegnato nelle scuole degli ebrei, all'interno e fuori della Palestina, non esiste assolutamente alcuna traccia di qualunque genere nelle epistole paoline. Eschelbacher inoltre mostra che l'autore dell'epistola ai Galati non può in alcun modo essere stato uno scriba ebreo, dal momento che utilizza la traduzione della Septuaginta invece del testo originale ebraico, e in conseguenza di questo ci offre interpretazioni che contrastano con le affermazioni di quest'ultimo. L'idea favorita degli scribi, di un pentito ritorno dell'uomo peccatore a Dio, indotto dall'impulso del suo cuore e dalla fede nel perdono che lui otterrà dal compassionevole Dio, non è presente in Paolo. Il Dio di Paolo, in ciò che fa e soffre, ricorda a Eschelbacher piuttosto il Fato dell'antichità classica che il Dio dell'Antico Testamento. Che impressione fecero quelle lettere su scribi ed ebrei addentri nella Legge, lo illustra con una storiella—che, in punto di fatto, non è storica—da Epifanio. I suoi oppositori giudeocristiani dissero che Paolo era un greco di nascita, che si era innammorato della figlia di un sacerdote a Gerusalemme, e al fine di ottenerla si era convertito all'ebraismo; quando, comunque, la sua pretesa fu respinta, egli ne uscì fuori come un antagonista dell'ebraismo!

Quando Holtzmann, nel passo sopra menzionato, parla della “vigorosità” delle lettere paoline, non è ovvio quale lettera intenda. Non può in alcun modo riferirsi a tutte e tredici le lettere che sono state preservate dall'antichità sotto il nome di Paolo; probabilmente intende solamente le quattro lettere principali, che separa dal resto senza più discussioni. Ma questa distinzione tra lettere principali e lettere del secondo secolo è arbitraria. L'intera collezione, quando confrontata con le lettere di Giovanni, di Clemente, oppure di Ignazio, mostra una certa uniformità, come contro quelle altre collezioni; naturalmente, perchè esse pure sono il prodotto di un circolo, sebbene non necessariamente di un unico autore. Per di più, se noi abbiamo il diritto di separare le quattro lettere principali dal resto, noi abbiamo lo stesso diritto di prendere l'epistola ai Romani e separarla dalle altre, e poi dire che un confronto con quelle altre prova che è falsa. Qualunque divisione è fatta delle epistole paoline, vi rimarranno sempre ovvie tracce di accordo oppure di disaccordo. Non esiste minor differenza in linguaggio, stile, pensiero religioso e morale, tra 1 Cor. e 2 Cor., da un lato e Rom. e Gal. dall'altro, di quanto esiste tra Romani da un lato e Filippesi, Colossesi, Filemone dall'altro. Per di più, l'antica tradizione non sa nulla di alcuna speciale precedenza goduta dalle Quattro Epistole; per essa l'autenticità di tutte è in egual misura al di sopra di sospetto. Lungi da me voler disputare la vigorosità delle epistole paoline; ma me lo si lasci dire una volta di più: Può questa “vigorosità” essere accreditata solamente ad un certo Paolo, il quale, dopo essere stato un persecutore del cristianesimo, divenne convertito ad esso tre anni dopo la morte di Gesù?
Di questa conversione, e di tutto quello che ne risultò, è ora tempo di parlare più pienamente. 

(
G. A. van den Bergh van Eysinga, Radical Views about the New Testament, pag. 59-90, mia libera traduzione e mia enfasi)

Altre traduzioni dello stesso libro di van Eysinga sono qui e qui

Paolo fu una chimera (VI)

Pietro e Simon Mago, il mostruoso alter ego di Paolo.

«nam qui lepide postulat alterum frustrari,
quem frustratur, frustra eum dicit frustra esse;
nam qui sese frustrari quem frustra sentit,
qui frustratur is frustast, si non ille est frustra»

Trad.:
«Chi con astuzia, vuol ingannare un altro
inganna sé s'ei dice d'ingannar colui
che ingannar vuole; e se s'accorge d'essere
ingannato chi ingannar voleva
ingannato è l'ingannator, se l'altro non lo è»

(Aulo Gellio, Noctes atticae XVIII, 2, 7)

Una comoda mini-sintesi del caso contro la storicità di Paolo è stata fatta da un certo «Younes Al Maghribi Terrab» in questo forum islamico. Gli islamici, per ovvie ragioni, non hanno mai nascosto la loro antipatia per Paolo perchè, com'è tipico di ogni religione semitica, non gradiscono la semidivinizzazione ellenistica di Gesù riflessa nelle lettere che portano il suo nome. Pur così, salvo i riferimenti all'astroteologa Acharya (come sempre, errati), tutti gli altri argomenti sono relativamente autorevoli e la sua conclusione esatta. 

«San Paolo non è mai esistito.» 
(di Younes Al Maghribi Terrab)


    Paolo e la Storia.

    "San Paolo è sempre stato qualcosa di enigmatico negli studi del Nuovo Testamento, non da ultimo a causa della sua teologia ''avanzata'' rispetto a tale data apparentemente precoce. Anche se contemporaneo, apparentemente, con l'uomo-dio Paolo mai incontra un Gesù umano e tuttavia egli diventa il più importante apostolo della nuova religione. Poi di nuovo, l'uomo e le sue epistole seminali, per convenzione collocate negli anni centrali del primo secolo, sono in realtà inascoltate fino alla fine del 2° secolo." (fonte)



"Anche se alcune circostanze straordinarie sono affermate da Paolo - come la sua persecuzione dei cristiani, la sua conversione, la sua liberazione miracolosa dalla prigionia a Roma (Atti 16: 26ff), il suo essere scortato da circa 200 soldati, 70 cavalieri e 200 lancieri (Atti 23:23), il suo naufragio (Atti 27), e la sua fondazione di numerose chiese in tutto il Mediterraneo -. questa figura rende comunque non emerge in nessun testo storico conosciuto del tempo" (Acharya s)




    "Lo scrittore dell'Apocalisse di San Giovanni - uno dei primi libri del Nuovo Testamento e in origine probabilmente l'unico da datare dal 1° secolo - rivolge la sua orribile fine del mondo proprio alla regione centrale della missione di Paolo, l'Asia romana.

    Le "sette chiese" della prefazione erano Efeso (dove "Paolo provocò un tumulto" e visse per 3 anni), Thyatira (città natale di Lidia, il primo convertito da Paolo a Filippi), Laodicea (dove inviò una copia di Colossesi, ci viene detto), Sardi, Filadelfia, Pergamo e Smirne.

Eppure lo scrittore dell'apocalisse non tradisce alcuna conoscenza delle attività dell'apostolo Paolo o delle sue lettere. Anche se "Giovanni" apprezza il martirio dei santi, l'''esecuzione a Roma" di Paolo non ottiene una menzione.

Allo stesso modo, la prima fonte cristiana affidabile, Giustino Martire, a metà del secondo secolo, non ha nulla da dire di Paolo o delle sue epistole."
(fonte)



    -Non esiste una sola scrittura contemporanea che menziona San Paolo.

    Gamaliele


    "Figlio di Simone e nipote di Hillel: secondo una tradizione tannaitica (Shab.15a), era il loro successore come nasi e primo presidente del Gran Sinedrio di Gerusalemme Anche se l'affidabilità di questa tradizione, soprattutto per quanto riguarda il titolo di "nasi", è stata giustamente contestata, è comunque un dato di fatto al di là di ogni dubbio che nel secondo terzo del I secolo Gamaliele (del cui padre, Simone, nulla è noto al di là del suo nome) occupò una posizione di primo piano nella corte più alta, il grande concilio di Gerusalemme, e che, in quanto membro di tale corte, ha ricevuto il cognomen "Ha-Zaken." Come suo nonno, Hillel,fu il creatore di numerose ordinanze legali in vista del "Tikkun ha-'olam" (="miglioramento del mondo ": ... Gi? iv 1-3; anche Yeb. xvi. 7; R. H. ii. 5)." (jewishencyclopedia)




    "Dal momento che Rabbino Gamaliele il Vecchio è morto, non c'è stato più rispetto per la legge, e la purezza e la pietà morirono allo stesso tempo" (Sotah 15:18)

È curioso che nessun scritto rabbinico ebreo del 1° o 2° secolo è conosciuto che fa menzione di uno studente rinnegato di Gamaliele che, dopo aver studiato con il maestro e aver vigorosamente applicato l'ortodossia a beneficio dei sommi sacerdoti, sperimentò una visione, in una missione di ricognizione, che cambia la sua esistenza. Non una parola emerge dai rabbini circa lo studente che "andò male", un eretico che rottamò i divieti del Sabato, che esortò i suoi seguaci a ignorare le fastidiose norme alimentari del giudaismo, e dichiarò obsoleti la Legge e la circoncisione. Di sicuro un tale rinnegato non poteva essere completamente sfuggito all'attenzione degli scribi?

    Quante probabilità ci sono che Paolo realmente studiò sotto il grande fariseo (Atti 22:3)? Paolo aveva chiaramente difficoltà con la lingua ebraica: tutti i suoi riferimenti scritturali sono presi dalla traduzione greca della Scrittura ebraica, la Septuaginta" (fonte).




    -San Paolo non parlava ebraico.

    -Nessuna evidenza ebraica di San Paolo.


    Atti degli Apostoli


    "Nel bel mezzo di affrontare la testimonianza di un Gesù storico in epistole sia canoniche che esterne al Nuovo Testamento, Bart Ehrman dedica diverse pagine alla  ''Tradizione di Gesù in Atti." Nell'introdurre Atti non riesce a illuminare i suoi lettori che vi è grande incertezza entro la ricerca tradizionale sull'attendibilità storica del contenuto di questo documento. Inoltre, egli accetta senza dubbio che l'autore di Luca era l'autore degli Atti, e quindi ciò che era noto per il primo era noto a quest'ultimo." (fonte)




    Datazione

    "Ehrman colloca Atti nella posizione più tradizionale, negli anni 80 del primo secolo, poco dopo la datazione più tradizionale del vangelo di Luca, circa 80 EC. Non viene fatta menzione che molta ricerca critica si è mossa verso una data di almeno un paio di decenni, a volte di più, nel secondo secolo (Townsend, Mack, O'Neill, Tyson, Pervo). E, naturalmente, non si parla che la prima attestazione di Atti viene intorno al 175 in Ireneo, con forse una sua allusione una decina di anni prima in Giustino. Che tale 'storia' possa essere rimasta inosservata per tanto tempo se fosse stata scritto un secolo prima (o più, per chi sostiene che è stata scritta prima della morte di Paolo), non è considerato degno di nota.

    Già nel 1942, John Knox (Marcion and the New Testament) ha presentato un caso convincente che Atti non è stato scritto fino agli anni 140 o 150"
(fonte)




    -l'Atti degli Apostoli fu scritto negli anni 140-150 EC.


    Epistole


    "Queste lettere non hanno alcuna allusione ai genitori di Gesù, per non parlare della nascita verginale. Mai si riferiscono a un luogo di nascita (per esempio, chiamandolo 'di Nazaret'). Non offrono alcuna indicazione del tempo o del luogo della sua esistenza terrena. Non menzionano nè Giovanni il Battista, né Giudea, e neppure il rinnegamento di Pietro del suo maestro. ... Quelle lettere mancano anche di menzionare ogni miracolo Gesù è supposto di aver operato, un'omissione particolarmente impressionante, dal momento che, secondo i vangeli, ne operò così tanti ...  Un'altra caratteristica sorprendente delle lettere di Paolo è che non si poteva mai realizzare da loro che Gesù era stato un maestro etico ... solo in un'occasione egli si appella all'autorità di Gesù per sostenere un insegnamento etico che anche i vangeli rappresentano rilasciato da Gesù"-. G. A. Wells, The Historical Evidence for Jesus, 22-23

    -Non c'è nessuna nascita verginale in una qualsiasi delle Epistole.

    -Maria non è mai menzionata nelle epistole.

    -Giuda non è mai menzionato nelle epistole.

    -Giovanni il  Battista non è mai menzionato nelle epistole.

    -Non menzionano neanche alcun miracolo che Gesù è ritenuto di aver operato.

    Manoscritti e Pseudo-epigrafia

    "Il più antico manoscritto delle lettere di Paolo di solito è indicato come papiro 46, abbreviato p46. A giudicare dalla scrittura utilizzata in questo manoscritto, è datato intorno all'anno 200 e fu prodotto in Egitto. L'Università del Michigan in Ann Arbor acquisì parti di questo manoscritto, ma la maggior parte delle pagine fanno parte della collezione Chester Beatty a Dublino, in Irlanda."
(fonte)



    "L'affermazione convenzionale è che i primi scritti cristiani sono le lettere di San Paolo, e quelle sono dette risalenti tra il 48 e il 60 EC. Ma non esistono documenti originali e l'autenticità delle epistole di Paolo è stata messa in dubbio dal 18° secolo. Le prime copie esistenti sono dal 3° secolo, i trofei di un americano milionario del rame del 1936, Chester Beatty. Beatty acquistò parti di undici codici biblici presso i rivenditori al Cairo. Un codice contiene i quattro vangeli e gli Atti, un altro le lettere di Paolo, e un terzo una copia di Apocalisse del tardo 3° secolo. Significativamente, le lettere paoline nel papiro "P46" sono disposte in un ordine insolito ed escludono le pastorali." (fonte)



    "Allo stato attuale, non abbiamo nessuna copia di una lettera del Nuovo Testamento anteriore al 3° secolo, vale a dire, nulla che precede i feroci conflitti settari e le aspre battaglie dottrinali del 2° secolo - un tempo quando ''pseudo-epigrafia" e testi apostolici fasulli erano armi principali nella guerra dei "cristianesimi".
(fonte)


    "Ma perché un autore pretenderebbe di essere un apostolo quando non lo era? La risposta è abbastanza evidente, secondo lo studioso.

    Nei primi secoli della Chiesa, i cristiani si sentivano sotto attacco da tutti i lati. "Erano in conflitto con gli ebrei e i pagani sulla validità della loro religione ... ma i dibattiti più caldi erano con altri cristiani, nella misura in cui obiettavano sulla cosa giusta da credere e sulle giuste pratiche di vita", ha detto Ehrman.

    Così i cristiani intenzionati ad autorizzare opinioni che volevano far accettare ad altri scrissero nel nome degli apostoli, "fabbricando, falsificando e inventando documenti", spiega Ehrman.

    "Se il tuo nome era Giosafat e nessuno aveva alcuna idea su chi fossi, tu proprio non potevi davvero firmare il tuo nome personale sul libro", spiega Ehrman.

    "Nessuno avrebbe preso il vangelo di Giosafat sul serio. Se volevi che qualcuno lo leggesse, tu chiamavi te stesso Pietro. Oppure Tommaso. Oppure Giacomo. In altre parole, tu mentivi su chi fossi veramente," conclude Ehrman. (fonte)



    -P46 (datato al 200 EC) è il più antico manoscritto che contiene gli scritti di Paolo

    -Le lettere pastorali, nella loro forma attuale, non erano contenute in P46

    -Pseudo-epigrafia (falsa attribuzione di paternità) era una pratica comune nel mondo antico.

    Disputate (fabbricate) epistole

    Efesini

    "L'analisi di Ehrman del libro di Efesini mostra che il testo, pieno di lunghe frasi in greco, non corrisponde con il peculiare stile greco di scrittura di Paolo, fatto di frasi brevi." (fonte)

    L'epistola agli Efesini fu plagiata da Colossesi, allo stesso modo come 2 Pietro fu plagiata da Giuda. (fonte)



    -Molte parole e frasi sono diverse da quelle di "Paolo"

    Colossesi è simile ad Efesini

    Colossesi

    Per una serie di ragioni, è opportuno discutere Colossesi ed Efesini insieme, non ultima dei quali è che entrambi si rivolgono alle città in Asia Minore ed entrambe sembrano provenire dallo stesso periodo di tempo e dalla stessa provenienza geografica. Mentre Colossesi è in forma più simile ad una epistola veramente paolina ed Efesini è più simile a un trattato, vi è vivace dibattito sulla paternità di entrambe, alcuni studiosi sostenendo la paternità paolina e altri contestandola. Entrambe le lettere mostrano vocabolario, stilemi, e punti di vista teologici che non occorrono nelle epistole autenticamente paoline. In questi e altri modi sono più simili tra loro di quanto lo siano altre opere nel corpus paolino. Ognuna, per esempio, deve probabilmente basarsi più pesantemente sui materiali tradizionali (frammenti liturgici, elenchi di vizi e virtù, regole familiari, etc.) di quanto non facciano le precedenti lettere di Paolo. (Bonnie Thurston, Women in the New Testament, pag. 132)

    -Molte parole e frasi sono diverse da quelle di "Paolo"

    2 Tessalonicesi

    2 Tessalonicesi è ampiamente considerato come pseudonimo (scritto sotto falso nome).

    La prospettiva escatologica è così in contraddizione con la prima lettera che è difficile credere che potevano provenire dallo stesso autore. (fonte)



    - Differenze escatologiche

    Le Epistole Pastorali (1 Timoteo, 2 Timoteo, Tito)

    In primo luogo, non è difficile essere convinti che lo stesso autore scrisse tutte e tre le pastorali. Ci sono così tanti punti di contatto tra loro che immaginare un diverso autore che le scrisse mi sembra strano. Dovreste immaginare che un "falso Paolo" scrisse 1 Timoteo, e poi qualcun altro, indotto a pensare che lui fosse il vero Paolo, scrisse 2 Timoteo nello stile di 1 Timoteo. (fonte)



    Le lettere Pastorali sono state scritte dallo stesso autore


    Chi ha scritto il resto?


    "Una delle tesi che esploro, soprattutto in The Christ Conspiracy, è che qualunque testo originale poteva essere attribuito a ''Paolo", cioè, alcune delle prime epistole che hanno un sapore gnostico, erano in realtà composti da Apollonio di Tiana e portati ad Antiochia da Marcione. Quindi, sì, "qualcuno" scrisse quelle prime epistole. E qualcuno scrisse anche le altre, ma non era "Paolo". (Acharya s)




    -Paolo non scrisse le epistole


    Chi ha inventato Paolo?



    Una cattolicizzata santità era il destino ultimo del nostro eroe Paolo ma da dove è sorto il super-apostolo? Se, come sembra probabile, Marcione creò quello che sarebbe diventato il Paolo del Nuovo Testamento come un portavoce delle sue stesse idee, egli quasi certamente utilizzaò materiale biografico dalla propria vita, in particolare la lotta per il potereche condusse con la comunità di Roma. Marcione soltanto, come "Paolo", sapeva la verità, un mistero reso a lui manifesto per rivelazione.

In quanto un ricco armatore di Sinope (un porto del Mar Nero, un centinaio di miglia a nord della Galazia) Marcione godeva di autonomia finanziaria e fu in grado di viaggiare molto. A un certo punto finanziò anche la chiesa di Roma, prima di essere scomunicato e di tornare a est. Sarebbe stato familiare con le rotte marittime e i pericoli connessi che figurano in modo così prominente nella storia paolina. Per dare alla sua teologia un'"autorità"aggiuntiva essa doveva essere proiettata nel passato in una più antica "età apostolica". Lui potrebbe aver scelto il nome Paolo (che significa "piccolo" o "umile"), come riflesso della sua personale posizione.

    Quando il cattolicesimo requisì la creazione di Marcione, i propagandisti di Roma avrebbero utilizzato senza dubbio le opere di Giuseppe Flavio, la fonte letteraria multi-uso dei cristiani, per il materiale aggiuntivo. E qui hanno trovato non un Paolo ma un Saul, un aristocratico erodiano di carattere spregevole. Questo materiale diventò la base per il preambolo della storia di Paolo, la sua "vita nel giudaismo". E la vita dello stesso Flavio Giuseppe Flavio fu sfruttata: episodi della biografia dello storico ebreo risuonano troppo a stretto contatto con la storia paolina, in particolare il naufragio sulla via di Roma" (fonte).



    - Marcione inventò Paolo (molto probabilmente).


    Conclusione


    Nessun testo contemporaneo + No Atti + No Epistole = Nessun Paolo


Ultima modifica da Al Maghribi; 23/07/13 alle 04:33 AM.