giovedì 23 giugno 2016

Di cosa sapeva Plutarco che neppure gli iniziati ai Misteri di Osiride sapevano — e tantomeno gli stupidi hoi polloi

METAFISICA: Scienza importantissima, davvero sublime, grazie a cui ciascuno può avere la possibilità di conoscere a fondo cose bellissime di cui i suoi sensi non gli forniscono alcuna idea. Tutti i cristiani sono profondi metafisici: non v'è rammendatrice che non sappia imperturbabilmente che cosa sia un puro spirito, un'anima immateriale, un angelo e che cosa si debba pensare della salvezza per sola grazia.  
(Il Libero Pensatore Paul Heinrich Dietrich, barone d'Holbach, La théologie portative, 1768)

Iside raccoglie i pezzi sparsi del corpo di Osiride. Illustrazione tratta da un manoscritto del 15° secolo del De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio. 


Plutarco, nel De Iside et Osiride, racconta, seguendo apparentemente una fantasiosa tradizione, che Iside e Osiride, concepiti nello stesso grembo, si erano sposati nel ventre materno e che Iside, nascendo, era già incinta di un figlio. I due sposi vissero in perfetta armonia e tutti e due si dedicarono a rendere più civili i loro sudditi, e a insegnar loro l'agricoltura e molte altre arti necessarie alla vita. Diodoro Siculo aggiunge che Osiride, avendo deciso di recarsi nelle Indie per assoggettarle non tanto con la forza delle armi quanto con la persuasione, reclutò un esercito formato di uomini e donne e, dopo aver nominato Iside reggente del suo regno e lasciato con lei Mercurio ed Ercole, il primo dei quali era capo del suo consiglio mentre il secondo era intendente delle province, partì per la sua spedizione, la quale fu così fortunata che tutti i paesi in cui egli si recò si sottomisero al suo dominio. Tornato in Egitto, il sovrano scoprì che suo fratello Tifone aveva cospirato contro il governo e commesso azioni riprovevoli. Giulio Firmico aggiunge persino che aveva sedotto la cognata Iside. Osiride, uomo di temperamento pacifico, tentò di placare quell'animo ambizioso; ma Tifone, ben lungi dal sottomettersi al fratello, non pensava che a fargli del male e a tendergli tranelli. Plutarco ci narra in che modo riuscì a sbarazzarsi di Osiride: «Tifone,» dice «avendolo invitato a uno splendido banchetto, propose ai suoi ospiti, dopo il convito, di stendersi dentro una cassa di squisita fattura, promettendo che l'avrebbe donata a chi fosse stato di quella stessa lunghezza. Quando Osiride vi fu entrato a sua volta i congiurati si alzarono da tavola, richiusero la cassa e la gettarono nel Nilo. Iside, appresa la tragica fine del suo sposo, si accinse a cercarne il corpo, e avendo saputo che si trovava in Fenicia, nascosto sotto un tamarisco dove lo avevano gettato le onde, si recò alla corte di Biblo ed entrò al servizio di Astarte per avere più agio di cercarlo. Infine lo trovò, dopo estenuanti fatiche, e lo pianse tanto che il figlio del re di Biblo ne morì di dolore; ciò commosse il re suo padre a tal punto che permise a Iside di portare con sé quel corpo in Egitto. Tifone, informato del cordoglio della cognata, aprì la cassa, tagliò a pezzi il corpo di Osiride e ne fece portare le membra in diverse località dell'Egitto. Iside raccolse con cura quelle sparse membra, le chiuse in bare e consacrò i simulacri delle parti che non era riuscita a trovare (donde l'uso del fallo, divenuto celebre in tutte le cerimonie religiose degli Egizi). Infine, dopo aver versato molte lacrime, lo fece seppellire ad Abido, città situata a occidente del Nilo». Se gli Antichi collocano il sepolcro di Osiride in altri luoghi, ciò è dovuto al fatto che Iside ne fece erigere uno per ogni parte del corpo del marito nel punto stesso dove l'aveva trovata. Frattanto Tifone si preoccupava di consolidare il suo nuovo impero; ma Iside, dominando il suo dolore, si affrettò a radunare un esercito che pose sotto il comando del figlio Horus. Il giovane principe attaccò il tiranno e lo sconfisse in due battaglie campali. Dopo la morte di Iside gli Egizi l'adorarono insieme al suo sposo; e poiché, quand'erano in vita, essi avevano dedicato ogni loro cura al lavoro dei campi, il bue e la vacca divennero i loro simboli. In onor loro furono istituite delle feste, in cui una delle cerimonie principali era la comparsa del bue Api. Più tardi si proclamò che le anime di Iside e Osiride erano salite fino al sole e alla luna e si erano identificate con quegli astri benefici, di modo che il culto di questi ultimi divenne una cosa sola col loro. Gli Egizi celebravano la festa di Iside nella stagione in cui credevano che essa piangesse la morte di Osiride. Era l'epoca in cui le acque del Nilo cominciavano a salire; perciò dicevano che il fiume, ingrossato dalle lacrime di Iside, inondava la loro terra rendendola feconda. Più tardi Iside fu considerata personificazione della natura, o dea universale, cui si davano nomi diversi a seconda dei suoi attributi. Erodoto l'identifica con Cerere. Diodoro la confonde con la Luna, Cerere e Giunone; Plutarco con Minerva, Proserpina, la Luna e Tetide; Apuleio la chiama madre degli dèi, Minerva, Venere, Diana, Proserpina, Cerere, Giunone, Bellona, Ecate e Ramnusia.

Questa che ha raccontato Plutarco è solo una favola, una storiella, una fabbricazione a tavolino, un'allegoria, una leggenda, inventata dai preti di Osiride al solo scopo di spiegare le ragioni di un mito, per la precisione quello della morte e resurrezione di Osiride. Ma un mito, come ogni mito che si rispetti, ha ovviamente le sue proprie “ragioni”, che la ragione non conosce, ma può solo fabbricare. In piena coerenza, la storiella che Osiride e Iside erano antichi faraoni d'Egitto poi divinizzati fu inventata per spiegare il mero fatto bruto sotto gli occhi di tutti, un fatto altrimenti “inspiegabile” agli occhi del volgo, sempre in necessità della più semplice “spiegazione” possibile (non importa se falsa, purchè sia credibile): che due deità erano venerate e adorate in Egitto sotto il nome rispettivamente di Iside e di Osiride. Questo intero processo si chiama evemerizzazione e fu applicato nel caso specifico appunto su Iside e Osiride. 

Perchè sto menzionando Osiride? Non basta sapere di lui che rientra nella categoria ellenistica degli dèi che muoiono e risorgono, la stessa categoria alla quale appartiene una recente deità ebraica chiamata Gesù? La ragione è che il racconto di Osiride è utile per imparare anche altre cose del mito di Gesù. E non mi riferisco alle frottole propinate dal demente di turno che vuole fare goffamente di Gesù nient'altro che una specie di Osiride 2.0 o qualcosa di simile, abbandonandosi alla peggiore delle parallelomanie tra Gesù e il dio egiziano (dovrebbe essere ormai chiaro al lettore che la migliore tesi miticista non ha nulla a che fare con le chiacchiere astroteologiche di tal sorta, visto il rancore dei folli astroteologi contro il serio e compentente studioso Richard Carrier, un rancore di cui anch'io ho fatto esperienza). Mi riferisco invece a qualcosa di ben più serio, e che serve a meglio comprendere dove fu immaginata esattamente la crocifissione nel mito di Gesù originario. Ovvero probabilmente nello stesso luogo dove Osiride fu ucciso e fatto a pezzi da Tifone. In Egitto? No. In Israele? Nemmeno. Da qualche parte sulla Terra? Neppure.

La cosmologia secondo Plutarco e secondo Paolo.

Plutarco ci dice la risposta, usando lo stesso linguaggio dei misteri: la verità tenuta segreta deliberatamente dai sacerdoti di Osiride (nonchè dagli iniziati ai gradi superiori dei misteri) è che Osiride non è realmente esistito sotto la terra, nè fu mai esistito sulla terra come un re come crede ciecamente il popolino, ma è un Dio “lontanissimo dalla terra, non vi si mescola e non ne viene contaminato, ma rimane puro da qualsiasi sostanza che sia soggetta alla decadenza e alla morte,” dove “ha il comando e il regno” delle anime dei morti (De Iside et Osiride, 78). Plutarco dice anche che “la parte del cosmo soggetta al divenire e alla corruzione è circoscritta dalla sfera lunare, e tutto in lei si muove e muta” (De Iside et Osiride 63). È là, nelle “parti estreme” (le “parti estreme della materia”), che il male ha un dominio particolare, e dove solo alcuni particolari iniziati ai Misteri di Osiride hanno la facoltà —invero, il privilegio —  di immaginare che Osiride viene continuamente smembrato e ricomposto (De Iside et Osiride 59).  
Perfino se Plutarco si sente così privilegiato, in virtù della filosofia di Platone, da ritenersi superiore rispetto a quelli stessi iniziati ai più alti misteri di Osiride, dal momento che lui sa la verità: che perfino il mito celeste della morte e resurrezione del dio Osiride in quelle “parti estreme della materia” costituisce un'allegoria soltanto, neppure eventi letterali che si svolgono in un'altra dimensione. Mentre Paolo rivelava un “mistero” sull'arcangelo celeste Gesù ai soli “perfetti” della sua comunità (1 Corinzi 2:6-8): 
Or noi parliamo di sapienza fra i perfetti tra voi, ma di una sapienza che non è di questo eone né degli arconti di questo eone che sono ridotti al nulla, ma parliamo della sapienza di Dio nascosta nel mistero, che Dio ha preordinato prima delle età per la nostra gloria, che nessuno degli arconti di questo eone ha conosciuta; perché, se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria.
Ma come sta scritto: «Le cose che occhio non ha visto e che orecchio non ha udito e che non sono salite in cuor d'uomo, sono quelle che Dio ha preparato per quelli che lo amano».

...e sembrava davvero credervi alla lettera, Plutarco invece, relativamente al dio Osiride, non credeva neppure in cuor suo al “mistero” della sua morte e resurrezione nei cieli inferiori. Quindi perfino un Paolo era più letteralista di un Plutarco ed in fondo come poteva non essere così, visto che la filosofia offre strumenti di comprensione del reale di gran lunga superiori rispetto alla religione e all'allucinazione? E si noti che neppure Plutarco era così tanto istruito secondo i nostri parametri moderni, dal momento che lui menziona alcuni saggi filosofi che, a differenza sua, allegorizzavano tutto quanto (tanto le leggende su Osiride ad uso e consumo del popolino quanto i misteri celesti di Osiride per i soli iniziati come Plutarco) non come riflesso delle astratte concezioni platoniche sul bene (come già preferiva fare Plutarco), ma come mero riflesso di forze naturali (qualcosa che il neoplatonico Plutarco non poteva giammai accettare). Quei filosofi erano sicuramente i seguaci di Democrito e di Epicuro, più che di Platone e di Aristotele, ma questa è un'altra storia (una storia che la dice lunga sulla superiorità di una visione atea del cosmo già allora). 

 Ad ogni caso, se quella morte e resurrezione di Osiride nei cieli erano trattati come letterali o allegorici da Plutarco non importa. Plutarco ha preservato semplicemente evidenza testuale che al suo tempo era pratica comune, almeno tra gli iniziati di un certo rango ai Misteri di Osiride, concepire la sua morte per smembramento nelle “parti estreme della materia”, ovvero nello spazio che separa la Terra dal ciclo della Luna attorno alla Terra.  
Osiride è un dio discendente, poichè la sua anima, la sua divinità pura, risiede nella parte alta, ma il suo corpo è disceso nei cieli inferiori (che corrispondono alle “parti estreme della materia”)  per sottoporsi là a morte e risurrezione. L'esposizione del mito da parte di Plutarco si riferisce a processi metafisici in corso su una scala che copre sia cieli superiori che inferiori, non ad eventi storici terreni. Tifone smembra e squarta l'agonizzante Osiride con artigli e strumenti di tortura che non sono storici, reali, ma altrettanto mitici e collocati nelle “parti estreme della materia”.

 In De Iside et Osiride 63, Plutarco opera la classica distinzione platonica tra il reame della corruttibilità e il reame dell'incorruttibilità:  
E infatti la parte del cosmo soggetta al divenire e alla corruzione è circoscritta dalla sfera lunare, e tutto in lei si muove e muta…

In De Iside et Osiride 59, lui dice che Tifone, una figura simile a Satana che rappresenta le attività del male, opera nell'area prossima all'orbita della luna:
Ma quando Tifone arriva all'improvviso con la sua forza e si impadronisce delle parti estreme...
E cosa sono quelle "parti estreme"De Iside et Osiride 59 lo chiarisce:
È a questo che allude il mito quando afferma che Neftys è sposa di Tifone, e che Osiride si unì a lei solo di nascosto: e infatti le parti estreme della materia, quelle cioè che vengono chiamate Neftys e anche Fine, sono in potere della forza distruttiva. 

Le "parti estreme della materia" sono quelle contenute al di sotto della sfera della luna.  E cosa vi localizza Plutarco? 

Ma quando Tifone arriva all'improvviso con la sua forza e si impadronisce delle parti estreme del mondo, allora Iside ha un aspetto infinitamente triste e piange il suo dolore, e si mette a cercare e a ricomporre quello che resta del corpo dilaniato di Osiride; poi raccoglie nel suo seno quei brandelli per metterli al sicuro, e grazie ad essi di nuovo dà alla luce gli oggetti della realtà, che da lei quindi scaturiscono.
Questa è una chiara dichiarazione da parte di Plutarco che lui localizza il vero mito di Iside e Osiride nelle “parti estreme della materia,” precisamente l'area sotto la luna. Solo gli iniziati di rango superiore possono immaginare che in quella sede Osiride viene continuamente smembrato e ricomposto, e Plutarco specifica dov'è il salto di qualità in quella conoscenza superiore rispetto ai semplici non-iniziati letteralisti in un passo in De Iside et Osiride 54:
Non è senza ragione, quindi, che essi [gli egiziani] raccontano come l'anima di Osiride sia eterna e incorruttibile, sebbene il suo corpo venga continuamente smembrato e disperso da Tifone, e come Iside riesca a ricomporlo, dopo lunghe peregrinazioni e ricerche. Il principio dell'essere, dello spirito, del bene, infatti, è più forte della distruzione e del mutamento. 
Tifone, che è detto operare nell'area sotto la luna, ripetutamente causa la morte del corpo di Osiride (la sua anima rimane nei cieli superiori mentre il suo corpo è disceso nei cieli inferiori), mentre Iside porta alla sua resurrezione nella stessa località. 

Earl Doherty è chiaro in proposito, nel suo Jesus: Neither God Nor Man (pag. 147-148, mia libera traduzione e mia enfasi):
In contraddizione alle più antiche attività leggendarie di Osiride come re dell'Egitto in tempi primordiali, qui gli atti del mito stesso del culto sono detti ripetersi, il che lo rimuove da un contesto terreno. L'essenza di Osiride, il suo spirito-anima, abita la natura 'eterna e incorruttibile,' i cieli superiori, ma il suo 'corpo' discende nei cieli inferiori per subire la morte e la rigenerazione, cose che possono solamente prendere luogo nel reame 'della distruzione e del mutamento.' Un tale 'corpo,' ripetutamente sottoposto a smembramento, non può essere considerato un corpo umano incarnato, e deve quindi essere inteso come un corpo celeste equivalente all'interno di quel reame di mutamento al di sotto della luna. In 35 Plutarco si riferisce ai 'racconti che parlano dello smembramento di Osiride, della sua resurrezione e della sua nuova nascita.' Anche quelle cose sono 'eventi' che si ripetono, l'ultimo essendo necessario alla resurrezione, e quindi la totalità della leggenda è vista operante in una dimensione spirituale. Qui noi abbiamo una visione quasi esattamente equivalente alla visione miticista di un Cristo paolino che discese nella parte inferiore dei cieli, assunse una 'carne' e subì una morte e una resurrezione.  

Come Plutarco descrive la visione per gli addetti ai misteri, 'l'anima di Osiride è eterna e incorruttibile, sebbene il suo corpo viene continuamente smembrato e disperso da Tifone, e Iside riesce a ricomporlo, dopo lunghe peregrinazioni e ricerche,' perchè il suo corpo è perituro e per quella ragione è 'cacciato dal cielo' (De Iside et Osiride 54). In altre parole, per quei fedeli Osiride è letteralmente “incarnato” nel cielo sublunare e realmente muore e risorge là, più tardi riascendendo al di là verso i cieli incorruttibili superiori.

Qualche folle apologeta cristiano obietterebbe che Plutarco non dice esplicitamente che Osiride discende nelle “parti estreme della materia” ma solo che è Tifone a conquistarle appena prima di procurare la morte a Osiride. Ma se la conquista delle “parti estreme della materia” da parte di Tifone è immediatamente preliminare all'assassinio di Osiride, logicamente si presume che Osiride deve situarsi là, esattamente in quelle “parti estreme della materia”, giusto in tempo per trovare la morte per mano di Tifone. E l'unico modo che aveva un dio celeste come Osiride per trovarsi là al momento della sua morte è perchè vi è disceso dai cieli superiori dove si trova la sua anima pura e incorruttibile. 

Quindi è piuttosto chiaro ed evidente che Plutarco dice che Osiride muore (per mano di Tifone) e risorge (per mano di Iside) nel cielo sublunare.  

Plutarco in De Iside et Osiride 20 non nasconde il suo disprezzo per il crudo e macabro letteralismo di chi prende come storia vera, come “storia ricordata”, le leggende storiciste intorno a Iside e Osiride:
È questa, più o meno, la sintesi fondamentale del libro. Ho tralasciato i particolari più scabrosi, come l'amputazione di Horus e la decapitazione di Iside, e credo di non dovertene certo spiegare il perchè. Se gli Egiziani attribuiscono realtà a questi fatti e ne parlano come di azioni veramente compiute o subite da una natura beata e incorruttibile, quella cioè che noi riferiamo unanimemente al concetto di divinità, allora davvero, seguendo le parole di Eschilo, “bisogna sputare e pulirsi la bocca.”
Plutarco non digerisce questo grottesco letteralismo (proprio come a me fanno schifo i folli apologeti cristiani che fanno grottesche e ridicole letture letteraliste dei vangeli) specie quando attribuiscono dettagli imbarazzanti  a Osiride, cose che marciano contro la “natura beata e incorrutibile,” quella della vera divinità sopra il firmamento. 

Dopo aver condotto con le leggende di Osiride e Iside come sovrani dell'Egitto, leggende ritenute a torto “storiche” dal popolino, Plutarco si sposta ad interpretare i miti su un diverso livello.  

L'idea che i miti erano creati per rappresentare allegoricamente eventi e forze naturali  è un tema su cui Plutarco torna indietro di nuovo e di nuovo. I miti non erano per lui che riflessi di “una realtà trascendente”, nonostante l'enfasi di Plutarco che le parti più imbarazzanti di quei miti possono essere trascurate volentieri in quanto contro la “natura beata e incorruttibile”, cioè la natura della vera divinità sopra il firmamento.  
Non c'è niente di insolito sul modo degli antichi di vedere i miti del dio salvatore come rappresentazioni di eventi e forze naturali. Il modo corrente con cui la ricerca scientifica ha sempre analizzato i miti è come una rappresentazione dei processi astronomici dell'universo e della natura sulla terra, specialmente riguardo al ciclo delle stagioni e dell'agricoltura.  
Perfino quando Plutarco menziona coloro che interpretano il mito come semplice allegoria di eventi e forze naturali, quelli eventi e forze naturali non sono affatto ristretti alla terra stessa, ma ancora operano a livello cosmico. E infatti Plutarco si sta costantemente riferendo a una “natura” nei cieli. Esistono invece elementi del mito che, come la vede Plutarco, alludono ad Osiride nel suo più alto stato celestiale: l'“anima” di Osiride è considerata giustamente “eterna” e “incorruttibile”, mentre il suo “corpo” è soggetto a morte e smembramento. Tali distinzioni non possono essere effettive sulla terra soltanto. E Plutarco per tutto quel passo particolare è preoccupato con le distinzioni e relazioni cosmologiche tra l'imperituro e il perituro, e col principio platonico dell'emanazione dell'inferiore “mondo sensibile e corporeo” da un mondo “buono e superiore”. Quindi quelle stesse distinzioni e relazioni cosmologiche comprendono assai più delle mere forze naturali della dimensione terrena. Chiaramente, Osiride nell'opinione di Plutarco, nell'allegoria del suo mito, opera nei cieli e non sulla Terra, contrariamente a cosa ne pensa il volgo. 

Ma cosa della parte sulla leggenda di Osiride in considerazione di dove dice “il suo corpo viene continuamente smembrato e disperso da Tifone, e Iside riesce a ricomporlo, dopo lunghe peregrinazioni e ricerche”? Plutarco sta allegorizzando questo ad intendere le mere forze della natura sulla terra? No. Il contesto di quella frase di Plutarco si inserisce nelle varie interpretazioni del mito di Osiride che altri filosofi hanno offerto. 
“Così in Egitto si sostiene che Osiride è il Nilo che si congiunge con la terra, simboleggiata da Iside, e Tifone è il mare in cui il Nilo si getta e si disperde…" (De Iside et Osiride 32) 
Nota che quelle interpretazioni schiettamente naturalistiche non sono le interpretazioni preferite da Plutarco, sebbene egli concede loro una rispettabilità in quanto il prodotto di saggi filosofi. Tali passi di Plutarco illustrano che esisteva una varietà di interpretazioni allegoriche del mito di Osiride (proprio come ne esisteva a proposito di altri miti del dio salvatore).  È quella stessa varietà, assieme all'approccio letterale tipico degli οἱ πολλοί nel vedere i miti come racconti delle attività di dio sulla terra — un approccio biasimato da Plutarco —, che rende impossibile dichiarare che i miti potevano essere visti “solo ed esclusivamente” in un modo: come racconti posti in un distante passato sulla terra. 

Sulle stesse frequenze, Plutarco descrive come il mito di Osiride può essere inteso a rappresentare le azioni di forze naturali agenti sulla Luna:  
Alcuni interpretano il mito come simbolo delle eclissi lunari. La luna va in eclissi quando è piena e il sole si trova esattamente dalla parte opposta: in questo modo essa cade nell'ombra della terra, proprio come Osiride cade nella bara. La luna, poi, il trenta del mese nasconde a sua volta il sole e lo oscura: non completamente, però, proprio come Iside non annienta mai del tutto Tifone. (De Iside et Osiride 44)

Prego si noti che neppure questo riferimento all'“eclissi” è offerta da Plutarco come sua propria. È ancora un'altra interpretazione piuttosto naturalistica avanzata da “alcuni” di quei saggi filosofi, in aggiunta alla lista delle diverse correnti interpretazioni del mito. Perfino quest'interpretazione naturalistica (rigettata per definizione dal neoplatonico Plutarco) si applica a forze naturali operanti nei cieli, agenti persino sulla luna stessa. A questo punto, Plutarco enuncia qual è la sua interpretazione del mito preferita:
Non è senza ragione, quindi, che essi [gli egiziani] raccontano come l'anima di Osiride sia eterna e incorruttibile, sebbene il suo corpo venga continuamente smembrato e disperso da Tifone, e come Iside riesca a ricomporlo, dopo lunghe peregrinazioni e ricerche. Il principio dell'essere, dello spirito, del bene, infatti, è più forte della distruzione e del mutamento. Da esso derivano le immagini che improntano il mondo sensibile e corporeo; ma le regole, le forme, le somiglianze che questo riceve sono come suggelli impressi sulla cera, e non riescono a mantenersi intatti, perchè il principio del disordine e del turbamento si impadronisce di loro. Il campo d'azione di tale principio è ora la terra, da quando è stato cacciato dal cielo e si è messo a combattere contro Horus, generato da Iside in funzione di immagine sensibile del mondo intelligibile...(De Iside et Osiride 54)...
Essa [la forza distruttiva di Tifone] riesce poi a infettare acque e venti, e a estendere li suo influsso anche alla luna, portandovi disordine e sovvertimento, al punto da oscurarne spesso la luce: ora è Tifone che colpisce l'occhio di Horus, dicono le credenze egiziane, ora invece glielo strappa e lo ingoia, per poi restituirlo al sole. La prima immagine allude simbolicamente al novilunio mensile, la seconda invece alla eclissi; è il sole che vi porta rimedio, illuminando all'istante la luna non appena sia sfuggita all'ombra della terra. (De Iside et Osiride 55)
 Solo perchè Plutarco ci dice di altre interpretazioni di altri filosofi che collegano l'allegoria alla terra non significa che quest'interpretazione automaticamente deve essere vera per lui. In realtà, neppure quell'evento prende luogo sulla terra. Quando Plutarco spiega in De Iside et Osiride 55 che l'attacco di Tifone è simbolico del “novilunio mensile” come il contrattacco di Horus è simbolico delle “eclissi”, quelle azioni sono tutte immaginate agenti nei cieli. Quindi diventa davvero dubbio e non poco contradditorio dichiarare che la storia dello smembramento di Osiride prende luogo sulla terra. Come può quel che accade durante un'eclissi (del sole o della luna) esser detto accadere sulla terra? Non solo quella descritta in De Iside et Osiride 55 non corrisponde alla vera opinione di Plutarco in merito bensì a quella di altri, ma perfino considerandola tale, ancora non è possibile far prendere luogo il mito di Iside e Osiride, sotto quella interpretazione, sulla terra.

Per giunta, il contesto nella citazione di Plutarco circa lo smembramento del corpo di Osiride da Tifone (in De Iside et Osiride 54) non ha niente a che fare con le eclissi. In realtà il passo De Iside et Osiride 54 è, come ho sottolineato prima ancora, circa la relazione tra le parti spirituali e materiali dell'universo: la creazione (di platonica memoria) di immagini delle prime convertite in copie nelle seconde che non sono affatto permamenti, poichè “il principio del disordine e del turbamento si impadronisce di loro. Il campo d'azione di tale principio è ora la terra, da quando è stato cacciato dal cielo”. Quelli sono eventi cosmici che sorpassano l'intero universo, non meramente gli eventi terreni. Plutarco sta analizzando il mito nel contesto di questa dimensione cosmica.  

L'opinione preferita da Plutarco e da lui descritta in De Iside et Osiride 54 non ha nulla a che fare con quella descritta in De Iside et Osiride 55 e relativa invece ad altri filosofi.  In realtà, ci sono altre righe di testo tra loro, compreso un chiaro cambiamento del soggetto. Perciò è da folli apologeti cristiani pretendere un fittizio legame tra il motivo dell'eclissi della seconda parte (De Iside et Osiride 55) col motivo dello smembramento di Osiride della prima parte (De Iside et Osiride 54). (e perfino facendo così a quale fine proprio non so, poichè ho già sottolineato che ogni evento simboleggiato dall'“eclissi” prende luogo nei cieli, non sulla terra, qualcosa che descrive chiaramente il testo citato in De Iside et Osiride 55.) In ogni caso, ciò che De Iside et Osiride 55 riporta è semplicemente un riassunto dei misfatti di cui è colpevole Tifone, e non può essere collegato in alcun modo al mito dello smembramento di Osiride descritto invece in De Iside et Osiride 54.

Per giunta, il passo contenente il riferimento allo smembramento di Osiride da parte di Tifone segue un precedente passo che fa un paio di cose. Primo, stabilisce che Plutarco è ora su un terreno da lui personalmente preferito. Quelle sono le interpretazioni allegoriche che lui supporta mettendoci in persona la faccia. Secondo, l'enfasi di quel passo non è sulle eclissi, oppure su eventi terreni, ma su astratti principi di chiara influenza platonica essenziali al funzionamento dell'universo. Quei principi potrebbero essere benissimo etichettati “forze naturali” ma non sono in alcun modo collegati alla superficie della terra oppure ad eventi storici (De Iside et Osiride 53):  
Ma riprendiamo il nostro discorso. Iside è il principio femminile della natura, quello cioè che accoglie nel suo seno i germi vitali dell'intero universo. Platone la chiama “nutrice e grembo che tutto riceve”; comunemente, poi, le vengono attribuiti altri mille nomi, che hanno origine dal suo vario disporsi in tutte le diverse forme fisiche e spirituali, secondo le regole del principio informatore. E' innato in lei l'amore verso l'essere primo, il signore del tutto, che si identifica col bene: questo essa desidera e ricerca, mentre fugge e respinge le pur fatali pretese del male. Se è vero, infatti, che Iside rappresenta per entrambi i principi la materia e il luogo in cui generare, la sua natura peraltro inclina sempre verso l'essere migliore, e a lui si offre, per essere fecondata di effluvi e di somiglianze: è questa la sua gioia, aver concpeito e portare nel seno i germi della vita. Immagine dell'essenza nella materia: questa è la vita; e il divenire è un'imitazione dell'essere.
Questo discorso conduce direttamente all'introduzione di quel paragrafo chiave De Iside et Osiride 54 al pensiero di Plutarco:  “Non è senza ragione, quindi, che essi [gli egiziani] raccontano...”.

 Infatti per Plutarco a questo punto, l'enfasi della leggenda è sul ruolo di Iside nella ricomposizione dello smembrato Osiride, poichè lei sta cercando la ricostituzione della sua precedente unità e perfezione: “Il principio dell'essere, dello spirito, del bene, infatti, è più forte della distruzione e del mutamento.” Questo segue quel paragrafo precedente (De Iside et Osiride 53) dove Iside “desidera e cerca” ciò “che si identifica col bene.” Questo desiderio, la natura che “inclina sempre verso l'essere migliore” non è un evento isolato (e di certo non un'eclissi), ma un perdurante processo, qualcosa che lei ripete ad un livello metafisico.  Quindi rivelando in ultima istanza che è del tutto coerente il collegamento che fa Plutarco nel paragrafo successivo col fatto che la leggenda comporta una ripetizione continua del processo di smembramento (l'azione ripetuta del male nel mondo), seguita subito dopo dalla rigenerazione di Osiride (il ripetuto tentativo di Iside di stabilire il bene).

Riporto la continuazione, da là in poi, del pensiero di Plutarco (De Iside et Osiride 54-63):

Non è senza ragione, quindi, che essi raccontano come l'anima di Osiride sia eterna e incorruttibile, sebbene il suo corpo venga continuamente smembrato e disperso da Tifone, e come Iside riesca  a  ricomporlo,  dopo  lunghe peregrinazioni  e  ricerche.  Il  principio  dell'essere,  dello  spirito,  del bene,  infatti,  è  più  forte  della  distruzione  e  del  mutamento.  Da  esso  derivano  le  immagini  che improntano il mondo sensibile e corporeo; ma le regole, le forme, le somiglianze che questo riceve sono come suggelli impressi sulla cera, e non riescono a mantenersi intatti, perché il principio del disordine e del turbamento si impadronisce di loro. Il campo d'azione di tale principio è ora la terra, da  quando  è  stato  cacciato  dal  cielo  e  si  è  messo  a  combattere  contro  Horus,  generato  da  Iside  in funzione di immagine sensibile del mondo intelligibile. Horus è figlio illegittimo, e in quanto tale è esposto all'accusa di Tifone e da essa si difende: la sua natura non è pura e genuina come quella del padre, ossia ragione in sé e per sé, incontaminata e immune da passione, ma risulta imbastardita dalla materia dell'elemento corporeo. In ogni caso, Horus esce vittorioso da questa lotta e
 riesce a imporsi, perché Ermes, cioè la ragione, interviene a dimostrare in suo favore che la natura compie la creazione del cosmo proprio attraverso i mutamenti qualitativi che la sua tensione verso l'intelligibile reca con sé.
 La nascita stessa di Apollo, avvenuta mentre i genitori Iside e Osiride erano ancora nel grembo di Rea, allude simbolicamente alla concezione secondo la quale, prima che questo mondo venisse alla luce e trovasse la sua forma compiuta grazie alla ragione, la materia, pur essendone per sua natura incapace, aveva già prodotto in se stessa una prima, imperfetta creazione. Per questo dicono che la gestazione nelle tenebre ha fatto di Apollo un dio incompleto; e lo chiamano Horus il vecchio perché al momento della sua nascita non c'era ancora il mondo, bensì un'immagine soltanto e quasi uno spettro del mondo che stava per nascere.
Il nostro Horus, invece, è ben definito e compiuto in se stesso; egli non ha annientato completamente Tifone, ma è riuscito però a limitarne l'azione e il potere. Per questo a Copto Horus è rappresentato nell'atto di serrare in mano il membro di Tifone. Il mito vuole, d'altronde, che Ermes abbia  adattato i nervi  estratti  dal  corpo  di  Tifone  all'uso  di  corde  musicali:  e  questa  immagine  vuole simboleggiare che la ragione creò l'universo risolvendo in quest'accordo le discordanze delle singole  parti;  in  tal  modo  la  forza  distruttiva  non  venne  annientata,  ma  soltanto  mutilata.  Essa  risulta quindi  indebolita  e  inattiva  nel  nostro  mondo,  e  deve  combinarsi  con  elementi  passibili  di  trasformazione: il suo potere si esplica così nel produrre movimenti sismici nella terra, aridità e venti irregolari nell'aria, e anche fulmini e tuoni. Essa riesce poi a infettare acque e venti, e a estendere il suo influsso anche alla luna, portandovi disordine e sovvertimento, al punto da oscurarne spesso la luce: ora è Tifone che colpisce l'occhio di Horus, dicono le credenze egiziane, ora invece glielo strappa e lo ingoia, per poi restituirlo al sole. La prima immagine allude simbolicamente al novilunio mensile, 
la seconda invece alla eclissi: è il sole che vi porta rimedio, illuminando all'istante la luna non appena sia sfuggita all'ombra della terra. La  natura  migliore,  quella  più  divina,  si  compone  di  tre  parti,  ossia  il  principio  intelligibile,  la materia, e il risultato della loro unione, che i Greci chiamano cosmo. Platone usa definire il principio intelligibile con i termini idea, modello e padre; la materia con i termini madre, nutrice, sede e anche luogo di nascita; e il risultato della loro unione con i termini di prole e creazione. Si potrebbe dedurre  che  anche  gli  Egiziani  visualizzino  la natura  dell'universo  con  la  figura  del  triangolo  più  bello, proprio come Platone nella Repubblica sembra averlo impiegato per impostare graficamente il  concetto  dell'unione  matrimoniale.  Questo  triangolo  ha  l'altezza  di  tre  unità,  la  base  di  quattro  e l'ipotenusa di cinque, tale cioè che il suo quadrato è uguale alla somma dei quadrati degli altri due lati che la delimitano. L'altezza, dunque, può essere paragonata al maschio, la base alla femmina, e l'ipotenusa al figlio da entrambi generato; allo stesso modo Osiride si identifica con l'origine, Iside con  l'elemento  ricettivo, e Horus con il  loro  prodotto  compiuto.  Il  tre  è  il  primo  numero  dispari  e perfetto; il quattro è un quadrato costruito sul primo numero pari, il due; il cinque è in parte simile al padre e in parte alla madre, essendo composto dal tre e dal due; bisogna ricordare inoltre che panta  («tutto») deriva  dal  vocabolo pente  («cinque»), e  che  il  significato  del  verbo  «calcolare»  viene anche espresso per mezzo del verbo «contare per cinque». Cinque al quadrato, inoltre, dà un numero  che  corrisponde  esattamente  a  quello  delle  lettere dell'alfabeto egiziano, nonché agli  anni della vita di Apis.
Quanto a Horus, gli Egiziani lo chiamano anche Min, che vuol dire «colui che può essere visto»: il cosmo,  infatti,  è  una  realtà  sensibile  e  visibile.  Iside  invece  viene  chiamata  a volte  Muth,  o  anche  Athyri  o  Methyer. Col  primo nome  essi  indicano  in  lei  la  «madre»,  il  secondo  significa  «casa  cosmica di Horus»,  ossia, come intende anche Platone, il luogo dove il principio genetico viene ricevuto; il terzo nome è composto da «pieno»  e  «causa», e indica che la materia del cosmo è piena, e ha in sé il bene, il puro e l'ordinato. Si può forse affermare che anche Esiodo, quando pone come elementi primi solo il Caos, la Terra, il Tartaro ed Eros, non intenda assumere altri princìpi genetici diversi, ma esclusivamente questi: infatti, quando noi diamo a Iside il nome di Terra, a Osiride il nome di Eros e a Tifone il nome di Tartaro, altro non è che una semplice trasposizione verbale, dato che il Caos in Esiodo sembra essere unicamente lo spazio sottostante l'universo. Queste cose richiamano in un certo senso il mito sulla nascita di Eros, che Platone fa esporre a Socrate nel Simposio. Penia, la Povertà, voleva avere un figlio; allora si sdraiò al fianco di Poros, l'Ingegno  pieno  di  risorse,  mentre  era  addormentato,  concepì  da  lui  e  diede alla  luce  Eros,  che  risultò quindi di natura mista e multiforme, essendo nato da un padre buono, sapiente e autosufficiente in tutto, e da una madre, al contrario, priva di ingegno e di risorse, sempre dipendente dagli altri e in cerca della loro carità. Poros altri non è che il primo Amato, Desiderato, Perfetto e Autosufficiente; e col nome di Penia, Platone si riferisce alla materia, per sua natura sempre alla ricerca del bene, da questo fecondata e di esso desiderosa e partecipe. Il frutto della loro unione è il cosmo, e quindi Poros  non  è  eterno  né  esente  da  modificazioni  né  incorruttibile;  e  tuttavia,  dato  che  la  sua  natura  è quella di rinascere continuamente, riesce a restare sempre giovane e immune da distruzione, nonostante il mutare e l'avvicendarsi degli accidenti. Non dobbiamo certo impiegare i miti come fossero verità assolute: dobbiamo tuttavia trarre da ciascuno di essi quelle indicazioni che risultino utilmente aderire al principio della verisimiglianza. Così,  quando  parliamo di  materia,  non  dobbiamo  essere  influenzati dalle  teorie  di  alcuni  filosofi tanto da concepirla come un corpo in sé inanimato, indeterminato, immobile e inattivo. Quando infatti diciamo che l'olio è la materia dell'unguento odoroso, e l'oro è la materia della statua, non ci riferiamo certo a elementi del tutto privi di proprietà che li distinguano. L'anima stessa, lo stesso pensiero umano sono materia della conoscenza e della virtù: e il compito di perfezionarli e di armonizzarli lo attribuiamo alla ragione. C'è anche chi sostiene che la mente è la sede delle forme, e quindi in un certo senso la materia in cui si imprimono i dati della realtà intelligibile.
Alcuni  d'altronde  ritengono  che  il  seme  femminile  non  sia  potere  fecondante  e  principio genetico, ma semplicemente  materia  e  alimento  di  creazione.  Se  vogliamo  seguire  tale  concezione,  bisogna necessariamente dedurne che Iside partecipi in eterno del dio primigenio, e a lui si conceda e si unisca per amore della sua perfezione. Così di una donna onesta noi diciamo che, quando un uomo onesto e onorato la ama onestamente ed essa gli si concede, è ancora il desiderio di lui a muoverla: e la  stessa  cosa  si  può  dire  della  dea,  e  cioè  che  essa rimane  sempre  attaccata  a  Osiride  e  implora  il  suo amore e viene colmata dalle sue qualità più pure ed elevate.
Ma  quando  Tifone  arriva  all'improvviso con  la  sua  forza  e  si  impadronisce  delle  parti  estreme del mondo, allora Iside ha un aspetto infinitamente triste e piange il suo dolore, e si mette a cercare e a ricomporre quello che resta del corpo dilaniato di Osiride; poi raccoglie nel suo seno quei brandelli per metterli al sicuro, e grazie ad essi di nuovo dà alla luce gli oggetti della realtà, che da lei quindi scaturiscono. Nel cielo, nelle stelle, la ragione delle cose e le loro forme, ossia in sostanza tutto quello che emana dal dio, certo permangono immutabili; e invece ciò che si è disperso in mezzo alla realtà sensibile, e cioè nella terra, nel mare, negli esseri vegetali e animali, ebbene, questo muore e si corrompe e lo seppelliamo, anche le poi spesse volte di nuovo riluce e ricompare fra le creature. È a questo che allude il mito quando afferma che Neftys è sposa di Tifone,  e che Osiride si unì a lei solo di nascosto: e infatti le parti estreme della materia, quelle cioè che vengono chiamate Neftys e anche Fine, sono in potere della forza distruttiva. Il principio della fecondità e della sopravvivenza immette in esse un seme debole e sbiadito, che viene quindi subito distrutto da Tifone, a eccezione di quel po' che Iside riesce a raccogliere e a salvare, alimentandolo e poi dandogli forma. Osiride, in sostanza, è il migliore tra gli dèi, come del resto suppongono anche Platone e Aristotele. Il principio della fecondità e della sopravvivenza della natura si muove verso di lui e verso l'essere,  mentre  il  principio dell'annientamento  e  della  distruzione  da  lui si  allontana  per  rivolgersi  al  non essere. Per questo gli Egiziani danno a Iside un nome che deriva da «slanciarsi (iesthai) con conoscenza (episteme)»  e  «muoversi» (pheresthai), per alludere cioè alla sua natura di movimento animato  e  intelligente.  Bisogna  poi  osservare  come  tale  nome  non  sia  assolutamente  un  vocabolo straniero: come gli dèi (theoi) tutti derivano il loro nome comune da due forme verbali, «colui che è manifesto» (theatos) e «colui che corre» (theon), così questa dea noi la chiamiamo Iside, dall'unione di scienza (episteme) e «movimento» (kinesis), e col nome di Iside la chiamano anche gli Egiziani.
A questo proposito Platone riporta che gli antichi chiarivano il concetto di «essenza» (ousia) chiamandola  «conoscenza»  (isia);  anche lo  spirito  e  l'intelligenza  vengono definiti come  un  impulso  e un movimento della mente che si indirizza e viene sospinta verso una meta, e così pure la comprensione e il bene in genere e la virtù sono concepiti come realtà perennemente scorrenti e trasportate in un moto veloce. Con i termini opposti viene invece stigmatizzato il male: esso è un ostacolo per la  natura, qualcosa che la lega e la trattiene e le impedisce di muoversi e di procedere; suoi sinonimi sono «cattiveria», «incapacità»,    «viltà»,    «angoscia»(kakia, aporia, deilia, ania). 
Osiride  invece  deriva  il  suo  nome  dalla fusione  di  «santo» (hosios)  e  di  «sacro»  (hieros):  egli infatti è l'ordine razionale comune alle diverse realtà del cielo e di Ades, che gli antichi erano soliti chiamare  le prime  «sante», e  «sacre»  le  seconde.  Il  principio  che  rende  visibile  la  realtà  celeste  e che presiede a tutto quanto è sospinto verso l'alto, poi, è Anubis, chiamato anche Ermanubis, a seconda che ci si riferisca alla sua funzione nella realtà celeste o in quella infera. Per questo gli Egiziani  gli  sacrificano  in  occasioni diverse  un  gallo  bianco  oppure  fulvo:  bianco, quando  intendono  rivolgere la loro venerazione alle realtà pure e manifeste, fulvo quando si rivolgono a realtà miste e complesse.
Non  c'è  niente  di  strano  in  questa  sorta  di  traduzione  in  lingua  greca:  bisogna  ricordare  infatti  che esistono migliaia di altri nomi usciti dai confini della Grecia insieme alle migrazioni, e che sono rimasti in uso sino ad ora presso genti straniere; e quindi sono male informati quanti accusano di barbarismo i poeti che fanno rivivere nella loro arte alcuni di quei vocaboli, e li considerano erroneamente  come  glosse.  Nei  cosiddetti  Libri  di Ermes,  a  quanto  si  afferma,  riguardo  ai  nomi  sacri  sta  scritto  che  Horus,  ossia  la  forza preposta  al  controllo  del  moto  solare,  viene chiamato  Apollo  dai  Greci;  e  la  forza  preposta  al  controllo  del  vento,  invece,  viene  chiamata  ora  Osiride  ora  Sarapide;  Sothis, poi, in egiziano significa «gravidanza» (kyesis) o «essere gravido» (kyein), e in greco il vocabolo ha subìto solo una trascurabile modificazione, e si è trasformato in Cane (kyon), ossia il nome della stella attribuita a Iside. Ma non bisogna essere eccessivamente partigiani nell'attribuzione dei vocaboli: io però confesso che preferirei lasciare agli Egiziani il nome di Sarapide, anziché Osiride, perché il primo è un vocabolo straniero, mentre il secondo è a mio parere greco, anche se entrambi designano un'identica divinità e una sola potenza. Anche  nella  lingua  egiziana  si  compiono operazioni  simili.  Iside,  per  esempio,  viene spesso chiamata  col  nome  di  Atena,  perché  esso  significa  qualcosa  come «venni  da  me  stessa»,  e  allude quindi a un moto spontaneo. 
Tifone, come si è detto, viene chiamato anche Seth, Bebon e Smu, nomi tutti che vogliono indicare qualcosa di violento o una forza che trattiene e ostacola, o un'oppressione o un rovesciamento.
La calamita, poi, viene chiamata «Osso di Horus», e il ferro «Osso di Tifone», come attesta Manetone. Come il ferro, infatti, a volte viene attratto dalla calamita e altre volte invece ne è respinto, così il movimento del Cosmo, che è vitale, buono e razionale, a volte attrae nella sua sfera la dura forza tifonica, guidandola e molcendola con la persuasione, altre volte invece di nuovo raccoglie dentro di sé il suo potere di attrazione e fa precipitare la forza di Tifone nel vuoto illimitato.
Eudosso  scrive  che  gli  Egiziani  raccontano di Zeus questa storia.  Il  dio non poteva camminare, giacché le sue gambe erano sin dalla nascita saldate in un pezzo solo, e per la vergogna passava il suo tempo in solitudine. Fu Iside a tagliare e separare quella strana parte del suo corpo, mettendolo così in grado di camminare con le sue gambe. E il significato della storia è che la mente e la ragione del dio sono di per sé immobili nell'invisibile e nell'insensibile, e prendono la strada della creazione grazie a una spinta motrice.
Il sistro (seistron) significa che gli esseri viventi devono essere scossi (sefesthai) e non possono mai  smettere  di  muoversi,  e  se  si  trovano  a  essere,  vorrei  dire,  addormentati  e  intorpiditi  bisogna svegliarli e incitarli. Dicono che Tifone venga stornato e allontanato dal rumore del sistro, e questo è un simbolo del fatto che quando la forza distruttiva grava sulla natura e la limita, allora il divenire interviene a liberarla e a risollevarla col suo movimento. 
La parte superiore del sistro è rotonda, e alla sua circonferenza sono appesi i quattro elementi che si scuotono. E infatti la parte del cosmo soggetta al divenire e alla corruzione è circoscritta dalla sfera lunare, e tutto in lei si muove e muta attraverso l'azione dei quattro elementi, fuoco, terra, acqua e aria.  In  cima  al  disco  del  sistro  è  scolpito  un  gatto  con  la  faccia  umana;  nella  parte  bassa,  invece,  sotto i battagli, si trova il volto di Iside, e talvolta quello di Neftys: essi alludono alla nascita e alla morte (che altro non sono se non mutamenti e moti dei quattro elementi), mentre il gatto simboleggia la luna, dato che peculiari di questo animale sono la sua mutabilità, l'attività notturna e la fertilità. Si dice che il gatto partorisca la prima volta un solo piccolo, e poi due e tre e quattro e cinque: aumentando sempre di uno, arriva a partorirne sette, e quindi in tutto ventotto, ossia un numero esattamente corrispondente alle lunazioni. Può darsi che ciò sia soltanto una favola: resta però il fatto che realmente la pupilla del gatto sembra diventare più grande e più rotonda nel plenilunio, mentre si assottiglia e perde potere visivo quando la luna è in fase calante. L'aspetto umano del gatto indica poi il principio intelligente e razionale che contraddistingue i mutamenti lunari.

martedì 21 giugno 2016

Di cosa noi conosciamo secondo Anne Skjønsberg

FROTTOLE: Raccontare frottole significa affastellare pensieri e fatti bizzarri, insomma raccontare storie. La Chiesa affastella molti pensieri e molta legna di cui si serve per rispondere alle difficoltà presentate dai miscredenti che contestano le frottole raccontate loro.
(Il Libero Pensatore Paul Heinrich Dietrich, barone d'Holbach, La théologie portative, 1768)

Finalmente è arrivato, dopo The Amazing Colossal Apostle, un'altra ricostruzione delle origini cristiane che assumesse in linea di principio la conclusione a cui era arrivato il dr Detering nel suo The Fabricated Paul (ovvero che tutte le lettere paoline sono fabbricazioni del II secolo EC).

Devo ringraziare la norvegese Anne Skjønsberg per il suo libro The Jesus story Myth or Reality?: What do we know?, dove appunto emerge un sincero tentativo di una ricostruzione del genere.
Skjønsberg rivela fin da subito gli studiosi alla cui influenza è palesemente debitrice: Detering e Robert Eisenman in primis, ma anche Robert Price, Elaine Pagels e il duo Freke & Gandy.

Dedica appena quattro righe, a dire il vero, per citare le opere totalmente pseudo-scientifiche di Acharya e questo costituisce in effetti da solo un grosso limite del libro. Nella mia esperienza, fin troppo spesso ho visto che ricorre alle assurde possibilità ventilate da Acharya solo chi si ritrova a corto di genuina conoscenza storica (e francamente non mi capita sovente di dare dell'ignorante a qualcuno). Spero che la sua recente scomparsa possa almeno servire a disperdere nell'etere virtuale i cosiddetti esperti in “astroteologia”, lasciando solo al demente ciarlatano di turno il malsano entusiasmo nell'abusare dell'altrui fiducia.  Ad ogni caso, la menzione di Acharya en passant risulta piuttosto circoscritta e non infetta fortunatamente la buona qualità del libro, in quanto Skjønsberg  voleva solo alludere, citando l'astroteologia della guru americana, alla possibilità di una generica influenza sincretica (“forse alcuni dei miti detti a proposito del dio Sole sono dietro le storie su Gesù”) sui vangeli: a quello scopo, se fosse stata più attenta e meno boccalona, avrebbe potuto benissimo citare piuttosto la scala Rank-Raglan e notare come il Gesù evangelico vi figura in ben quarta posizione. Salvo questo errore piuttosto madornale (ma sono ottimista che in futuro non vedrò più dementi astroteologi figurare tra i miticisti), comunque, apprezzo la sincera onestà nella confessione di ciò che è veramente evidente una volta che sposti le epistole paoline nel II secolo (coll'inevitabile corollario dell'identità del Paolo storico con Simon Mago): 

Hermann Detering sottolinea che Paolo in parecchi scritti fu considerato Simon Mago e che Simon Mago scrisse parecchie lettere a seguaci in Asia Minore. Quelle lettere erano probabilmente più tardi presentate come le epistole paoline − forse una gran quantità rielaborata. Il nome dell'autore potrebbe essere stato cambiato da Simone Atomo a Paolo, in quanto Simon Mago era malvisto tra i cristiani ortodossi. Le lettere potevano non essere presentate come provenienti da Simon Mago, un eretico ed anticristo, se le lettere dovevano avere credibilità presso i cristiani.
Ma potrebbe anche essere che Marcione solamente cambiò lettere da Simon Mago (oppure altri) che erano in circolazione, e che Simone realmente utilizzò il nome 'il piccolo' oppure Atomo (ossia Paolo) circa sé stesso. Negli anni più antichi furono fatti parecchi errori e modifiche consapevoli oppure inconsapevoli nel materiale che ci è pervenuto, perfino nelle lettere di Paolo. Tutte le edizioni che possediamo oggi erano copiate da cristiani che molto certamente hanno revisionato i testi per adattarli alla dottrina da loro professata. Hermann Detering scrive:

L'Anticristo (Simone) lo incontriamo anche come il Figlio di Iniquità nell'ebraica Apocalisse di Elia. Qui viene anche detto che egli perseguitò i santi con estrema agonia. In un certo senso, sembra come che questo abbia a che fare con Simon-Paolo prima della sua conversione al cattolicesimo! Invero, questo aspetto del ritratto di Simon-Paolo (Paolo come persecutore) sembra essere stato consapevolmente ignorato dall'autore marcionita delle lettere paoline. Egli non aveva alcuna ragione di riportare questo fatto perchè il suo eroe non necessitava di giustificarsi per la persecuzione dei santi (vale a dire le più antiche chiese giudeo-cristiane), i quali per lui, come un antico rappresentante della chiesa giudeo-cristiana, furono una questione indifferente. Fu il redattore cattolico il primo a introdurre i passi sulla persecuzione in Galati, presumibilmente sulla base della presentazione in Atti. Infatti Paolo era ora divenuto un patrono della chiesa pure per i cattolici.  E nella misura in cui la memoria dell'attività persecutoria di Simon-Paolo era presente tra i giudeo-cristiani, questo doveva essere mitigato e compensato mediante l'introduzione di un'esperienza di conversione. La conversione di Paolo, perciò, è molto probabilmente per nulla affatto un fatto biografico, ma solo storico nella misura in cui riflette l'inizio del cattolicesimo con la sua fraternizzaione di Paolo e dei dodici. Solamente ora divenne innanzitutto possibile per giudeo-cristiani e marcioniti vivere pacificamente l'un con l'altro sotto un comune tetto cattolico. Il Simon-Paolo storico fu molto probabilmente non un convertito, ma un rinnegato! − In quanto uno gnostico fuorilegge, Simone è finalmente identico al nemico, o l'uomo ostile, di cui si parla non soltanto nella letteratura pseudo-clementina, ma anche negli scritti ebraici diretti contro Simone, dove è menzionata “la dottrina fuorilegge e irrazionale dell'uomo ostile”, precisamente la dottrina di Paolo. Anche Paolo domanda ai galati: “Sono io divenuto vostro nemico dicendovi la verità [del vangelo]?” (Galati 4:16)

Non è fino al secondo secolo che udiamo di Paolo e del vangelo di Luca e poi allora solo dall'arci-eretico Marcione. Allora esistono più di duecento anni da quando presero luogo gli eventi di cui raccontano i vangeli. Quanti assai dettagli e dati storicamente accurati era possibile ricordare e veicolare durante il primo secolo? Quanto possiamo dire noi oggi su cosa accadde un centinaio d'anni fa − per esempio, la Prima Guerra Mondiale in Europa, di cui abbiamo sia film che cronache, e ora Internet, provvisti di informazione di quel tempo? Gli scrittori dei vangeli non vissero nella regione dove gli eventi son detti di aver preso luogo e loro non erano ebrei. I loro commenti riguardo gli ebrei mostrano che non era un evento storico ciò che descrissero. Cosa dobbiamo allora credere di ciò che scrissero?
La mia conclusione è che in quei documenti parecchie storie furono mischiate assieme, numerosi documenti posti assieme, numerose persone presentate come una sola e anche piuttosto un sacco di fantasia.
Che Simon Mago e Marcione, comunque, fossero dietro la maggior parte di quelle lettere, io lo trovo molto probabile.

(mia rapida traduzione dalla posizione 7450-7490 dell'ebook)

Da Robert Eisenman, indipendentemente da Robert Price, Skjønsberg accetta la conclusione in merito a Giacomo come messianico non cristiano dalle simpatie filozelote e anti-establishment con possibili legami con gli esseni e coi posteriori ebioniti. Sul fatto che Giacomo sia dietro lo Stefano di Atti degli Apostoli, come intuì Eisenman, anch'io lo trovo parecchio probabile.

Da Detering, Skjønsberg accetta come abbiamo visto la stretta identità Paolo = Simon Mago (e la conseguente rivalutazione della gnosi). Egli perciò, proprio come il miticista Robert Price nel suo magnum opus The Amazing Colossal Apostle, vede Marcione un simoniano sulla via di istituzionalizzare il nascente cristianesimo, imitato in questo dai proto-cattolici.

L'essenismo da un lato, e il proto-gnosticismo dall'altro, sono i due mondi che giunsero a confliggere una volta che l'esponente del secondo si intromise nel primo. Due mondi che non Marcione, ma solo la nascente “Grande Chiesa” riuscì fatalmente nell'impresa di amalgamare.

Con quelle premesse, Skjønsberg non può che rifiutare il paradigma di Doherty/Carrier che lei apprende grazie a Freke e Gandy, e che riassume così:
Questo è ciò che [Freke e Gandy] hanno elencato riguardo la datazione delle scritture:
Le lettere paoline       50 circa
Gesù è un mistico dio-uomo che muore e risorge 
il vangelo di Marco    70-110 circa
Al mito di Gesù è dato un contesto storico e geografico
I vangeli di Matteo e di Luca 90-135
Sono aggiunti dettagli della nascita e resurrezione di Gesù e la storia viene abbellita. 

Il vangelo di Giovanni 120 circa
Una teologia cristiana è sviluppata. 

Atti 150-177
Essendo ora creata l'illusione di un Gesù storico, Atti viene creato per raccontare dei suoi discepoli. 

Lettere degli apostoli 177-220 
Sono fabbricate lettere attribuite a Paolo e agli apostoli.
(mia rapida traduzione dalla posizione 7662 dell'ebook)

Tuttavia Skjønsberg accetta la fondamentale tesi miticista che “i vangeli furono probabilmente scritti sulla base di alcune (o qualcosa dalle) cosiddette genuine lettere paoline, basati sulla presunzione che Paolo, menzionando Gesù Cristo (oppure forse piuttosto l'unto salvatore), si stava riferendo ad una persona storica”.
Paolo/Simon Mago scrisse e predicò agli ebrei della Diaspora. Da ciò segue che alcune congregazioni ebraiche devono essere stati i primi cristiani. Allora la domanda successiva è perchè gli ebrei divennero il capro espiatorio tra i cristiani nei primi anni. ... Poichè i vangeli nel Nuovo Testamento presentano una forte attitudine anti-ebraica, questo indica che i vangeli non furono scritti fino a piuttosto qualche tempo dopo le Guerre Giudaiche -- cioè dopo l'anno 135 -- quando i non-ebrei erano la maggioranza tra i cristiani ortodossi. Su questo sfondo, io presumo che le scritture dei primi secoli erano scritte quasi come spiegato da Freke e Gandy, ma con la differenza che le lettere paoline parzialmente devono essere state scritte da Simon Mago e parzialmente scritte o modificate da Marcione. Da cià segue che le lettere parzialmente devono essere state scritte intorno agli anni 50/60 e parzialmente attorno all'anno 140, a dipendere da chi ne era l'autore. Le scritture più antiche devono allora essere state scritte come segue:
I rotoli del Mar Morto 150 AEC - 70 EC
Lettere di Simon/Paolo 50-80 Parti di quelle lettere erano presumibilmente scritte da Simon Mago.
Vangelo di Tommaso 50-100
Presumibilmente scritto da un gruppo simoniano in Alessandria.
Alcune delle lettere di Paolo
120-140 Fabbricate da Marcione.
Cristo è un mistico dio-uomo che muore e risorge.
Vangelo di Marco 100-140
Il mito circa l'uomo Gesù è creato.
I vangeli di Matteo e di Luca 120-140
Dettagli sulla nascita, vita e morte di Gesù sono aggiunti. Le profezie nell'Antico Testamento sono utilizzate per rendere la descrizione degna di fede. A causa di questo, Gesù doveva essere nato in Palestina.
Vangelo di Marcione 140 circa
Vangelo di Luca è modificato.
Nag Hammadi 120-150
I vangeli gnostici sono scritti.
Vangelo di Giovanni 150 circa
Il vangelo è apparentemente scritto in origine come un'introduzione ad un'iniziazione.

Attorno all'anno 150, Policarpo, Papia, Giustino Martire e altri stabilirono un movimento contro Marcione e i gruppi gnostici, e modificarono i vangeli così da poterli adattare alla loro dottrina. Utilizzarono profezie dell'Antico Testamento in un maniera appropriata alle loro dottrine.  Utilizzarono gli esseni e Apollonio di Tiana come esempi della vita e delle dottrine di Gesù. Marciarono contro la dottrina dei filosofi greci e altri maestri di sapienza di tempi più antichi, ma utilizzarono una tale dottrina, specialemnte le parabole, quando serviva al loro scopo. Quindi otteniamo i seguenti scritti:

scritti apocrifi
150-200 basate su leggende note.
Atti 150-177 L'uomo Paolo è creato come un'alternativa a Simon Mago. La sua vita e la sua dottrina è presentata.
Le lettere apostoliche. 150-220 Le cosiddette lettere pastolari di Paolo e le altre lettere ora nel Nuovo Testamento sono scritte.
Attachi agli eretici da 150 in poi
Ireneo, Tertulliano e gli altri.
Nella mia opinione, il cristianesimo venne in essere allo scopo di ridurre l'influenza della teologia di Marcione e della dottrina degli gnostici.
(mia rapida traduzione dalla posizione 7800-7829 dell'ebook)

Uno dei Trentasei Stratagemmi, antichissimo trattato militare cinese sull'arte della guerra, recita
“Uccidere con una spada presa a prestito

 Prima della lettura del libro di Anne Skjønsberg io mi domandavo quale fosse stata la spada “presa a prestito” dai proto-cattolici nel loro feroce antagonismo, a tratti dai toni quasi isterici, a Marcione, una volta intrapresa la decisione di cooptarne e sanitizzarne la letteratura eretica (le originarie epistole 'paoline' più un vangelo). In fondo, quella gente aveva capito cos'era la posta in gioco contro l'uomo del Ponto. Celso descrive perfettamente le rivalità all'epoca tra gnostici e proto-cattolici, quando ancora la chiesa marcionita contendeva il titolo di “Grande Chiesa” a quella proto-cattolica:
E non si creda che io non sappia che tra loro alcuni ammettono di avere lo stesso dio degli Ebrei, altri un dio diverso al quale quello si oppone e dal quale è venuto il figlio. Anzi so benissimo dell'esistenza di una terza categoria di persone che chiamano alcuni Cristiani col nome di psichici e gli altri col nome di pneumatici.
Vi sono poi alcuni che professano di essere Gnostici, altri che, pur accogliendo Gesù, desiderano vivere ancora secondo la legge ebraica, come la massa degli Ebrei, e altri sono poi Sibillisti. Conosco anche dei Simoniani, i quali, venerando Elena o Eleno come loro maestro, son detti Eleniani; ci sono i Marcelliani, seguaci di Marcellina, e gli Arpocraziani, seguaci di Salòme, ed altri ancora seguaci di Mariamme ed altri di Marta. I Marcioniti poi riconoscono il loro capo in Marcione. Altri ancora ne conosco: e chi si è trovato come suo capo un maestro o un demone e chi un altro, brancolando ed aggirandosi tristemente in una gran tenebra ancor più nefanda ed impura di quella dei devoti di Antinoo in Egitto.
A vicenda costoro si scagliano le ingiurie più orribili, dicibili ed indicibili, né potrebbero rassegnarsi alla concordia a nessun patto, poiché si odiano l'un l'altro senza remissione. Così chiamano Circi e «astuti mestatori» gli aberranti. Altri son chiamati «marchio dell'orecchio», altri «enigmi», altri ancora «scandali»; alcuni «Sirene danzanti» e «seduttrici che sigillano le orecchie con la cera e che trasformano in bestie con la testa di porco chi dà loro retta». E da tutti questi, che tanto son disuniti e che tanto turpemente si accusano nelle loro rivalità, sentirai dire: «Il mondo è stato crocifisso per me ed io per il mondo...». E poi i Cristiani esperti nelle scritture sostengono di averne una conoscenza superiore a quella degli Ebrei!

(Origene, Contra Celsum, 5:61-65, mia enfasi)

Per dare un assaggio dell'odio isterico congenito in ogni cattolico verso Marcione (e tutto quello che il suo semplice nome rappresenta), invito il lettore a percepire quel medesimo odio nelle parole di un folle apologeta cattolico di Internet:
Successivamente dal Ponto, una regione dell’Asia minore, si presentò Marcione, altro esponente gnostico, che propose una radicale opposizione al giudaismo e all’Antico Testamento (R.M. Grant, “Gnosticism an Early Chrystianity”, Columbia University Press; Edizione riveduta 1967). Tutti e due questi personaggi furono decisamente respinti, addirittura Policarpo, vescovo di Smirne, discepolo dell’apostolo Giovanni, che in quel periodo (inizio del pontificato di Aniceto, n.d.r.) era presente a Roma, rispose così al tentativo di saluto da parte di Marcione: Ti conosco! Ti conosco! : tu sei il primogenito di Satana (Ireneo di Lione, “Adversus haereses”, III, 3, 4) e (Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica, IV, 14, 7). Nello stesso modo si comportò l’apostolo Giovanni con un altro gnostico, un certo Cerinto, incontrato alle terme di Efeso (Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica, IV, 14, 6). (mia enfasi: ovviamente il folle apologeta cattolico omette prudentemente − e vergognosamente − di riportare l'augurio di morte messo in bocca all'apostolo Giovanni all'indirizzo di Cerinto)

Visto? La bestia cattolica, dopo 2000 anni e rotti, avrà certo mutato il pelo, ma non il vizio, considerando come manifesta dopo 2000 anni contro Marcione lo stesso odio che nutriva per lui il folle apologeta Policarpo. Ecco perchè uno studioso serio e competente come Richard Carrier, che pure non è sospettabile affatto di essere filo-cristiano, non contemplerà mai, almeno pubblicamente, la concreta possibilità che le lettere paoline furono una fabbricazione marcionita, o che il Paolo storico fu in realtà Simone il Mago. Perchè un ipocrita consensus dominato da folli apologeti cristiani potrà certo chiudere un occhio dinanzi a chi nega la storicità di Gesù (previa accettazione della genuinità delle epistole), ma non potrà mai far passare liscia la sfacciata proclamazione che il proto-cattolicesimo fu posteriore alla gnosi.   La cosa migliore dell'opera di Richard Carrier è che lui prende le ipotesi tradizionali (ad esempio, che Paolo scrisse le lettere) e, a differenza dei teologi tradizionali, egli trae da quelle ipotesi precise conclusioni logiche. Anche se non possiamo essere certi sulla validità di quelle assunzioni, il suo caso è un  valido scenario che risponde al quesito 'che cosa se?'.
Naturalmente esiste una buona probabilità che tutta la letteratura cristiana è spuria, ma allora in quel caso non possiamo davvero dire nulla di nulla.

Ricordo che il dr. Carrier dice esplicitamente in OHJ che lui non sfiderebbe mai il consensus casomai lui non potesse fare un caso abbastanza forte contro di esso, perfino se coltivasse i suoi legittimi personali dubbi intorno a quel consensus. Paraddosalmente, proprio perchè lui si basa su ciò che dice il consensus intorno alle epistole, Carrier riesce a fare un fortissimo argomento contro la storicità di Gesù.


Tornando al contributo originale del libro di Skjønsberg, io lo identifico di certo nel riconoscimento della “spada presa in prestito” dai proto-cattolici contro Marcione. Non fu solo Giovanni il Battista (come pensavo, e come pensa anche il prof Vinzent) come ponte ideale ma cooptato tra Gesù e l'Antico Testamento, ma anche un personaggio tanto caro a Robert Eisenman: Giacomo.
Io considero indiscutibile che il Simone su cui scrive Flavio Giuseppe sia lo stesso mago Elima e il Simone che praticò la magia in Samaria, menzionati ambedue in Atti. Come abbiamo visto, Simon Mago visse attorno all'anno 60 EC e fu onorato dai suoi numerosi aderenti e tardi seguaci come un uomo saggio, come un salvatore ed un dio, e rivestito pure dal titolo “Cristo”. Anche Apollonio fu onorato come un uomo saggio di origine divina. Simon Mago fu contro l'ortodossia ebraica e fu esperto in filosofia greca ed egiziana. Presumibilmente egli fu un forte oppositore dell'ortodossia ebraica. Egli ebbe parecchi seguaci. Gli calza bene il termine mistico. E' allora naturale dargli l'epiteto di Mago. Nei luoghi dove Simon Mago guadagnò aderenti, società erano formate e incontri erano pianificati.  Come abbiamo visto, questo accadde, per esempio, a Roma, dove fu onorato come un dio. Come Simone fu chiamato Cristo, Salvatore e figlio di Dio, devono esserci stati quelli tra i seguaci di Simone che per prima chiamarono sé stessi cristiani. Ma nel secondo secolo, quando il successore di Simone Marcione ebbe numerosi sostenitori, gli oppositori di Marcione avrebbero a quanto pare cercato di convertire quelle qualifiche, che devono essere state generalmente conosciute, su qualcun altro rispetto a Simone. Ricercando nei ricordi storici scritti − come per esempio le scritture dell'Antico Testamento − furono trovate predizioni che potevano essere elaborate ulteriormente. Questa fu forse la principale ragione dietro l'inclusione dell'Antico Testamento nel canone cristiano. Dovremo anche notare gli sforzi attivi dei cristiani nello screditare Marcione.
Marcione (85-160) sembra essere il vero autore del vangelo di Luca, nella mia opinione, ma dal suo tempo, alcuni hanno modificato il testo così che esso corrisponde alla desiderata dottrina della fede. Lo stesso sembra applicarsi alla maggior parte delle lettere assegnate a Paolo. La conclusione di Hermann Detering che quelle lettere sono composte di numerose lettere, comprese alcune che in origine probabilmente provenivano da Simon Mago, sembra altamente ragionevole. Più tardi quelle lettere furono abbellite da copisti ed editori e perciò impugnate dai cristiani ortodossi, che quindi cooptarono le lettere di Marcione − che divennero le epistole paoline del Nuovo Testamento − nel loro campo.
Esistevano parecchie leggende in circolazione che furono riportate come eventi apparentemente reali del tempo. Questo lo possiamo vedere dagli scritti apocrifi di cui abbiamo conoscenza oggi. Gli scritti che furono accettati dai cristiani ortodossi sono difficilmente più credibili di quelli che non furono accettati. Come menzionato, fu solo dall'anno 367 che noi possediamo un manoscritto che dice quali scritti dovrebbero essere accettati come il canone cristiano − circa trecento anni dopo l'esistenza di Gesù.
Giustino Martire (100-165) dalla Samaria fu, come menzionato, il primo, a parte gli scritti del Nuovo Testamento, ad affermare che Gesù fu un uomo ucciso sotto Ponzio Pilato. Giustino, che proveniva dalla Palestina, sebbene non un ebreo, deve aver viaggiato per buona parte dell'Impero romano, molto probabilmente dell'Asia Minore, prima di giungere a Roma. Egli deve aver udito di Apollonio di Tiana, del quale fu detto che visse sia ad Antiocha in Siria e sia in Efeso.  Egli deve essere stato consapevole di Giosuè Redivivus e di Simon Mago, che provenivano entramvi dalla Samaria. Giustino fu a Roma al tempo di Marcione e fu all'incirca della stessa età come lui, e poichè essi per qualche tempo devono esser appartenuti allo stesso circolo, egli deve aver conosciuto gli scritti e la teologia di Marcione. Fu tra quei due che ci fu così tanto disaccordo in materia di teologia che Marcione fu espulso dalla Chiesa? Sembra così a me. Forse fu Giustino e il suo gruppo che per prima cambiarono gli scritti di Marcione e crearono la persona Gesù e il cristiano Paolo come sono presentati nel Nuovo Testamento. Giustino nei suoi scritti ha incluso un numero di testi che troviamo nelle epistole paoline e in altri scritti del Nuovo Testamento, sebbene senza far menzione di chi in origine li scrisse. Forse fu lui ad essere l'autore di quei testi. Giustino creò alcune delle leggende che circondano la figura di Gesù, parzialmente basandosi su quel che veniva detto di Apollonio? Non è chiaro quando gli scritti del Nuovo Testamento furono scritti. le più antiche versioni in nostro possesso provengono solamente dalla fine del secondo secolo. E' interessante notare che Ermas (150 circa), del quale fu detto che fu il fratello di un papa, non possiede una singola citazione da una fonte biblica nei suoi scritti.
La comunità giudeo-ortodossa di Giacomo in Giudea non puà essere stata una chiesa cristiana, una società basata sulla storia della crocifissione e resurrezione del figlio di Dio. La società di Giacomo e la chiesa di Paolo, come quest'ultima è presentata nelle epistole paoline, non possono essere state in rapporti particolarmente buoni. Ma il gruppo di Giacomo fu probabilmente utilizzato allo scopo di rappresentare una mitologia di Gesù e presentato come il primo gruppo cristiano allo scopo di offrire ai cristiani qualche legittimità, specialmente alla luce delle profezie dell'Antico Testamento su di un messia da Gerusalemme e dalla Giudea.
 Persone che possiedono straordinarie abilità sono facilmente viste con sospetto dai loro contemporanei. Ognuno che non ha esperito persone con poteri psichici o di guarigione spesso si rifiuta di accettare tali fenomeni. Ognuno che non ha avuto esperienze spirituali facilmente negherà che accadono. Esiste una ragione per credere che esistevano parecchi nel primo secolo che, come oggi, non crederebbero all'esistenza di mistici e psichici tra di loro, così Simon Mago fu combattuto per quella ragione. L'antipatia dei primi patri della chiesa alle filosofie greche ed egiziane indica che questo gruppo costruì un movimento contrario al misticismo e alle religioni misteriche. Come sottolinea Elaine Pagels, esistevano parecchie fedi nell'Impero romano nei primi secoli, e fu necessario un lungo tempo prima che il cristianesimo possa esser detto di aver presso piede. Ma quando finalmente fu accettato, la Chiesa poteva cominciare una persecuzione dei dissidenti e una distruzione di tutti gli scritti che potevano supportare un differente credo. Il dominio del cristianesimo fu quindi assicurato. La struttura gerarchica della Chiesa aiutò a stabilire l“unica vera fede”.
La conclusione dev'essere, nella mia opinione, che i padri della chiesa del secondo secolo crearono una religione basata su personaggi fittizi e leggende dell'Antico Testamento, della filosofia greca e delle religioni misteriche.

(mia rapida traduzione dalla posizione 8702-8760 dell'ebook)

Quella è la lucida conclusione di un'autentica critica radicale dei testi in nostro possesso − mera letteratura, sante favole, e niente più.
Se davvero il “colossale, impressionante apostolo” di Tarso è solo un gigantesco, mastodontico ologramma costruito attorno alla figura del Mago, nella stessa misura in cui l'“incredibile, rimpicciolito figlio dell'uomo” proveniente da Nazaret si riduce ad un minuscolo punto evanescente sotto i colpi della ferrea logica e dell'evidenza - di tutta l'evidenza - in nostro possesso, allora nessuno può sfuggire dalle conclusioni a cui è giunta Anne Skjønsberg. Apprezzo la sua onestà intellettuale e la sua coerenza nell'arrivare a quella conclusione, data quella particolare premessa in merito a Paolo.  Il caso sarebbe finalmente chiuso, se soltanto il dr. Detering avesse pronunciato l'ultimo verdetto finale su Paolo: che lui, chiunque egli fosse, non fu il vero autore delle lettere che portano il suo nome.

Ma se quel Giacomo in odore di essenismo (se non addirittura di sedizione, a detta di Robert Eisenman), al pari di un Giovanni il Battista, fu cooptato cent'anni dopo dai proto-cattolici a sua insaputa e reso “cristiano” come semplice prezioso pedone -- venduto come “fratello di Gesù” o “fratello del Signore” se in un'interpolazione o in una propaganda o in una “epistola” -- da muovere sulla scacchiera contro Marcione, allora il risultato non sarebbe poi così diverso da chi invece accetta fino in fondo l'autenticità delle sette epistole paoline e si spinge però a sostenere che fu Paolo il vero fondatore del mito della crocifissione di Gesù (oltre che della resurrezione), e neppure i cosiddetti “Pilastri” o “santi” da lui abboccati a Gerusalemme. Anche in quel caso ipotetico, infatti, il miracolo accade che persone totalmente ignare di un Gesù crocifisso e risorto, e tanto più di un fantomatico ipotetico “Gesù storico”, furono poi brandite e vendute post-mortem come presunti testimoni genuini non solo di un “Gesù risorto” (come già lo era Paolo), ma anche di un “Gesù storico”. A maggior gloria della sedicente “Grande Chiesa” così come a totale scapito della pura e banale verità.