martedì 28 febbraio 2017

Sul Paradosso di Jerim Pischedda


SIMONIA: Illecito traffico di doni dello Spirito Santo. I preti del Signore stanno bene attenti a venderli: come Jourdain, le donano in cambio di denaro. Nella Chiesa romana solo ceneri e roghi vengono dati gratuitamente.
(Il Libero Pensatore Paul Heinrich Dietrich, barone d'Holbach, La théologie portative, 1768)
«I cristiani, per una di quelle frodi che vengono chiamate pie, falsificarono grossolanamente un passo di Giuseppe. Attribuiscono a questo ebreo, così ostinato nella sua religione, quattro righe ridicolmente interpolate, e all'inizio di questo passo aggiungono: Egli era il Cristo. Come! Se Giuseppe avesse sentito parlare di tanti accadimenti che stupiscono la natura, ne avrebbe riferito solo per quattro misere righe nella storia del suo paese? Come! Quell'ebreo testardo avrebbe detto: Gesù era il Cristo. Eh! Se l'avessi creduto il Cristo, allora saresti stato cristiano. Che assurdità far parlare da cristiano Giuseppe! Come è possibile che esistano ancora teologi tanto imbecilli o insolenti da tentare di giustificare questa impostura dei primi cristiani, riconosciuti come fabbricatori di imposture cento volte più forti?»
(Nota di Voltaire, aggiunta nel 1769, mia enfasi.)

Nel 2017 ci sono ancora persone che non riescono a dar credito alla teoria del Mito di Gesù senza tentare di mitigarla con la loro ipotesi prediletta: quella di un Gesù storico all'origine del mito di Cristo. Perdere il contatto e la protezione di quel fantasma idealizzato di nome “Gesù storico” le lascerebbe moralmente obbligate ad andare in confusione, così dicono, perchè il mondo come lo conoscevano si squaglierebbe fra le loro braccia paralizzate di folli apologeti cristiani improvvisamente resisi conto di essere tali.  Impreparati ad accettare l'evidenza, la rifuggono come il sognatore fugge all'incubo che lo insegue. Credono che se dovesse essere provata la tesi miticista – che Gesù fu una pura invenzione e non una figura storica – moriranno di pazzia, vedendone i contorni e sperimentando il contatto con ciò che sono convinti non debba mai essere accaduto. Non c'è dubbio che a questa esperienza sopravviverebbero, come tanti hanno fatto prima di loro. Abbiamo già sopportato di vedere confutata qualsiasi pretesa di storicità dietro pericope dopo pericope di ciascun vangelo, confutazione che non avremmo dovuto avere, a detta dei folli apologeti cristiani, ma che tuttavia era nel nostro destino avere. Abbiamo già constatato la confutazione definitiva di ogni pretesa di autenticità, anche solo di una millesima parte, del cosiddetto Testimonium Flavianum, alla rivelazione che si trattava meramente di un tendenzioso e propagandistico Testimonium Eusebianum. Ma quante ancora ne possiamo sopportare? Come reagiranno i folli apologeti cristiani sapendo che non c'è stato alcun Gesù storico all'origine del cristianesimo, neppure dietro lo stesso “Cristo Gesù” di Paolo? Sarà la fine della più grande civiltà mai esistita? O si ristabiliranno per magico incanto le cose com'erano prima che il mito venisse spacciato e venduto per Storia? Per ora, chi non riesce a dar credito alla ricostruzione delle origini cristiane senza il Gesù storico sembra al sicuro. Sembra che il miticismo abbia finora arrecato poco danno alla concreta diffusione planetaria del mito cristiano (e a chi ci campa sopra). Ma forse un giorno lo farà. Allora potrebbe venire il momento di sancire la fine definitiva della civiltà giudeo-cristiana. Ma mentre aspettiamo col fiato sospeso che le statistiche confermino un giorno la popolarità del miticismo – nè più nè meno di quanto sembra già un fatto compiuto in Inghilterra –, checché se ne lamentino i teologi sotto mentite spoglie di accademici, in Internet non smetteranno nel frattempo di scandalizzarsi e proliferare con sempre maggior insistenza chi viene a venderci qualche altra ridicola apologetica della medesima illusione chiamata “Gesù di Nazaret”. E non occorre girarsi tanto intorno per realizzare l'identità di questi piazzisti del sacro che infesteranno a più riprese Internet con una miriade di siti apologetici: essi avranno l'ostinata presunzione di auto-decorarsi con una falsa pretesa di scientificità. Una presunzione che è pari solamente alla loro congenita ipocrisia, a sua volta parte e parcella del loro mestiere di folli apologeti cristiani.

Certamente un esempio di apologeta cristiano della rete è Jerim Pischedda, le cui assurde conclusioni in merito alle fantomatiche persecuzioni anti-cristiane le avevo già criticate come meritano in un altro blog.

Il caso Pischedda è emblematico della tipica arroganza montata ad arte dagli apologeti cristiani quando si tratta di dedurre false implicazioni da premesse pur corrette. Lo storico Richard Carrier ha giustamente etichettato come fallacia del possibiliter ergo probabiliter l'errore logico che i simili di Pischedda hanno trasformato in una specialità della loro intera categoria di “bugiardi per Cristo”. L'esempio più eclatante è appunto il seguente “argomento” in supporto della storicità di Gesù che ho sentito la prima volta da Pischedda: 

1) Tacito parlò di “Christus” come dell'originatore dei “Chrestiani”.

2) Tacito consultò di certo gli archivi e non si basò su alcun sentito dire cristiano.

3) perciò Tacito è la prova indipendente che Gesù (che fu chiamato Cristo) è esistito veramente.

Che tale argomento sia un classico esempio di fallacia del possibiliter ergo probabiliter (solitamente ad uso e consumo dei folli apologeti cristiani) lo confessa lo stesso Bart Errorman, [1] quando riconosce che
...le sue [di Tacito] informazioni non sono particolarmente utili per stabilire se un uomo di nome Gesù è vissuto o no. Da dove aveva tratto le notizie che riporta?  È ovvio che avesse sentito parlare di Gesù, ma scriveva a circa ottantacinque anni dalla sua morte, e a quell'epoca i cristiani ne stavano certamente raccontando le vicende (i vangeli erano già stati scritti, per esempio), che i miticisti abbiano torto o ragione. Sia ben chiaro che Tacito basa i suoi commenti relativi a Gesù su una serie di voci e non su una puntuale ricerca storica. Se avesse compiuto un'indagine dettagliata, avremmo avuto una descrizione più esauriente, anche di poco.
...Tacito, per sapere che cosa era accaduto a Gesù, non consultò alcun documento ufficiale scritto ai tempi in cui l'uomo fu giustiziato (ammesso che tali documenti siano esistiti). Pertanto riportò informazioni trasmesse oralmente. Impossibile sapere se le avesse sentite dai cristiani o da qualcun altro.

(Gesù è davvero esistito?, pag. 57, mia enfasi)

Andare, o cercare di andare, «oltre», come fa Pischedda, trasformando le parole di Tacito in qualcosa di più del mero sentito dire intorno al Cristo dei cristiani,  rischia dunque di condurre soltanto alla fantascienza e alla fantastoria. Cioè, in entrambi i casi, e ancora una volta, alla letteratura fantastica, a un ramo della quale – la teologia – il Pischedda dovrebbe pur esserne esperto.

Eppur Pischedda è talmente innamorato del suo “argomento” che, onde evitare che qualcuno (come Richard Carrier in un articolo accademico) possa dubitare che Tacito si riferisse esattamente ai cristiani di Cristo – e non magari ai riottosi seguaci dell'“impulsore Chresto” svetoniano (apparentemente attivo a Roma solo qualche anno prima sotto Claudio) – ha cercato in tutti i modi di dimostrare che il cosiddetto “frammento 2” di Tacito presente in un'opera di Sulpicio Severo non fosse affatto scritto dallo storico romano, ma fosse una mera fabbricazione dell'apologeta cristiano Sulpicio Severo. Pare che lo abbia fatto nell'ennesima conferenza (o sermone?) organizzata fin nei minimi particolari (coi soldi pubblici?!?) da alcuni apologeti cristiani, con tanto di improvvisata quanto improbabile giuria composta da una torma di teologi cristiani sotto mentite spoglie di storici. Sia ben chiaro che Pischedda non introduce niente di nuovo alla discussione intorno al frammento 2 (checchè in giro lui possa vantarsi del contrario), visto che lo stesso dr. Carrier era da un pezzo giunto alla sua stessa conclusione (in un articolo da dove, come si vedrà, Pischedda ha attinto un'acuta osservazione senza probabilmente menzionare che la sua fonte si chiama Richard Carrier) esattamente contro le idee espresse da Eric Laupot.

Che le seguenti parole, riportate da Sulpicio Severo,
“Si racconta che Tito, chiedendo consiglio, ponderasse in anticipo se avrebbe raso al suolo un Tempio tanto maestoso. Ad alcuni infatti sembrava opportuno distruggere un edificio sacro, splendido come nessun'altra opera d'uomo, la cui conservazione avrebbe testimoniato la moderazione dei Romani, mentre la sua distruzione sarebbe stata un marchio perenne della loro crudeltà. Altri però, e Tito stesso, ritenevano al contrario che bisognava distruggere innanzitutto il Tempio, per cancellare in modo radicale la religione dei giudei e dei cristiani. Queste religioni, infatti, benchè ostili tra di loro, derivavano dagli stessi fondatori: i cristiani erano usciti dai giudei, estirpata quindi la radice, l'albero si sarebbe estinto facilmente”
(Sulpicio Severo, Chronica 2.30.6-8)

...non fossero realmente di Tacito lo aveva infatti già dimostrato oltre ogni dubbio il dr. Carrier, nel suo articolo “Severus Is Not Quoting Tacitus: A Rebuttal to Eric Laupot” (2006), reperibile qui.

Eppurtuttavia mi va di stimare il Pischedda per questa sua ultima esposizione (a differenza delle altre), perchè dimostra che perfino uno come lui, pur così seriamente impedito dai suoi fortissimi pregiudizi di fervente adoratore del feticcio “Gesù di Nazaret”, risulta capace, anzi capacissimo, di apprezzare e riconoscere la profonda dipendenza letteraria di un autore dalla letteratura e dalla teologia precedenti ad un livello tale da accertarne come inconfondibile l'impronta in quella che altrimenti sarebbe passata per l'opera di un altro. Perchè quello è esattamente il caso con il frammento 2 di Tacito: non fu Tacito a scriverlo, nonostante lo stile apparentemente tacitiano, bensì il folle apologeta cristiano Sulpicio Severo, in quello che appare, a detta del Pischedda, come un vero e proprio “teologumeno”, cioè, per farla breve, un compendio infarcito da cima a fondo di teologia.

Merito di Pischedda è certamente l'aver raccolto una lista esauriente di tutte quante le occorrenze, nella letteratura cristiana e pagana disponibile a Sulpicio Severo, della metafora della radice, in aggiunta all'illustrazione del chiaro significato teologico che la rese così tanto fortunata tra gli apologeti cristiani.
“Tuttavia, quando l'ebbe ridotto in suo potere, considerando il pregio e l'antichità dell'edificio, rimase a lungo incerto se dovesse incendiarlo, per togliere un incentivo ai nemici, o risparmiarlo, a testimonianza della vittoria. Ma, germogliando ormai la Chiesa di Dio in pieno rigoglio su tutta la terra, per volere di Dio quel tempio dovette essere soppresso come esausto, vuoto e inadatto a qualsiasi buon uso. E così Tito, acclamato imperator dall'esercito, incendiò e distrusse il Tempio di Gerusalemme”.
(Orosio, Hist. Adv. Pag. VII, 9, 5-6)

“Come avviene per gli alberi, ciò che più piace è la cima, non le radici o il tronco: ma quella senza questi non può esistere”.

(Cicerone, Orator 147)

“Rebecca, a lungo sterile, grazie alle preghiere incessanti del marito al Signore, a quasi vent'anni del matrimonio diede alla luce due gemelli. Si racconta che essi sussultavano molto frequentemente nel seno della madre e in un oracolo le fu detto da Dio che preannunciavano due popoli e che il più grande sarebbe stato sottomesso al più piccolo”
(Sulpicio Severo, Chronica 1.7.1, ovviamente la fonte midrashica di Luca 1:41-45, qualcosa che Pischedda astutamente non dice)

“È quindi più importante che venga cancellata la malvagità, che vengano recise la radice ed il seme dei peccati; si tolga la cattiva radice perché non faccia cattivi frutti”.
(Ambrogio, Apologia del Profeta Davide XIII, 62)

“Se egli [Vespasiano] fosse venuto per sterminare la nazione, avrebbe dovuto attaccarvi direttamente alla radice e distruggere senza indugi questa città. Mentre invece si trattenne a devastare la Galilea e il territorio circostante per darvi tempo di rinsavire”.
(Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica VI, 6, 2)

“I comandanti tuttavia affermavano che la robustezza delle mura e le fortificazioni del Tempio sarebbero stati in futuro un incentivo per i giudei ed occasione di arroganza, e pertanto dovevano essere estirpate le radici della ribellione affinchè la loro temerarietà non riprendesse vigore. Cesare tuttavia differì il consiglio al giorno seguente”.

(pseudo-Egesippo, De excidio urbis Hierosolimitanae V, 42, 3-4)

“Guardando bruciare il Tempio, gli stessi romani incendiavano tutto il resto, affinché nessun edificio sopravvivesse alla distruzione del Tempio, ritenendo che insieme al tempio dovesse perire tutto ciò che riguardava la religione”.
(pseudo-Egesippo, De excidio urbis Hierosolimitanae V, 43, 1)

Di certo quando Pischedda sottolinea di passaggio che la metafora della radice risultava:
“...essere assai comune in una società sostanzialmente agricola come quella antica”
(fonte)

...dispiace che non sia così onesto da riconoscere il debito, per quell'osservazione, a Richard Carrier, laddove quest'ultimo aveva già scritto:
Supponendo che Laupot avesse ragione che radix e stirps fossero intese in senso agricolo  (e, come abbiamo visto, non c'è alcuna forte ragione di crederlo), metafore agricole sono abbastanza comuni in tutta la letteratura antica. L'Antichità era una civiltà basata sull'agricoltura, e ciascuno era più familiare coi concetti agricoli rispetto ad ogni altro concetto. Tali metafore sarebbero più facilmente comprensibili dal maggior numero di persone, e perciò gli autori le avrebbero preferite, e le preferivano. 
(Richard Carrier, Severus Is Not Quoting Tacitus: A Rebuttal to Eric Laupot, 2006, mia traduzione e mia enfasi)

Che non l'abbia fatto (ma potrei sbagliarmi, perchè il video non permette di vedere la bibliografia) dimostra ancora una volta ad un tempo la paura del folle apologeta cristiano di riconoscere qualcosa al miticista Richard Carrier, come pure la sua tipica arroganza di ripiego nel non ritenerlo degno di menzione. Puah!

Tuttavia non è solo la mera segnalazione di tale colpevole e interessata trascuratezza che mi ha indotto a segnalare quest'analisi, ma anche e soprattutto dell'incredibile senso di ironia sollevato immancabilmente al mio orecchio dalle parole finali di Pischedda, appena prima che un forte scrosciare di applausi provenisse dai folli apologeti cristiani là convenuti:

 Quanto allora rimane di Tacito del frammento 2 di Tacito? Tutto sommato ben poco, direi, soprattutto nella seconda parte, anche se non ci si può non domandare se ha ancora senso, dopo centocinquant'anni, continuare a chiamare il frammento 2 di Tacito con tale nome e inserirlo in coda alle edizioni dei testi tacitiani.
(fonte, mia enfasi)

Pensateci: un insolente apologeta cristiano ha il coraggio di riportare quelle parole! Non ci sarebbe nulla di male, in effetti, tanto più se le si dice a ragion veduta, per di più al termine di un'ottima dimostrazione (ancorchè per nulla originale) della verità della propria asserzione.

Ma quale sarebbe la reazione del medesimo folle apologeta cristiano, allorchè io avanzassi la stessa perentoria esortazione ma a proposito di un'altra evidente totale interpolazione cristiana, vale a dire del Testimonium Eusebianum, meglio conosciuto come Testimonium Flavianum, finito impunemente, per mano di quel bastardo falsario di Eusebio di Cesarea, nell'opera Antichità Giudaiche dello storico ebreo Flavio Giuseppe ?


Le mie parole suonerebbero pressappoco così, come quelle del Pischedda:

Quanto allora rimane di Flavio Giuseppe del Testimonio Flaviano? Tutto sommato ben poco, direi, praticamente nulla, anche se non ci si può non domandare se ha ancora senso, dopo così tanti secoli, continuare a chiamare il Testimonio Flaviano con tale nome e inserirlo nel bel mezzo del racconto originale di Flavio Giuseppe nelle edizioni del suo libro.
(mia enfasi)


E parimenti, anch'io potrei portare un sacco di prove a conferma e a giustificazione della mia asserzione. È sufficiente un rapido scorcio alla seguente tabella (liberamente ispirata ad un articolo di Ken Olson) per realizzare quanto ogni singola sillaba del cosiddetto Testimonium Flavianum sia in realtà mera farina del sacco di Eusebio (e di nessun altro):


Il finto Testimonium Flavianum:
Il vero Testimonium Eusebianum:
In questo periodo ci fu Gesù, un uomo saggio, se davvero si deve chiamarlo un uomo, perché era autore di opere straordinarie,
“autore di opere straordinarie”  compare centinaia di volte in Eusebio, riferito a Gesù (in particolare in Dimostrazione 3.4.21 e in Storia ecclesiastica 1.2.23) e a Dio (Vita di Costantino 1.18.2).
maestro di uomini
Per Eusebio, Cristo è “maestro di uomini” (Dimostrazione 3.6.27, 9.11. 3, le varianti in 3.7.6 e 5., Proem.24)
che ricevono la verità
“Egli insegnò loro le verità (τὰ ἀληθῆ) non condivise da altri, ma stabilite come leggi da lui o dal Padre in tempi remoti per gli antichi e pre-mosaici uomini Ebrei di Dio”. (Eusebio, Dimostrazione 4.13.169)
con piacere,
Eusebio elogia i Cristiani che subiscono il martirio con ἡδονή , “piacere”, (In lode di Costantino 17.11, Martiri della Palestina 6.6)
e attirò a sé molti Ebrei e anche molti dei Gentili.  
“Così tutta la calunnia contro i suoi discepoli è distrutta, quando per le loro prove, e anche a parte le loro prove, deve essere confessato che molte miriadi di Ebrei e di Gentili sono stati portati sotto il suo giogo da Gesù il Cristo di Dio attraverso i miracoli che egli fece.”  (Eusebio, Dimostrazione 3.5.109)

“Tutti quelli che vennero a lui, egli li liberò dalla superstizione secolare e dalle paure dell’ errore politeistico”
(Eusebio, Dimostrazione 4.10.14)

“con l'insegnamento e miracoli Egli ha rivelato i poteri della sua divinità a tutti allo stesso modo, se Greci o Ebrei”.
 (Eusebio, Dimostrazione 8.2.109)

“La divinità del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo è diventata famosa tra tutti gli uomini a causa della sua potenza miracolosa, e ha portato a lui miriadi, anche di quelli che in terre straniere erano molto lontani dalla Giudea, nella speranza di guarire dalle malattie e da tutti i tipi di sofferenza”. (Eusebio, Dimostrazione 1.13.1)

“E non è affatto sorprendente che quei Gentili, che molto tempo fa ricevettero benefici dal nostro Salvatore, avrebbero fatto queste cose”.
(Eusebio, Dimostrazione 7.18.4)
Egli era il Cristo.
Per Eusebio, che Gesù sia il Cristo dovrebbe essere ovvio, ma è anche una conseguenza di quanto detto sopra secondo la logica del Testimonium Eusebianum.
Anche se, per l'accusa degli uomini notabili tra di noi, Pilato lo condannò alla croce, quelli che in principio aderirono non cessarono, perché egli apparve loro il terzo giorno, nuovamente vivo, poiché i profeti divini avevano detto queste
“sicuramente tutti avevano visto la fine del loro maestro, e la morte a cui Egli era giunto. Perché, allora, dopo aver visto la sua misera fine, non cedono? ”
(Eusebio, Dimostrazione 3.5.39)

“Vi chiedo in che modo questi discepoli di uno spregevole e sfuggente maestro, che avevano visto la sua fine, discutevano tra loro su come dovevano inventare una storia su di Lui che reggesse?”
(Eusebio, Dimostrazione 3.5.113)
e miriadi di altre meraviglie su di lui.
L’espressione καὶ ἄλλα μυρία (“e miriadi di altre cose”)  è presente otto volte altrove nell’opera di Eusebio.
E ancora oggi la tribù dei cristiani, che da lui prendono il nome,
τῶν Χριστιανῶν. . . τὸ φῦλον (“la tribù dei Cristiani”) è  presente due volte altrove nell’opera di Eusebio.
non è venuta meno.
[Gesù]  di tutti coloro che ci siano mai stati fino ad oggi (εἰς ἔτι καὶ νῦν), è chiamato Cristo tra tutti gli uomini”
(Eusebio, Storia ecclesiastica,  1.3.19)

“i Farisei e i Sadducei sono scomparsi (ἐξέλιπον), tanto che non si fa menzione di loro neanche ad oggi (εἰς ἔτι νῦν), e il loro nome non è preservato tra gli Ebrei”
(Eusebio, Commentario sui Salmi 23 col. 684C)


Nota allora quello che non si può che d'ora in poi etichettare come il celebre “Paradosso di Jerim Pischedda” nei seguenti termini:

 Se il folle apologeta cristiano di turno crede che “il frammento 2 di Tacito” in realtà non fu mai scritto, neppure in minima parte, dallo storico romano Tacito a causa della più coerente collocazione letteraria, filologica e teologica del suo contenuto nell'opera di Sulpicio Severo,

...allora per quale oscura, invero stranissima (!!!) ragione, lo stesso folle apologeta cristiano si rifiuta ancora di credere che il cosiddetto “Testimonium Flavianum” non fu mai scritto, neppure in minima parte, dallo storico ebreo Flavio Giuseppe, tenuto conto della più coerente collocazione letteraria, filologica e teologica del suo contenuto nell'opera di Eusebio di Cesarea  ???

Chiaramente il folle apologeta cristiano in questione non ha e non avrà mai una risposta, dato che per lui – e soprattutto per la sua apologia del feticcio adorato col nome di “Gesù storico” – suona troppo imbarazzante (invero: compromettente) riconoscere la falsità dell'intero Testimonium Flavianum. Egli insisterà sempre sull'assurdo (l'autenticità anche solo parziale del Testimonium Flavianum) quando per lui la realtà storica è troppo assurda da accettare.

Ancora una volta, il caso Pischedda dimostra come una delle principali caratteristiche degli apologeti cristiani sia l’assenza di qualsiasi profondità storica, almeno quando si tratta del fabbricato feticcio “Gesù di Nazaret”: Gesù non viene trattato con lo stesso approccio con cui verrebbe trattato ogni altro personaggio letterario nell'assenza di una prova certa e sicura della sua esistenza, ma come una figura a sé stante, scollegata dalle altre, considerata storica di default perfino facendo a meno di qualunque prova, fosse pure del contrario. L’opinione venduta dagli accademici intorno a “Gesù di Nazaret” fluttua così in balìa dei capricci delle lobby cristiane che li sponzorizzano e li sovvenzionano sfacciatamente, incapaci di opporre qualsiasi resistenza alla narrazione  preferita da quelle stesse lobby. Ma la verità è che gli esperti del “Gesù storico” non meritano di essere considerati esperti fino a quando non riconoscono onestamente la fragilità dell'ipotesi “Gesù storico”. Lo studio della storia è quindi eversivo: non solo perché rinvanga fatti scomodi che i folli apologeti cristiani preferirebbero dimenticare o trascurare (come la natura falsa dell'intero Testimonium Flavianum), ma anche (o soprattutto?) perché consente di accusare in pieno i cristiani proprio quando gli stessi cristiani guardano con nostalgia al loro ruolo prominente d'un tempo accusando di continuo presunti torti del presente che, a loro dire, non ci sarebbero stati se soltanto loro fossero ancora predominanti nella società. Ma come possono i cristiani puntare il dito alla pagliuzza nell'occhio del prossimo (i presunti errori della modernità atea ed ex-cristiana) quando loro stessi non osano guardare all'enorme trave nel loro occhio (l'inesistenza storica di Gesù di Nazaret) ?

I folli apologeti cristiani non rispondono.


O meglio, l'ipocrisia è la loro risposta.

E che fossero sommamente ipocriti, l'avevo già capito da un pezzo.


Nota però un un altro, più sottile paradosso.
A memoria d'uomo, io non ho mai sentito Ken Olson, o Paul Hopper, o Richard Carrier, o perfino Voltaire per quella materia [2], insistere con simile febbricitante vena polemica che poichè è già provato oltre ogni ombra di dubbio che l'intero Testimonium è un falso cristiano, allora occorrerebbe estrometterlo del tutto dalle future edizioni critiche aggiornate dell'opera di Flavio Giuseppe. E se non lo hanno fatto loro, di certo non sarò io il primo a reclamarlo: è sufficiente, a mio modesto avviso, solo una nota a piè di pagina per indicare ai lettori che quelle parole non sono affatto di Flavio Giuseppe, ma del famigerato falsario cristiano Eusebio di Cesarea. Eppure una soluzione simile non basta, evidentemente, all'insaziabile appetito del folle e insolente apologeta cristiano: lui auspica la totale rimozione da ogni futura edizione critica degli Annali di Tacito di qualsivoglia riferimento al cosiddetto “frammento 2” (che frammento non è), non sia mai che un solo accenno ad esso renda più problematico di quanto non lo è già il passo tacitiano sui “Crestiani”. Perchè non c'è alcuna necessità del ridicolo “frammento 2” per sospettare già i “Crestiani” di Tacito di essere tutt'altro che i pacifici “Cristiani” di Gesù detto Cristo, alla luce dell'evidente desiderio degli apologeti (e, in ultima istanza, dello stesso “bugiardo per Cristo” Jerim Pischedda) di provare che i cristiani erano di gran lunga più numerosi e importanti a Roma di quanto lo fossero davvero a quel tempo, e tenendo conto della verità piuttosto imbarazzante (per i simili di Pischedda) che in realtà i cristiani contavano, nei cruciali anni formativi tra il 62 e il 70 Era Comune, poco più che 10000 fedeli (!) in tutto l'impero romano, e ancora nel 200 Era Comune costituivano all'incirca soltanto lo 0,3% (!!) di tutta la popolazione romana [3]: un numero talmente esiguo e minuscolo che rende i cristiani dei candidati piuttosto improbabili e implausibili al ruolo di vittime di un'intera persecuzione di massa da parte dell'imperatore Nerone


NOTE:

[1] Lo stesso Errorman però commette lievemente un altro esempio di fallacia del possibiliter ergo probabiliter quando scrive non a proposito di Tacito ma di Plinio, nei seguenti termini:
“Inoltre, fa sapere Plinio all'imperatore, i cristiani «cantano un inno a Cristo come se fosse un dio».  È tutto quello che dice su Gesù.”
(Gesù è davvero esistito?, pag. 53, mia enfasi)

...facendo quasi credere che solo perchè Plinio fa il nome di “Cristo”, allora egli debba riferirsi in realtà all'uomo “Gesù”. Si guardi come il miticista Frank Zindler ha criticato Errorman su questo punto:
Questa svista è assai più terribile di quanto potrebbero supporre i lettori se loro non sono familiari coi libri accademici di Ehrman. Un esame del suo The Orthodox Corruption of Scripture: The Effects of Early Christological Controversies on the Text of the New Testament (Oxford, 1993), mostra che egli è davvero un'autorità sul soggetto del “separazionismo” – a dire il vero, sembra lui stesso ad aver inventato il termine “separazionista”!
A pagina 14 di The Orthodox Corruption scrive Ehrman: “Altri cristiani riconoscevano con gli adozionisti che Gesù fosse un vero uomo di carne e ossa e che qualcosa di significativo gli fosse accaduto al battesimo. Per loro, comunque, non è che egli fu adottato come Figlio di Dio; invece, al suo battesimo Gesù venne ad essere posseduto da Dio. Fu allora che un emissario del regno divino, una delle deità della Divinità, di nome “Cristo”, entrò in Gesù per spingerlo alla sua predicazione. Di nuovo, qualche tempo prima della sua crocifissione, il Cristo divino si congedò da Gesù per far ritorno al Pleroma, il regno divino, lasciandolo solo a soffrire il suo fato. Questa è una cristologia che definirò separazionista, perchè ipotizza una divisione tra l'uomo Gesù e il divino Cristo... ”
Tutto il capitolo 3 di Ehrman (“Corruzioni anti-separazioniste della Scrittura”) è dedicato a mostrare come la tradizione ortodossa abbia “corrotto” i passi confondendo sistematicamente il Gesù e il Cristo! Così quando Ehrman cita la menzione di Cristo da parte di Plinio per provare l'esistenza di Gesù, egli stesso sta sbandierando la “corrotta” vista ortodossa!
C'è qualcosa di sinistro nel ripetuto rifiuto di Ehrman di trattare con le implicazioni logiche dello stesso materiale di cui egli è un'autorità riconosciuta. In modo simile, egli è un'autorità sul docetismo, tuttavia si rifiuta completamente di spiegare come la più antica “eresia” cristiana possa essersi sviluppata così presto se Gesù Cristo fosse stato storico. Ripetutamente, lui ridicolizza ogni questione a favore di una “corrotta” tradizione ortodossa!—FRZ

(Frank Zindler, citato in Renè Salm, NazarethGate, American Atheist Press, pag. 153, nota 6, mia libera traduzione)

[2] Così Voltaire:
Parecchi studiosi non hanno nascosto la loro sorpresa nel non trovare nello storico Giuseppe alcuna traccia di Gesù Cristo; tutti oggi convengono infatti che il breve passo in cui vi si accenna nella sua Storia è interpolato.
(Voltaire, Cristianesimo. Ricerche storiche sul cristianesimo, in Dizionario Filosofico)
[3] Quelle statistiche sono tratte da Charles Freeman, 2009, 'A New History of Early Christianity', Yale University Press: New Haven, pagine 72-73.

lunedì 20 febbraio 2017

Sulla cooptazione della figura di Giovanni il Battista come “Paolo mancato” in Marco




 ANTICHITÀ: Non sbaglia mai e non ha mai sbagliato; la vecchiaia è sempre prova indubitabile della validità di un'opinione, di un uso, di una cerimonia, eccetera. È molto importante non innovare nulla: le vecchie calzature sono più comode di quelle nuove, i piedi non vi stanno stretti. Il clero non deve mai rinunciare a ciò che ha sempre praticato. La Chiesa più vecchia è la meno soggetta a farneticazioni. 
(Il Libero Pensatore Paul Heinrich Dietrich, barone d'Holbach, La théologie portative, 1768

Sì, la forza della verità è maggiore che non si creda, e la sua tenacia indicibile. Ne troviamo le numerose tracce in tutti i dogmi, anche i più bizzarri e assurdi, dei vari paesi e dei vari tempi; spesso, è vero, in strana compagnia e in un amalgama curioso, ma tuttavia sempre riconoscibili. La verità è simile ad una pianta che germoglia sotto un mucchio di grosse pietre, ma che tuttavia si arrampica verso la luce; con sforzi inauditi, con mille giravolte e inflessioni, sformata, pallida, intristita, ma pur sempre verso la luce.
(Arthur Schopenhauer)

È giunto il momento di parlare più approfonditamente della figura storica di Giovanni il Battezzatore,  sapendo che in qualche modo, prima o poi, dirò qualcosa di originale su questo tizio.
Perchè furono i cristiani ad essersene interessati, a volere che finisse nei loro vangeli, ma non prima che il primo di loro, quello su cui tutti gli altri si basarono, fosse stato scritto. Ed io ho deciso di parlarne, perchè la curiosità dei miei lettori sulla mia opinione in merito si è rivelata ben più grande di quanto le loro parole sarebbero riuscite a spiegare. Confesso di essermi scandalizzato dalla curiosità che hanno attorno a Giovanni il Battista, quasi contenesse in sè il segreto delle origini cristiane, eppure si tratta dell'uomo il cui nome non figura nemmeno nelle epistole di Paolo – il nostro più antico testimone del mito di Cristo – perciò come mai tanto interesse? Certo, è esistito, ma anche Caifa oppure Ponzio Pilato è esistito, eppure non suscita altrettanto interesse (nonostante anche Pilato fosse stato cooptato dalla successiva propaganda cristiana e venduto come convertito cristiano!).

E così ho deciso di investigare più a fondo su Giovanni il Battezzatore. Di certo tutti sanno che è difficile perfino convenire se Giovanni fosse stato davvero un profeta, come i vangeli pretendono che fosse, visto che Flavio Giuseppe non lo chiama affatto “profeta”, ma solo “uomo buono”. E di certo raccogliere le masse non basta a elevare un leader al ruolo di “profeta”.
Ad alcuni dei Giudei sembrò che l’esercito di Erode fosse stato annientato da Dio, il quale giustamente aveva vendicato l’uccisione di Giovanni soprannominato il Battista. Erode infatti mise a morte quell'uomo buono che spingeva i Giudei che praticavano la virtù e osservavano la giustizia fra di loro e la pietà verso Dio a venire insieme al battesimo; così infatti sembrava a lui accettabile il battesimo, non già per il perdono di certi peccati commessi, ma per la purificazione del corpo, in quanto certamente l’anima è già purificata in anticipo per mezzo della giustizia. Ma quando si aggiunsero altre persone – infatti provarono il massimo piacere nell’ascoltare i suoi sermoni – temendo Erode la sua grandissima capacità di persuadere la gente, che non portasse a qualche sedizione – parevano infatti pronti a fare qualsiasi cosa dietro sua esortazione – ritenne molto meglio, prima che ne sorgesse qualche novità, sbarazzarsene prendendo l’iniziativa per primo, piuttosto che pentirsi dopo, messo alle strette in seguito ad un subbuglio. Ed egli per questo sospetto di Erode fu mandato in catene alla già citata fortezza di Macheronte, e colà fu ucciso”. (Antichità Giudaiche 18, 116-119)

Però io credo che Giovanni fu importante agli occhi di “Marco” (autore) a causa della concomitanza di tre fattori:

1) Giovanni era considerato un “uomo buono” a detta di tutti (Antichità Giudaiche 18:116);
2) Giovanni era radunatore di folle;
3) Giovanni fu vittima del Potere.

I vari Giuda il Galileo, Teuda, il “Profeta Egiziano”, Giovanni di Gamala, ecc., potevano pure soddisfare il secondo requisito e/o il terzo, ma di certo non venne riconosciuta loro dal popolo una bontà d'animo, tantomeno da un filoromano come Flavio Giuseppe.
il problema per un cristiano storicista è evidente: se Giovanni il Battista presentava tre aspetti così fondamentali anche per l'inventato Gesù di carta (reverenza popolare, notorietà e martirio innocente), come mai un uomo simile non conobbe affatto il Gesù di carta?

Forse il problema sarà compreso più facilmente se lo presento nella forma di una dicotomia tanto insolubile quanto imbarazzante (per “Marco”): se tutti gli ebrei – e perfino i lettori greco-romani di Flavio Giuseppe – furono scossi dal sentire quanto sembrasse buono, famoso e martire innocente Giovanni il Battezzatore, allora quanto sarebbe assai più inaspettato per i futuri lettori dei vangeli il loro sgomento al senso di spaventosa distanza tra l'esistenza storica di Giovanni (chiamato il Battista) e quella sola presunta (perchè essenzialmente non-storica) di Gesù (che fu chiamato Cristo) ?

È chiaro che quella distanza, così imbarazzante, aveva da essere compensata, se non in proto-Marco, quantomeno in Marco e a seguire in tutti gli altri vangeli. Quest'imbarazzo – l'imbarazzo di un Gesù di carta ignaro di Giovanni il Battista, e viceversa – doveva essere superato – con la menzogna, se necessario. E così ecco l'ennesima prova che chi evemerizzò Gesù la prima volta sulla Terra, ossia “Marco” (autore), agì così deliberatamente col proposito di ingannare, e soddisfare, gli stupidi hoi polloi.

Il malcelato imbarazzo all'idea che uno storico Giovanni il Battista in vita sua non conobbe mai Gesù è grande ancor oggi, visto come si affannano goffamente i folli apologeti cristiani, come e peggio del proto-cattolico “Matteo”, a rendere Giovanni e il Gesù di carta non solo ciascuno a conoscenza dell'altro, ma anche ciascuno profondo estimatore dell'altro.
La realtà non è che i due non si stimassero a vicenda, ma peggio (!): che i due non si conoscevano affatto perchè l'uno era esistito (Giovanni) mentre l'altro non era esistito (Gesù).

La menzione di Giovanni il Battista nella santa favola di “Marco” è quindi una prova contro il Gesù storico, perchè è evidente e atteso l'imbarazzo dell'inventore nel caso di una sua eventuale mancata introduzione di Giovanni nel racconto: “Marco” non avrebbe mai avuto bisogno di menzionare un predicatore “buono, famosissimo e per giunta vittima innocente del potere”, all'inizio della sua narrazione, a meno che non portasse un nome diverso da “Gesù” e fosse, a differenza sua, realmente esistito, pena altrimenti di rassegnarsi alla terribile “evidenza” di un Gesù di carta preteso “buono, famosissimo e per giunta vittima innocente del potere” eppure – e qui risiede la fonte ultima dell'imbarazzo – del tutto trascurato da un personaggio (realmente) storico di egual valore quale fu Giovanni il Battista.

Nel più antico vangelo, l'eventuale silenzio del Gesù di carta intorno ad un eroe popolare come Giovanni, del tutto ricambiato nella Storia reale da un Giovanni il Battista in carne e ossa verso il Gesù predicato da Pietro e da Paolo, sarebbe stato troppo imbarazzante, addirittura controproducente, per il primo fabbricatore del Gesù di carta (cioè “Marco”): sarebbe equivalso all'implicito riconoscimento della totale inesistenza del Gesù che “Marco” (autore) si apprestava, su carta, a vendere come storico.

E così il criterio di imbarazzo, in questo caso, lungi dal dimostrare la storicità del battesimo di Gesù da parte di Giovanni, ne conferma invece il carattere puramente mitologico e leggendario: un Gesù a conoscenza di Giovanni, al punto da dirigersi personalmente da lui pur di riceverne il battesimo al pari di un qualsiasi altro suo oscuro seguace, fu evidentemente meno imbarazzante per “Marco” – evidentemente il suo piccolo finto “prezzo” da pagare – rispetto ad un Gesù ignorante di Giovanni e che – peggio ancora! – da Giovanni non fu affatto visto né udito in tutta la sua nobile vita.

Molti secoli dopo, la stessa logica di “Marco” dietro l'introduzione di Giovanni nel suo vangelo porterà un sovrano ugonotto a pronunciare la famosa frase: “Parigi val bene una messa”.

Questo ci dice anche che i caratteri del Gesù fittizio mutuati dal Giovanni storico – ricordiamoli di nuovo: notorietà, buona fama e morte innocente – furono così tanto connaturati al DNA stesso del Gesù di carta (nelle intenzioni del suo inventore) che immaginare un Gesù diverso – un ipotetico Gesù storico puntualmente non famoso, non amato dal popolo e non martire innocente – significa di fatto, a meno che non si voglia ridicolizzare la questione, quantomeno trovarsi nella profonda necessità – come prima e perfino più di prima – di una prova indipendente ed extra-evangelica dell'esistenza storica di quest'altro Gesù così diverso dal Gesù di carta.

In un blog precedente del
10/02/17 avevo già illustrato come lo stesso Giovanni il Battista venisse allegorizzato da “Marco” (autore) nientemeno che nella Parabola del Seminatore, più precisamente in quella parte di seme finito lungo la “via”, impedito dal metter radici perchè “divorato” da “uccelli”. Sempre in quel blog, avevo anche accennato all'identificazione di Erode con chi “divorò” simbolicamente Giovanni, in una scena che presenta tutti i tratti di una macabra “contro-eucarestia”, come ebbe a dire efficacemente Henrik Tronier:
 Come introduzione a questa sezione, Marco narra in 6:14-29 l'incidente circa Erode e Giovanni il Battista in maniera che i lettori lo vedano come dotato di un significato simbolico. Ciò che otteniamo è una pervertita contro-eucarestia: un deipnon tra i capi politici ebrei che è dominato dalle passioni del corpo (desideri sessuali) e in cui la testa di Giovanni il Battista è servita su un vassoio. (Fortunatamente, io non sono il solo a leggere la storiella in questo modo; si veda Iersel 1998 ad hoc.).
(Henrik Tronier, “Philonic Allegory in Mark”, pag. 33, mia libera traduzione)
Ora, io penso che quell'identificazione allegorica (il “seme” finito lungo la “via” come lo stesso Giovanni preparatore della “via” al futuro Messia) aiuti a comprendere – e nel contempo ad esaurire completamente – il ruolo ed il significato di Giovanni nel primo vangelo:

1) egli viene prima di tutti gli altri “semi” (prima di Pietro, il “seme” inutile che cade nel terreno pietroso, prima di Giacomo e Giovanni, il “seme” inutile caduto “nelle spine” della loro ambizione dei primi posti – si veda Marco 10:35-45 – prima di Paolo, il “seme”, l'unico “seme”, che porterà immenso “frutto” tra i gentili nella “terra buona” – la “Galilea dei gentili”) e in questo senso è anteriore cronologicamente alla setta cristiana.

2) egli non è cristiano e non vide neppure la “colomba” dello spirito posarsi sul capo del Gesù di carta, in Marco 1:10-11, e poichè morì precocemente per mano di Erode (essendo in questo senso il seme “divorato” prematuramente dagli “uccelli”, in una sorta di macabra contro-eucarestia, appena prima di recare veramente “frutto”) non fece in tempo a conoscere il Gesù di carta perchè – è sottinteso – se soltanto gli fosse stata data la possibilità, l'avrebbe riconosciuto senza indugio, dalle sue stesse opere, come il Messia da lui stesso profetizzato.

In questo modo Giovanni diventa il profeta simbolo di tutti i profeti anteriori a Cristo, e come loro, “seme” martirizzato troppo presto dal malvagio di turno perchè divenisse capace di realizzare pienamente l'identità del Messia da lui stesso profetizzato.

Così quello che per “Marco” rischiava d'essere un reale e imbarazzante punto di debolezza e di estrema vulnerabilità – l'esposizione alla facile accusa che non perfino il grande eroe popolare Giovanni il Battista conobbe il Gesù di cui pure avrebbe inconsapevolmente imitato le orme – fu trasformato da “Marco”, con un genuino colpo da maestro, in un formidabile punto di forza: Giovanni il Battista venne fisicamente a contatto con Gesù – addirittura lo battezzò! (“come puoi dubitarne che non lo fece?”, sembra domandare con fin troppa sospetta enfasi l'inventore “Marco” del Gesù di carta) – però non fece in tempo a riconoscerlo per la figura da lui stessa predetta, perchè caduto troppo precocemente vittima innocente del malvagio Erode, come da copione per ogni vero profeta del Messia degno del ruolo.

La decapitazione di Giovanni per mano di Erode costituisce quindi per “Marco” un provvidenziale espediente narrativo così da allegorizzare adeguatamente Giovanni dietro il seme “divorato” dagli “uccelli” troppo presto per poter recare “frutto” a beneficio della “Parola”, ma intanto “Marco” avrebbe almeno esorcizzato il rischio imbarazzante (e soprattutto: reale) di un Gesù sconosciuto a Giovanni, rendendo consapevole il secondo dell'esistenza del primo almeno durante un'unica, brevissima quanto fittizia, occasione: durante il battesimo di Gesù al Giordano.

Una consapevolezza (di un Gesù storico) altrimenti evidentemente mancante nel Giovanni il Battezzatore realmente esistito.

    
Perchè probabilmente un Gesù storico non era mai esistito.


Nel frattempo, il lettore non-iniziato di “Marco” non avrebbe mancato di riconoscere – ed apprezzare – il fatto che Pietro e il resto dei dodici, seppure resi partecipi privilegiati della prolungata compagnia del Gesù di carta (a differenza del Battezzatore che lo vide in una sola breve occasione, secondo il racconto) furono così idioti da non riconoscerlo come messia crocifisso – addirittura da rinnegarlo o abbandonarlo come tale: un peccato mortale che invece di certo non avrebbe commesso Giovanni il Battista, se solo gli fosse stato concesso di sopravvivere più a lungo nel racconto. Proprio come nella Parabola del Seminatore il seme caduto lungo la “via”, se non fossero intervenuti troppo presto gli “uccelli” a “divorarlo”, avrebbe di certo recato “frutto” in egual misura al seme caduto sulla “terra buona” (simboleggiante Paolo).

Giovanni il Battista fu dunque trasformato dal paolino “Marco” (autore) in una sorta di Paolo mancato, e in quella misura, un precursore di Paolo stesso nella figura del Gesù di carta.

È “Marco” stesso, fingendosi “Erode”, a reiterare il punto che Giovanni sarebbe stato un alter Christus, ovvero un “altro Paolo”, se soltanto avesse conosciuto più a fondo “Gesù”/Paolo:
Il re Erode sentì parlare di Gesù, poiché intanto il suo nome era diventato famoso. Si diceva: «Giovanni il Battista è risuscitato dai morti e per questo il potere dei miracoli opera in lui». Altri invece dicevano: «È Elia»; altri dicevano ancora: «È un profeta, come uno dei profeti». Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare è risuscitato!».
(Marco 6:14-16)

Ma intanto gli inventori avevano ottenuto ciò che volevano: “il suo nome”, quello di Gesù, “era diventato famoso”, e così la fama positiva – e soprattutto: storica – di Giovanni il Battista sarebbe andata a maggior gloria del Gesù di carta, agli occhi dei lettori di Marco.

Quest'analisi si ricollega per via indiretta, perciò, a quella fatta da Tom Dykstra a proposito di Giovanni il Battista nel primo vangelo:
Presentazione di Giovanni il Battista come un'Immagine di Paolo

Non è difficile vedere che esistono alcuni paralleli tra Giovanni il Battista e Gesù in Marco, da una parte, e tra Paolo l'Apostolo e Gesù, dall'altra parte. Giovanni predicava (κηρύσσω) un Gesù che doveva venire dopo di lui. Paolo predicava (κηρύσσω) un Gesù risorto che doveva venire al giudizio dopo di lui. Giovanni predicava conversione e battesimo come una preparazione per l'incontro col Signore venturo; Paolo predicava conversione e batteismo come preparazione per l'incontro col Signore venturo. L'opera di Giovanni come battezzatore cominciò “nel deserto”, che implica che era una terra non-ebraica; quella di Paolo fu commissionata da Dio come l'apostolo dei gentili e cominciò la sua opera apostolica nel deserto dell'Arabia, una terra non-ebraica. Giovanni proclama di essere “non degno” di Gesù esattamente allo stesso modo in cui Paolo proclama di essere “non degno” di Gesù:

E predicava: “Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non sono degno (οὐκ εἰμὶ ἱκανὸς) di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali.”
(Marco 1:7)

Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e io non sono degno (οὐκ εἰμὶ ἱκανὸς) di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio.
(1 Corinzi 15:9)
Il passo di 1 Corinzi è lo stesso contenente il tema de “l'ultimo sarà il primo” e de “il minimo sarà più grande”, che come mostrai prima è un altro modo di Marco per alludere a Paolo.

È anche significativo che Gesù esplicitamente difende l'autorità di Giovanni in Marco, e che fa questo giusto dopo la purificazione del tempio così che possa diventare un luogo di preghiera per “le nazioni”. Di fatto, Marco si assicura che il passo circa l'autorità di Giovanni comincia in una maniera che la collega direttamente alla purificazione del tempio:

Andarono di nuovo a Gerusalemme. E, mentre egli camminava nel tempio, vennero da lui i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani e gli dissero: «Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l'autorità di farle?». Ma Gesù disse loro: «Vi farò una sola domanda. Se mi rispondete, vi dirò con quale autorità faccio questo. Il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini? Rispondetemi». Essi discutevano fra loro dicendo: «Se diciamo: «Dal cielo», risponderà: «Perché allora non gli avete creduto?». Diciamo dunque: «Dagli uomini»?». Ma temevano la folla, perché tutti ritenevano che Giovanni fosse veramente un profeta. Rispondendo a Gesù dissero: «Non lo sappiamo». E Gesù disse loro: «Neanche io vi dico con quale autorità faccio queste cose».
(Marco 11:27-33)
Il dilemma dei “capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani” è lo stesso di quello dei “pilastri” della chiesa di Gerusalemme: se l'autorità di Paolo non proveniva da Dio, perchè loro fecero un accordo con lui (Galati 2:1-10)? E poi se l'autorità di Paolo non proveniva da Dio, perchè loro rinnegarono il loro accordo con lui (Galati 2:11-14) ?
(Tom Dykstra, Mark, Canonizer of Paul, pag. 147-149, mia libera traduzione)

La cooptazione di Giovanni il Battista come una specie di “Paolo mancato”, attuata così efficacemente dal creatore del primo vangelo, non avrebbe placato i cristiani successivi dal fare del Battezzatore un indiretto alfiere dei loro contrapposti punti teologici.

In particolare, l'autore di proto-Luca (alias Mcn), vale a dire l'eresiarca Marcione, fece di Giovanni il disilluso testimone, ancor prima di morire, della messianicità fondamentalmente non-ebraica di Gesù, di cui arrivò ad annusare – e solamente ad annusare – che si trattava in realtà del Messia di un altro dio (il “dio buono” e alieno di Marcione, superiore al dio degli ebrei).

Ovviamente, a tale scopo, Marcione aveva necessità di far sopravvivere Giovanni il Battista nel suo racconto quel tanto che basta perchè potesse giungere a conoscenza, in carcere e tramite i suoi discepoli, delle incredibili e straordinarie imprese compiute dal Gesù di carta, e averne in tutta risposta una reazione negativa, al limite della disillusione e della frustrazione.

Questo punto è illustrato ottimamente dal prof Markus Vinzent:
Dopo la guarigione del servo quasi morto del centurione, Gesù, i suoi discepoli e la folla entrano a Nain e questa volta si trovano di fronte al cadavere di un uomo morto, “l'unico figlio di sua madre”, “una vedova”. Ancora più potente di prima, Gesù resuscita il figlio e lo restituisce alla madre. Come reazione - la folla è presa dalla paura, ma anche glorifica Dio, affermando che '“Un grande profeta è venuto avanti” e che “Dio è venuto per aiutare la sua gente”, il più forte riconoscimento di Gesù come un Μέγας προϕήτης in questo vangelo da parte della folla e dei discepoli. Eppure, in Mcn, questa dichiarazione serve per contrastare Gesù, il mega-profeta, con Giovanni, il Battezzatore – e qui, troviamo la seconda correzione di Luca che distoglie lontano la linea della storia da questo confronto. Senza evidenziare tutti i dettagli della differenza tra Mcn e Luca (per esempio, il passaggio da “Gesù” a “Signore” in Luca), il primo grande cambiamento è che Luca rimosse il ponte tra la pericope precedente con la resurrezione del ragazzo di Nain e la nuova pericope dell'incontro con i discepoli di Giovanni, dove Mcn introduce Giovanni Battista come colui che “dopo aver udito le sue [di Gesù] opere, fu scandalizzato”. Dopo aver rimosso questa forte caratterizzazione di Giovanni, Luca, però, perduta l'inquadratura di tutta la storia, come la benedizione di Gesù al termine del dibattito coi discepoli di Giovanni nel suo riferimento a Giovanni e ai propri discepoli, torna all'apertura: “Beato chi non è scandalizzato da me”. Detto questo, e una volta congedati i messaggeri di Giovanni, Gesù approfondisce questo rimprovero di Giovanni perfino di più, ammonendo la folla che potrebbe aver cercato un profeta, e lui non nega che Giovanni il Battista fosse un profeta, addirittura il più grande “nato da donna”, ma aggiunge che “colui che è più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui”. Anche in questo caso, senza elaborarlo qui – è importante sapere che per tutto il secondo secolo, Marcione era noto per aver contrastato Gesù contro Giovanni il Battista e, come dichiarava il suo vangelo (Luca 16:16 par.), come è ancora noto in Giustino ed Ireneo, che la legge e i profeti terminarono con Giovanni il Battista: “la legge e i profeti esistevano fino a Giovanni; da allora, il regno di Dio è stato proclamato. Perciò è più facile che passino il cielo e la terra, piuttosto che cada un sol apice della legge del Signore”. Come intese correttamente Giustino e come riporta Ireneo, la legge che “ha avuto origine con Mosè”, fu “terminata con Giovanni per necessità” (Ireneo, Adv. Haer. IV, 4). Il nuovo editto del Signore, tuttavia, era più robusto di quanto il cielo e la terra potessero mai essere. E tuttavia, di nuovo, in questo caso, Luca capovolge Marcione, sostituendo “Signore” e facendo dire a Gesù che il cielo e la terra passeranno più facilmente che un piccolo apice di una lettera della Legge”. Si realizza quindi senza alcuna sorpresa che Luca aggiunge i versi 7:29-35 alla pericope che abbiamo discusso in precedenza, al fine di sostenere e rivendicare la sapienza, il Battista, criticando la critica di Giovanni, mettendolo alla pari con le critiche sollevate contro Gesù e incolpando i farisei: “E tutto il popolo che lo aveva udito, e i pubblicani riconobbero la giustizia di Dio, e si fecero battezzare del battesimo di Giovanni. 7:30 Ma i farisei e i dottori della legge respinsero il disegno di Dio per loro e non si fecero battezzare.  ... 7:33  È venuto infatti Giovanni Battista che non mangia pane né beve vino, e voi dite: "Egli ha un demone". 7:34 È venuto il Figlio dell'uomo che mangia e beve, e voi dite: "Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori"”.
(estratto da Markus Vinzent, Jesus versus John the Baptist, fonte, mia libera traduzione e mia enfasi)
Viceversa, il protocattolico – e finto giudeocristiano (se per giudeocristiano si intende un reale seguace dei Pilastri storici e di Pietro) – “Matteo” (rieditore di “Marco”) necessitò di ritardare appositamente la morte di Giovanni nel suo racconto appena in tempo perchè egli potesse, sia pure in prigione, goderne le news circa i suoi straordinari miracoli e confermarne così, sia pure in extremis, la totale continuità – in senso anti-marcionita – con la propria azione e la propria ebraicità.

Ma sebbene gli occhi degli stupidi hoi polloi – tra gli ebrei, i pagani e gli stessi cristiani non-iniziati – non vedevano altro che il Gesù di carta come presentato loro dai suoi primi propagandisti, dentro quasi ognuno di loro, sepolto come in un sogno dimenticato in ognuno di loro, c'era l'immagine perfetta di un altro Gesù, conosciuto appena qualche decennio prima: un Gesù arcangelo celeste, mai sceso sulla Terra nel recente passato.

Ma i primi propagandisti del Gesù di carta non lasciarono spazio a quell'altro, più antico Gesù, mentre erano alacremente intenti nella loro opera di diffusione, a macchia d'olio, del nuovo credo in un presunto “Gesù storico”.

Uccisero così l'entità invisibile nella quale gli occhi dell'apostolo Paolo, e dei Pilastri prima di lui, erano stati trascinati nel corso di sogni, visioni, allucinazioni.

E chiusero definitivamente, meglio che potevano, le loro menti e quelle degli altri cristiani, davanti all'abisso che è dimora del Gesù mitico e invisibile dei primi apostoli cristiani.