lunedì 6 febbraio 2017

Su ciò «che occhio non vide, e che orecchio non udì»: la morte di Gesù

...un qualche tipo di rivelazione improvvisa e soverchiante, tra luce e ombra, tra distinzione e indistinzione, di un'entità appena al limite della vista... ...ma non della visione

CONVENTO: Santo luogo in cui viene rinchiuso un drappello di monaci, o di monache, per allontanarli dalla società. Vengono tuttavia lasciati circolare in pubblico, quando si tratta di alzare sui popoli le imposte spirituali, che si pagano in denaro sonante. I conventi femminili sono utilissimi perché le famiglie — in particolare i primogeniti — possano liberarsi dall'intralcio delle sorelle. Tali sante case servono d'altronde all'educazione del gentil sesso: formare cittadine credulone, paurose, ignorantissime e devotissime. Insomma: sante puritane utilissime al clero.
(Il Libero Pensatore Paul Heinrich Dietrich, barone d'Holbach, La théologie portative, 1768)
Il medico vede l'uomo in tutta la sua debolezza; il giurista in tutta la sua malvagità; il teologo, in tutta la sua stupidità.
(Arthur Schopenhauer, Osservazioni psicologiche, in Parerga e Paralipomena, 344a)

Poichè ogni forma di esistenza è per definizione un atto reale e tangibile, o non è nulla del tutto, cosa potrebbe mai importare se il Gesù mitologico è stato allucinato per la prima volta da Pietro, Paolo e gli altri apostoli del Cristo, oppure era già adorato in un culto addirittura pre-cristiano ?
La differenza tra i due, se c'è una differenza, non è neppure degna di essere menzionata. E lo comprese bene il miticista Arthur Drews, quando scrisse:
Dobbiamo respingere completamente l'idea di un culto pre-cristiano di Gesù perchè non possediamo alcuna sua prova diretta? Possiamo, comunque, dedurre la sua esistenza dalle poche tracce esistenti in base alle stesse regole scientifiche su cui deduciamo ogni altro fatto da indizi e tracce nell'inchiesta storica quando non esiste una prova diretta. È vero che possiamo solo ricavare supposizioni più o meno fiduciose, specialmente quando è in questione un culto segreto, la cui dottrina era probabilmente non consegnata alla scrittura (Gunkel, pag. 63), e poichè la Chiesa Cristiana e la sinagoga ebraica avevano fatto tutto quanto in loro potere per distruggere opere eretiche ed ogni traccia dell'origine reale del cristianesimo.
Possediamo ampia esperienza della condotta della Chiesa Romana nella soppressione di scritti inconvenienti. Quant'era probabile agire quando aveva mezzi migliori di far così rispetto ad ora, quando possedeva ancora un potere illimitato sulle anime, e quando la difficoltà nella pubblicazione di opere era tale da limitare il loro numero in un modo che noi ora possiamo difficilmente apprezzare; specialmente poichè ci sarebbero, in ogni caso, poche copie di quelle esoteriche opere gnostiche? Tutto ciò che sappiamo dello gnosticismo è derivato dai resoconti interessati dei suoi oppositori ecclesiastici, appena la Chiesa scosse cielo e terra pur di distruggere le opere dei suoi sostenitori. Non possiamo più dimenticare i tesori da noi persi in questo modo di quanto possiamo dimenticare la sua brutale distruzione della nostra letteratura più antica (inni agli dèi, leggende di eroi, formule magiche, ecc.) nei primi anni della missione cristiana in Germania e durante il medioevo; in quelli anni perdemmo un tesoro inestimabile, fatto a pezzi per mano di preti fanatici, calpestato sotto i pesanti piedi di monaci, e consegnato alle fiamme.  
E perfino se respingiamo l'idea di un culto pre-cristiano di Gesù, coloro che credono nel suo personaggio storico non guadagnano nulla. Non è affatto vero, come vien detto costantemente in pamphlets, discorsi e riviste, che il Mito di Cristo sta o cade sull'esistenza di un Gesù pre-cristiano. La natura mitica del salvatore cristiano è sufficientemente provata  dal personaggio dei vangeli stessi e dalla mancanza di prove indipendenti; è del tutto indipendente dalla questione se Gesù fosse stato o meno adorato in precedenza. Il credo in un culto più antico lancerebbe semplicemente una luce di benvenuto sull'origine del cristianesimo e sui suoi legami col mondo circostante ebraico e pagano. Si potrebbe avanzare che i teologi hanno trovato così tanto nei loro documenti, quando confà al loro scopo, che saranno certamente capaci di scoprire un Gesù pre-cristiano se la loro teoria lo richieda, e se non siano più a lungo ostacolati dalla loro dipendenza alla Chiesa da uno studio imparziale del soggetto.

(liberamente estratto e tradotto da The Witnesses to the Historicity of Jesus di Arthur Drews)
Tali distinzioni sono solo opera di chi vede le cose attraverso le sensazioni più rozze e limitate, prima tra di esse la fede cieca, irrazionale e ostinata riposta dai folli apologeti cristiani nell'esistenza storica di Gesù, perfino quando nessuno lo ha mai visto veramente ma solo immaginato (a cominciare dai Pilastri di Gerusalemme, dei quali l'apostolo Paolo pretendeva di aver avuto il medesimo tipo di esperienze visionarie dell'arcangelo Gesù).
Persino chi riconosce un ruolo determinante all'estasi più esoterica nelle reali origini del cristianesimo, alla fin fine, è incline a chiedere il sostegno di una prova inconfutabile per poter elevare alla dignità di realtà l'affermazione che Gesù non è mai esistito come figura storica.
Una volta riconosciuta quella prova, sebbene provvisoria, e la realtà, se anche sospetta a mutazione, dell'esistenza di un Gesù pre-cristiano anteriore alla stessa origine del mito di Cristo ... probabile, plausibile o meramente sospettata che sia ... si deve concludere che fatti del genere non cambiano in alcun modo la nostra certezza di fondo — derivata dalle sole epistole di Paolo — che un Gesù storico non poteva mai esservi stato sulla Terra.

Perchè ad esempio Tacito ci dà un interessante spaccato di come si creava dal nulla una nuova religione in età ellenistica, ed è istruttivo constatare come all'origine non vi sia mai il concreto e il tangibile, non vi sia mai un reale fondatore storico più tardi divinizzato, ma sempre un qualche tipo di rivelazione improvvisa e soverchiante, tra luce e ombra, tra distinzione e indistinzione, di un'entità appena al limite della vista... ...ma non della visione.
L'origine del dio Serapide non è ancora stata illustrata dagli scrittori latini. I sacerdoti egiziani la ricostruiscono nel modo che mi accingo a riferire. Apparve in sogno al re Tolomeo (il primo dei Macedoni a rinsaldare la potenza egiziana) che stava arricchendo Alessandria da poco fondata di mura, templi e culti, un giovane bellissimo e di statura superiore a quella umana. Il giovane gli disse che doveva mandare degli amici molto fidati nel Ponto e far venire la sua immagine: avrebbe significato prosperità per il regno e  grande fama per la città che l'avesse accolta. Poi gli parve che il giovane venisse rapito in cielo da una grande colonna di fuoco.
Tolomeo rimase scosso da quel miracoloso presagio e rivelò le sue visioni notturne ai sacerdoti egizi che abitualmente interpretano tali prodigi. Ma costoro avevano scarsa conoscenza del Ponto e dei culti stranieri e allora Tolomeo chiese all'ateniese Timoteo della stirpe degli Eumolpidi (che aveva fatto venire da Eleusi come sovrintendente alle cerimonie) che superstizione fosse quella e di che dio si trattasse. Timoteo ricercò delle persone che avessero frequenti contatti col Ponto e venne a sapere che lì esisteva una città di nome Sinope non lontano dalla quale sorge un tempio dedicato a Giove Dite, di fama antica presso gli abitanti del luogo. Lì si trovava anche una immagine muliebre che molti chiamano Proserpina.
Tolomeo era facile a spaventarsi, come è spesso nel carattere dei re. Ma quando si fu rassicurato, essendo più incline ai piaceri che alla religione, trascurò l'incarico avuto dalla sua visione e si preoccupò d'altro. Ma quella stessa visione, questa volta terribile e minacciosa, annunciò rovina a lui e al suo regno se non avesse fatto come gli aveva ordinato.
Tolomeo manda allora ambasciatori e doni a Scidrotemi (che in quel tempo era re di Sinope); al momento dell'imbarco raccomanda agli inviati di andare a consultare Apollo Pitico. Il viaggio fu loro favorevole e chiaro fu il responso dell'oracolo; andassero a prendere il simulacro del padre e lasciassero quello della sorella.
Appena giunti a Sinope, i messaggeri presentarono a Scidrotemi i doni, le preghiere e gli incarichi ricevuti dal loro re. Scidrotemi era combattuto fra diverse paure: da una parte temeva il nume, dall'altra le minacce e l'opposizione del popolo. In ogni caso era molto tentato dai doni e dalle promesse dei legati. Trascorsero così tre anni: Tolomeo non smise di esercitare pressioni e di rivolgere preghiere: aumentava la dignità dei legati, il numero delle navi, la somma d'oro.
Allora anche Scidrotemi ebbe una minacciosa visione che lo ammonì a non frapporre ulteriori indugi alla volontà del dio. Nonostante ciò continuava a temporeggiare; disgrazie di vario genere, malattie e l'ira celeste, di giorno in giorno manifestamente più grave, presero a tormentarlo. Convocata un'assemblea della sua gente, spiega gli ordini del nume, le visioni sue e quelle di Tolomeo, i disastri che li stavano aggredendo; il popolo era contro il re, odiava l'Egitto, temeva per sé, si tratteneva a guardia del tempio.
Qui crebbe la diceria secondo la quale il dio stesso, di sua volontà, sarebbe andato ad imbarcarsi sulle navi all'ancora davanti al litorale. E si racconta anche (autentico prodigio!) che quella lunga rotta da Sinope ad Alessandria fosse percorsa in soli tre giorni. In un luogo chiamato Racoti fu innalzato un tempio consono alla grandezza della città: lì era stato costruito un tempietto dai tempi più antichi dedicato a Serapide e Iside.
Questa è la versione più accreditata sull'origine e sul trasporto del dio. So che, secondo qualcuno, il dio sarebbe stato fatto venire dalla città siriaca di Seleucia sotto il regno di Tolomeo (il terzo della sua dinastia). Per qualcuno il trasporto fu opera dello stesso Tolomeo, ma la città di origine sarebbe Menfi, un tempo famosa e autentico baluardo dell'antico Egitto.
Molti, poi, formulano altre congetture sulla base degli attributi e degli altri segni visibili sulla statua o anche per complesse congetture: Serapide sarebbe lo stesso Esculapio poiché guarisce i corpi malati; oppure sarebbe Osiride, nume antichissimo di quelle genti; oppure Giove, signore di tutte le cose; oppure, secondo molti, il padre Dite.

(Tacito, Storie, IV, 83-84)

I miticisti dicono che la stessa cosa accadde agli ebrei Pietro, Giacomo, Giovanni e poco dopo anche a Paolo: fu una visione a indurli a credere che un angelo era resuscitato dai morti. E altre visioni, altrettanto terribili e minacciose, del medesimo angelo li indussero a conferirgli nomi titolari (“Gesù Cristo”) e a poco a poco, a costruirgli attorno un'intera teologia, sulla base di rivelazioni e indizi attinti dalle scritture precedenti.  

La galleria delle sensazioni umane che esistevano al tempo considerato (I secolo Era Comune) è identica a quella che si presenta oggi ad ogni singola vita e che continuerà a presentarsi ad ogni nuova vita che entra in questo mondo.
L'esperienza della morte del presunto “Figlio di Dio” su una croce romana, anche se fatta solo in un'unica occasione e da altri, potrebbe a buon titolo essere materiale per un ricordo ossessivo destinato a durare tutta la vita, qualcosa che forse si potrebbe arrivare a considerare caro e prezioso a causa dell'insondabile profondità delle sensazioni che offre, quantomeno tra gli stessi primi apostoli del Cristo, quantomeno per l'uomo chiamato Paolo.
Ergo è semplicemente impossibile, oggi come ieri e domani come oggi, che Paolo scrisse circa 3000 parole nella sua lettera ai Galati (piuttosto breve) e circa 10000 parole nella sua lettera ai Romani (la più lunga), senza mai fare il minimo cenno alla vita di Gesù, alla sua predicazione, ai suoi presunti miracoli, alla sua condanna a morte, alla Galilea, a Nazaret, a Pilato, a Maria sua presunta madre, al suo luogo d'origine, alle persone da lui incontrate, e soprattutto alla sua crocifissione  romana, mentre Plinio il Giovane, nelle sue due lettere a Tacito di circa 1500 parole ciascuna, dettagliò per filo e per segno come suo padre adottivo sopportò i suoi ultimi giorni d'agonia prima della morte:
 

COSA DISSE PLINIO IL GIOVANE DELLA MORTE DEL PADRE ADOTTIVO NELLA PRIMA LETTERA A TACITO
COSA DISSE PLINIO IL GIOVANE DELLA MORTE DEL PADRE ADOTTIVO NELLA SECONDA LETTERA A TACITO
COSA DISSE PAOLO DELLA MORTE DI GESÙ NELLA PRIMA LETTERA AI CORINZI

Mi chiedi che io ti esponga la morte di mio zio, per poterla tramandare con una maggiore obiettività ai posteri. Te ne ringrazio, in quanto sono sicuro che, se sarà celebrata da te, la sua morte sarà destinata a gloria immortale. Quantunque infatti, egli sia deceduto nel disastro delle più incantevoli plaghe, come se fosse destinato a vivere sempre - insieme a quelle genti ed a quelle città- proprio in virtù di quell'indimenticabile sciagura, quantunque abbia egli stesso composto una lunga serie di opere che rimarranno, tuttavia alla perennità della sua fama recherà un valido contributo l'immortalità dei tuoi scritti. Personalmente io stimo fortunati coloro ai quali per dono degli dei fu concesso o di compiere imprese degne di essere scritte o di scrivere cose degne di essere lette, fortunatissimi poi coloro ai quali furono concesse entrambe le cose. Nel novero di questi ultimi sarà mio zio, in grazia dei suoi libri e in grazia dei tuoi. Tanto più volentieri perciò accolgo l'incombenza che tu mi proponi, anzi te lo chiedo insistentemente.

Era a Miseno e teneva personalmente il comando della flotta. Il 24 agosto, verso l'una del pomeriggio, mia madre lo informa che spuntava una nube fuori dell'ordinario sia per la grandezza sia per l'aspetto. Egli dopo aver preso un bagno di sole e poi un altro nell'acqua fredda, aveva fatto uno spuntino stando nella sua brandina da lavoro ed attendeva allo studio; si fa portare i sandali e sale in una località che offriva le migliori condizioni per contemplare il prodigio. Si elevava una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna [si seppe poi che era il Vesuvio]: nessun'altra pianta meglio del pino ne potrebbe riprodurre la forma. Infatti slanciatosi in su in modo da suggerire l'idea di un altissimo tronco, si allargava poi in quelli che si potrebbero chiamare dei rami, credo che il motivo risiedesse nel fatto che, innalzata dal turbine subito dopo l'esplosione e poi privata del suo appoggio quando quello andò esaurendosi, o anche vinta dal suo stesso peso, si dissolveva allargandosi; talora era bianchissima, talora sporca e macchiata, a seconda che aveva trascinato con sè terra o cenere.

Nella sua profonda passione per la scienza, stimò che si trattasse di un fenomeno molto importante e meritevole di essere studiato più da vicino. Ordina che gli si prepari una liburnica e mi offre la possibilità di andare con lui se lo desiderassi. Gli risposi che preferivo attendere ai miei studi e, per caso, proprio lui mi aveva assegnato un lavoro da svolgere per iscritto. Mentre usciva di casa, gli venne consegnata una lettera da parte di Rettina, moglie di Casco, la quale, terrorizzata dal pericolo incombente (infatti la sua villa era posta lungo la spiaggia della zona minacciata e l'unica via di scampo era rappresentata dalle navi), lo pregava che la strappasse da quel frangente così spaventoso. Egli allora cambia progetto e ciò, che aveva incominciato per interesse scientifico, affronta per l'impulso della sua eroica coscienza. Fa uscire in mare delle quadriremi e vi sale egli stesso, per venire in soccorso non solo a Rettina ma a molta gente, poichè quel litorale in grazia della sua bellezza, era fittamente abitato.

Si affretta colà donde gli altri fuggono e punta la rotta e il timone proprio nel cuore del pericolo, cosi immune dalla paura da dettare e da annotare tutte le evoluzioni e tutte le configurazioni di quel cataclisma, come riusciva a coglierle successivamente con lo sguardo. Oramai, quanto più si avvicinavano, la cenere cadeva sulle navi sempre più calda e più densa, vi cadevano ormai anche pomici e pietre nere, corrose e spezzate dal fuoco, ormai si era creato un bassofondo improvviso e una frana della montagna impediva di accostarsi al litorale.

Dopo una breve esitazione, se dovesse ripiegare all'indietro, al pilota che gli suggeriva quell'alternativa, tosto replicò: - "La fortuna aiuta i prodi; dirigiti sulla dimora di Pomponiano".

Questi si trovava a Stabia; dalla parte opposta del golfo (giacchè il mare si inoltra nella dolce insenatura formata dalle coste arcuate a semicerchio); colà, quantunque il pericolo non fosse ancora vicino, siccome però lo si poteva scorgere bene e ci si rendeva conto che, nel suo espandersi era ormai imminente, Pomponiano aveva trasportato sulle navi le sue masserizie, determinato a fuggire non appena si fosse calmato il vento contrario. Per mio zio invece questo era allora pienamente favorevole, cosi che vi giunge, lo abbraccia tutto spaventato com'era, lo conforta, gli fa animo, per smorzare la sua paura con la propria serenità, si fa calare nel bagno: terminata la pulizia prende posto a tavola e consuma la sua cena con un fare gioviale o, cosa che presuppone una grandezza non inferiore, recitando la parte dell'uomo gioviale.

Nel frattempo dal Vesuvio risplendevano in parecchi luoghi delle larghissime strisce di fuoco e degli incendi che emettevano alte vampate, i cui bagliori e la cui luce erano messi in risalto dal buio della notte. Egli, per sedare lo sgomento, insisteva nel dire che si trattava di fuochi lasciati accesi dai contadini nell'affanno di mettersi in salvo e di ville abbandonate che bruciavano nella campagna. Poi si abbandonò al riposo e riposò di un sonno certamente genuino. Infatti il suo respiro, a causa della sua corpulenza, era piuttosto profondo e rumoroso, veniva percepito da coloro che andavano avanti e indietro sulla soglia. Senonchè il cortile da cui si accedeva alla sua stanza, riempiendosi di ceneri miste a pomice, aveva ormai innalzato tanto il livello che, se mio zio avesse ulteriormente indugiato nella sua camera, non avrebbe più avuto la possibilità di uscirne. Svegliato, viene fuori e si ricongiunge al gruppo di Pomponiano e di tutti gli altri, i quali erano rimasti desti fino a quel momento. Insieme esaminano se sia preferibile starsene al coperto o andare alla ventura allo scoperto. Infatti, sotto l'azione di frequenti ed enormi scosse, i caseggiati traballavano e, come se fossero stati sbarbicati dalle loro fondamenta, lasciavano l'impressione di sbandare ora da una parte ora dall'altra e poi di ritornare in sesto. D'altronde all'aperto cielo c'era da temere la caduta di pomici, anche se erano leggere e corrose; tuttavia il confronto tra questi due pericoli indusse a scegliere quest'ultimo. In mio zio una ragione predominò sull'altra, nei suoi compagni una paura s'impose sull'altra. Si pongono sul capo dei cuscini e li fissano con dei capi di biancheria; questa era la loro difesa contro tutto ciò che cadeva dall'alto.

Altrove era già giorno, là invece era una notte più nera e più fitta di qualsiasi notte, quantunque fosse mitigata da numerose fiaccole e da luci di varia provenienza. Si trovò conveniente di recarsi sulla spiaggia ed osservare da vicino se fosse già possibile tentare il viaggio per mare; ma esso perdurava ancora sconvolto ed intransitabile. Colà, sdraiato su di un panno steso a terra, chiese a due riprese dell'acqua fresca e ne bevve. Poi delle fiamme ed un odore di zolfo che preannunciava le fiamme spingono gli altri in fuga e lo ridestano. Sorreggendosi su due semplici schiavi riuscì a rimettersi in piedi, ma subito stramazzò, da quanto io posso arguire, l'atmosfera troppo pregna di cenere gli soffocò la respirazione e gli otturò la gola, che era per costituzione malaticcia, gonfia e spesso infiammata.

Quando riapparve la luce del sole (era il terzo giorno da quello che aveva visto per ultimo) il suo cadavere fu ritrovato intatto, illeso e rivestito degli stessi abiti che aveva indossati: la maniera con cui si presentava il corpo faceva più pensare ad uno che dormisse che non ad un morto. Frattanto a Miseno io e mia madre... ma questo non interessa la storia e tu non hai espresso il desiderio di essere informato di altro che della sua morte. Dunque terminerò.

Aggiungerò solo una parola: che ti ho esposto tutte circostanze alle quali sono stato presente e che mi sono state riferite immediatamente dopo, quando i ricordi conservano ancora la massima precisione. Tu ne stralcerai gli elementi essenziali: sono infatti cose ben diverse scrivere una lettera od una composizione storica, rivolgersi ad un amico o a tutti.
Mi dici che la lettera che io ti ho scritta, dietro tua richiesta, sulla morte di mio zio, ti ha fatto nascere il desiderio di conoscere, dal momento in cui fui lasciato a Miseno (ed era precisamente questo che stavo per raccontarti, quando ho troncato la mia relazione), non solo quali timori ma anche quali frangenti io abbia dovuto affrontare. "Anche se il semplice ricordo mi causa in cuore un brivido di sgomento... incomincerò".

Dopo la partenza di mio zio, spesi tutto il tempo che mi rimaneva nello studio, dato che era stato proprio questo il motivo per cui mi ero fermato; poi il bagno, la cena ed un sonno agitato e breve. Si erano già avuti per molti giorni dei leggeri terremoti, ma non avevano prodotto molto spavento, essendo un fenomeno ordinario in Campania, quella notte invece le scosse assunsero una tale veemenza che tutto sembrava non muoversi, ma capovolgersi.

Mia madre si precipita nella mia stanza: io stavo alzandomi con il proposito di svegliarla alla mia volta nell'eventualità che dormisse. Ci mettemmo a sedere nel cortile della nostra abitazione: esso con la sua modesta estensione separava il caseggiato dal mare. A questo punto non saprei dire se si trattasse di forza d'animo o di incoscienza (non avevo ancora compiuto diciotto anni!): domando un libro di Tito Livio e, come se non mi premesse altro che di occupare il tempo, mi dò a leggerlo ed a continuare gli estratti che avevo incominciati.

Ed ecco sopraggiungere un amico di mio zio, che era da poco arrivato dalla Spagna per incontrarsi con lui; quando vede che io e mia madre ce ne stiamo seduti e che io attendo niente meno che a leggere, fa un'energica paternale a mia madre per la mia inettitudine e a me per la mia noncuranza. Con tutto ciò io continuo a concentrarmi nel mio libro come prima.
Il sole era già sorto da un'ora e la luce era ancora incerta e come smorta. Siccome le costruzioni che ci stavano all'intorno erano ormai malconce, anche se eravamo in un luogo scoperto -che era però angusto- c'era da temere che, qualora crollassero, ci portassero delle conseguenze gravi e ineluttabili. Soltanto allora ci parve opportuno di uscire dalla cittadina; ci viene dietro una folla sbalordita, la quale -seguendo quella contraffazione dell'avvedutezza che è tipica dello spavento- preferisce l'opinione altrui alla propria e con la sua enorme ressa ci incalza e ci spinge mentre ci allontaniamo.

Una volta fuori dell'abitato ci fermiamo. Là diventiamo spettatori di molti fatti sbalorditivi, ci colpiscono molti particolari che incutono terrore. Così i carri che avevamo fatto venire innanzi, sebbene la superficie fosse assolutamente livellata, sbandavano nelle più diverse direzioni e non rimanevano fermi al loro posto neppure se venivano bloccati con pietre. Inoltre vedevamo il mare che si riassorbiva in se stesso e che sembrava quasi fatto arretrare dalle vibrazioni telluriche. Senza dubbio il litorale si era avanzato e teneva prigionieri nelle sue sabbie asciutte una quantità di animali marini. Dall'altra parte una nube nera e terrificante, lacerata da lampeggianti soffi di fuoco che si esplicavano in linee sinuose e spezzate, si squarciava emettendo delle fiamme dalla forma allungata: avevano l'aspetto dei fulmini ma ne erano più grandi.

A questo punto si rifà avanti l'amico spagnolo e ci incalza con un tono più inquieto e più stringente:
- "Se tuo fratello, se tuo zio vive, vi vuole incolumi, se è morto, ha voluto che voi gli sopravviveste. Perciò perchè indugiate a mettervi in salvo?".

Gli rispondiamo che noi non avremmo mai accettato di provvedere alla nostra salvezza finchè non avevamo nessuna notizia della sua. Egli non perde tempo, ma si getta in avanti correndo a più non posso si porta fuori dal pericolo. Poco dopo quella nube calò sulla terra e ricoperse il mare: aveva già avvolto e nascosto Capri ed aveva già portato via ai nostri sguardi il promontorio di Miseno. Allora mia madre a scongiurarmi, ad invitarmi, ad ordinarmi di fuggire in qualsiasi maniera; diceva che io, ancora giovane, ci potevo riuscire, che essa invece, pesante per l'età e per la corporatura avrebbe fatto una bella morte se non fosse stata causa della mia. Io però risposi che non mi sarei salvato senza di lei; poi presala per mano, la costringo ad accelerare il passo. Mi ubbidisce a malavoglia e si accusa di rallentare la mia marcia. Incomincia a cadere cenere, ma è ancora rara. Mi volgo indietro: una fitta oscurità ci incombeva alle spalle e, riversandosi sulla terra, ci veniva dietro come un torrente.

- "Deviamo, le dico, finchè ci vediamo ancora, per evitare di essere fatti cadere sulla strada dalla calca che ci accompagna e calpestati nel buio".

Avevamo fatto appena a tempo a sederci quando si fece notte, non però come quando non c'è luna o il cielo è ricoperto da nubi, ma come a luce spenta in ambienti chiusi. Avresti potuto sentire i cupi pianti disperati delle donne, le invocazioni dei bambini, le urla degli uomini: alcuni con le grida cercavano di richiamare ed alle grida cercavano di rintracciare i genitori altri i figli, altri i coniugi rispettivi; gli uni lamentavano le loro sventure, gli altri quelle dei loro cari taluni per paura della morte, si auguravano la morte, molti innalzavano le mani agli dei, nella maggioranza si formava però la convinzione che ormai gli dei non esistessero più e che quella notte sarebbe stata eterna e l'ultima del mondo. Ci furono di quelli che resero più gravosi i pericoli effettivi con notizie spaventose che erano inventate e false. Arrivavano di quelli i quali riferivano che a Miseno la tale costruzione era crollata, che la tal altra era divorata dall'incendio: non era vero ma la gente ci credeva.

Ci fu una tenue schiarita, ma ci sembrava che non fosse la luce del giorno ma un preannuncio dell'avvicinarsi del fuoco. Il fuoco c'era davvero, ma si fermò piuttosto lontano; poi di nuovo il buio e di nuovo cenere densa e pesante. Tratto tratto ci alzavamo in piedi e ce la scuotevamo di dosso; altrimenti ne saremmo stati coperti e saremmo anche rimasti schiacciati sotto il suo peso. Potrei vantarmi che, circondato da così gravi pericoli, non mi sono lasciato sfuggire nè un gemito nè una parola meno che coraggiosa, se non fossi stato convinto che io soccombevo con l'universo e l'universo con me: conforto disperato, è vero, ma pure grande nella mia qualità di essere soggetto alla morte.I1 Finalmente quella oscurità si attenuò e parve dissiparsi in fumo o in vapori, ben presto sottentrò il giorno genuino e risplendette anche il sole, ma livido, come suole apparire durante le eclissi. Agli occhi ancora smarriti tutte le cose si presentavano con forme nuove, coperte di una spessa coltre di cenere come se fosse stata neve. Ritornati a Miseno, e preso quel po' di ristoro che ci fu possibile, passammo tra alternative di speranza e di timore una notte ansiosa ed incerta. Era però il timore a prevalere; infatti le scosse telluriche continuavano ed un buon numero di individui, alienati, dileggiavano con spaventevoli profezie le disgrazie loro ed altrui. Noi però, quantunque avessimo provato personalmente il pericolo e ce ne aspettassimo ancora, non venimmo nemmeno allora alla determinazione di andarcene prima di ricevere notizie dello zio.

Ti mando questa relazione perchè tu la legga, non perchè la scriva, dato che non s'addice affatto al genere storico; attribuisci poi la colpa a te -evidentemente in quanto me l'hai richiesta- se non ti parrà addirsi neppure a quello epistolare.
…ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che è scandalo per i giudei e follia per i pagani.
(1 Corinzi 1:23)


E io fratelli, quando venni da voi, non venni ad annunciarvi la testimonianza di Dio con eccellenza di parola o di sapienza. Poiché mi proposi di non sapere altro fra voi, fuorchè Gesù Cristo e Cristo crocifisso.
(1 Corinzi 2:1-2)

Tuttavia a quelli tra di voi che sono perfetti esponiamo una sapienza , però non una sapienza di questo eone né degli arconti di questo eone…
…perché, se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria.
(1 Corinzi 2:6)

Ma patire e patire ancora l'incubo di questa stessa sofferenza di Cristo “nella mia carne”, cosa che, come afferma l'apostolo Paolo, sarebbe stato il suo destino, porta a non cercare altro che un modo di uccidere quell'incubo, d'esporne tutti i segreti e ridurlo in frammenti che possano essere raccontati ad altri, e cogli altri condivisi, specie se giovani adepti della setta desiderosi di sapere il più possibile da Paolo sulla morte in croce del loro Messia.
Eppure, nel suo intento di ricevere visioni e rivelazioni dell'arcangelo Gesù come e più di ogni altro legittimo apostolo del Cristo, l'uomo chiamato Paolo non aveva fatto altro che moltiplicare quella visione all'infinito, che gli consentissero così di vedere il Gesù risorto con infiniti occhi.
Ebbene, in nessuna di quelle visioni Paolo racconta di aver visto la morte dell'angelo Gesù per mano dei perfidi “arconti di questo eone”. Paolo credeva a quella morte sulla croce solo perchè l'angelo Gesù in persona, dopo la sua resurrezione, glielo aveva comunicato telepaticamente, o almeno così Paolo credeva. La crocifissione di Gesù era un segreto insondabile perfino per quei pochi privilegiati apostoli ai quali apparve, nel bagliore di un'improvvisa rivelazione, il risorto arcangelo Gesù.
Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Sta scritto infatti:
Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì,
né mai entrarono in cuore di uomo,
queste ha preparato Dio per coloro che lo amano.
(1 Corinzi 2:8-9)
Nonostante tante innumerevoli visioni di un angelo risorto, nonostante Paolo e gli altri apostoli del Cristo si sentissero testimoni dei fenomeni più criptici che esistono o che potrebbero mai esistere, tuttavia, celato in qualche modo nelle ombre di ciò che riuscirono a “vedere”, in sogno oppure per rivelazione, c'è qualcosa che non fu concesso neppure a loro, neppure a Paolo, di “vedere”, qualcosa che non potè estinguersi nella rivelazione: la stessa crocifissione dell'arcangelo Gesù. Infatti, solo i demoniaci “arconti di questo eone”, secondo l'antico mito cristiano i suoi crocifissori, furono testimoni della crocifissione di Gesù nel loro stesso territorio sublunare, e perfino loro non seppero riconoscere l'identità del crocefisso.

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