giovedì 13 aprile 2017

Circa «Le mystère de Jésus» di Paul-Louis Couchoud (I)

 Il Dio di Coincidenza

Può qualcuno negare che

Una cosa dopo l'altra

In sequenza e logica

Mai vista prima

Non può essere che la

Interferenza di un Dio

Determinata a provare che

Ognuno che pretende

Di conoscere ora

Una cospirazione è

Demente?


(Kent Murphy)
 Circa il Cristo, prescinderemo dal problema puramente storico. Considereremo il Cristo soltanto come un tipo, come il modello ideale che il cristianesimo ha saputo proporre per l'umanità. E porremo questo problema: È, un tale tipo, divino? È tale che non si possa pensarne uno più alto? Da questo punto di vista, l'esser il Cristo effettivamente esistito o meno, è cosa di assai secondaria importanza.
Si deve rilevar però la preesistenza del mito del Cristo al cristianesimo: nella sua forma gnostica, onde il Cristo si identifica all'«Uomo interiore e celeste», esso fu già una dottrina dei Misteri mediterranei, orfici e caldaici. In proposito vanno ricordate recenti teorie, come quelle del Couchoud, audaci ma pur fondate almeno quanto le ortodosse, che ricostruiscono il progressivo enuclearsi e trasformarsi di questo mito a partire dagli ideali messianici e indicano le precise circostanze storiche, psicologiche e polemiche che hanno portato a corporizzarlo, fino a concepirlo in un personaggio pensato come reale e come apparso ad un certo momento. Ad ogni modo, mantenendo il criterio di ricercare ciò che nel cristianesimo vi è di specifico, dobbiamo assumere il tipo Cristo in funzione soltanto del Cristo storico evangelico, inquantoché circa le ulteriori speculazioni cristologiche, specie patristiche, ove è indubbio l'influsso della civilizzazione ellenistica e dello gnosticismo, ripetiamo che i cristiani non hanno nulla di originale: essi hanno semplicemente carpito qualche briciola dell'insegnamento sapienziale, balbettandola in pessima lingua e cercando di rivestirvi, per i bisogni della loro causa, fatti storici d'importanza e d'autenticità d'altronde assai relativa.
Riportandoci allora nell'ordine della coerenza interna della concezione evangelica, già le basi sono infide. I pagani cominciavano col contestare lo stesso presupposto per l'intervento del Cristo quale salvatore, cioè la possibilità del peccato originale.

(Julius Evola, Imperialismo Pagano)

La letteratura miticista, come le cosiddette letterature di “nicchia”, ha un vantaggio, quella di poter contare su un numero di appassionati che è proprio alla ricerca di originalità e che espressamente annovera nelle sue fila critici ben più acuti di quelli che lavorano nell'accademia come malcelati agenti delle lobby cristiane.
È grazie all'esistenza di tali lettori appassionati che alcuni autori miticisti veramente singolari possono trovare modo di far sentire la propria voce, perfino a notevole distanza di anni dopo la loro dipartita dal mondo.
È il caso ad esempio di Paul-Louis Couchoud (1879-1959), del quale ritrovo solo ora una vecchia traduzione italiana di una sua opera minore ma non meno significativa: Le mystère de Jésus (1926). 

È quella traduzione che mi onorerò di presentare integralmente nel mio blog, capitolo per capitolo. Prima però, un sommario giudizio critico di Couchoud è d'obbligo.

Egli è certamente il principale precursore di Earl Doherty, per stessa ammissione di quest'ultimo, il che lo rende virtualmente il più grande miticista vissuto prima di Richard Carrier. Egli è stato così in anticipo sui tempi da precedere perfino la ricerca accademica più recente (si pensi a Matthias Klinghardt), coll'audace avvistamento che proto-Luca, il vangelo marcionita, fu il Più Antico Vangelo a memoria d'uomo (più antico perfino del vangelo di Marco).
Egli ha avvistato con notevole perspicacia dettagli importanti nell'evemerizzazione di Gesù, come ad esempio il notevole ruolo giocato in quel processo dal lento declino dell'apocalitticismo di pari passo con la progressiva, cattolicizzante Reductio ad Unum.

Più criticabile invece il suo prendersi troppo disturbo con la tendenziosa propaganda proto-cattolica di Atti (addirittura risibile la sua accettazione della storicità di Stefano primo martire), quando invece bisognerebbe declassare senza indugio tale propaganda alla peggior bastarda retorica settaria da quattro soldi.
Inoltre non sento di condividere per nulla con Couchoud il suo rispetto per la tradizione religiosa cristiana e la sua presunta utilità come collante sociale nella civiltà occidentale. Al contrario, io penso e credo che, essendo cessata da tempo quella funzione del cristianesimo, esso sia un male di cui occorre sbarazzarsi il più presto possibile, non esitando a sbeffeggiare, denigrare e deridere le credenze cristiane alla maniera del compianto Charlie Hebdo. L'unico cristiano buono ai miei occhi è il cristiano che sopporta senza replicare di essere sbeffeggiato e deriso per la sua ridicola fede, non decisamente il ritratto dei folli apologeti cristiani e/o filocristiani che infestano gli studi biblici neotestamentari (e sottolineo: solo quelli).

Apprezzo tuttavia e molto che Couchoud abbia scelto come suo interlocutore polemico privilegiato Alfred Loisy, noto campione di una versione davvero minimalista della storicità di Gesù (salva dei vangeli solo la crocifissione, considerando mera invenzione letteraria tutto il resto), mentre trascura giustamente ogni “dialogo”, semmai si possa chiamare tale, con storicisti troppo fantasiosi alla Renan (nel caso maggiore, folli apologeti cristiani, se non autentici pagliacci vogliosi di pubblicità).
Lo scambio di parole con Loisy è davvero istruttivo e merita di essere citato in particolare. Alla sfida lanciata dallo storicista e presentata da Couchoud nei seguenti termini:
Poco importa ch'egli [cioè: Gesù] sia fuori dalla vista. Egli non poté fare che poca impressione. Nietzsche disse di lui: “Un fondatore di religione può essere insignificante. Un fiammifero, nulla di più!” Loisy riprende per suo conto la parola e dice parlando degli esecrabili “mitologi”: “Abbiamo di meglio da fare che confutarli. Se essi diventassero troppo insistenti, chiederemo loro semplicemente: Dov'è il fiammifero?” È l'ultima questione. Bisogna vedere se il Gesù storico disegnato in linee punteggiate spiega bene i testi più antichi e se rende più facile o più difficile comprendere il grande incendio cristiano.
...la risposta di Couchoud, dopo qualche paragrafo, non si farà attendere, con una prosa dalla chiarezza semplicemente geniale:
A Paolo si deve chiedere la più sicura informazione sull'inizio della fede. Il cristianesimo [...] sorse e cominciò veramente il giorno in cui quel personaggio splendente, nato in piena Scrittura, apparve a taluno. Quest'uomo, il priimo che vide Gesù, Paolo l'ha nominato (I Corinzi XV, 11).
È Cefa Pietro, san Pietro. Dalla visione di Pietro è nato il cristianesimo. Poiché occorre un fiammifero, eccolo.
La visione di Pietro si riprodusse per dodici persone, poi per cinquecento, poi per un uomo cospicuo di Gerusalemme, Giacomo, poi per tutti quelli che furono chiamati inviati dal Messia, infine per Paolo il nano.
La fede cristiana ebbe uno sviluppo regolare. La sua storia non è più confusa e si illumina non appena si è ben percepito questo fatto primordiale:
Gesù non è un uomo progressivamente divinizzato, ma un Dio progressivamente umanizzato.
È facile distinguere un Dio umanizzato da un morto divinizzato. Il culto di Gesù non ha nulla di funebre.
La sua storia umana non è primitiva. Pietro e Paolo hanno visto un Dio. Soltanto dopo Paolo fu data a questo Dio una maschera umana, un'apparenza di stato civile, e lo si inserì indebitamente nella storia. Gesù non dovette diventare Dio. Non ebbe a far altro che restare Dio sotto la tonaca incolore che lo traveste.
Egli non è un fondatore di religione ma un Dio nuovo. Non è l'iniziatore della fede, fuorché nel profondo dei cuori. Non è il promotore di un culto, ma l'oggetto di questo culto. Non è il predicatore ma il Dio predicato. Non è Maometto, è Allah.
In quelle poche righe, salvo forse una leggera correzione del tiro (“Non è Maometto, è l'arcangelo Gabriele”, direbbe piuttosto Richard Carrier) si vede benissimo quanto sia immensamente più complessa e anti-economica ogni ipotesi storicista, perfino la più minimale, rispetto anche alla più complicata ricostruzione miticista delle Origini cristiane: la visione di un fantasma (nel caso specifico, di un arcangelo celeste) che è sempre stato tale, prima e dopo la sua “morte”, è un'ipotesi sicuramente più semplice della morte di un uomo realmente esistito seguita dalla visione del suo fantasma nella forma di un arcangelo celeste, specie quando quell'uomo lo si ricorda come “realmente esistito” unicamente per ciò che il suo fantasma avrebbe fatto dopo la sua morte (laddove ogni altro personaggio storico è ricordato normalmente per ciò che aveva fatto in vita e non per ciò che avrebbe fatto il suo fantasma dopo la sua morte). Si replicherà che dai vangeli è possibile estrapolare, rimuovendo zavorra teologica sufficiente, un pacchetto completo di presunti “autentici insegnamenti del Gesù storico” ma il problema di fondo rimane: quel pacchetto non spiegherà mai perchè di un presunto cadavere fu visto un fantasma originatore di un intero culto nel giro di pochi giorni mentre per migliaia di altri cadaveri (con relativi ricordi, pretese e suggestioni), se mai ne fossero stati avvistati i rispettivi fantasmi, non vi fu mai visione post-mortem così potente da provocare in tempi brevi l'origine di un culto simile, per portata, a quello del “Cristo risorto”. E allora realizzi che l'ulteriore difesa dello storicista: “è inutile investigare sulla relazione tra un cadavere e la visione del suo fantasma” si può benissimo ritorcere in accusa contro di lui: “è inutile investigare a proposito di un cadavere all'origine della visione di un fantasma”, anzi, è inutile perfino ipotizzarlo: specialmente nella più totale e sorprendente assenza di prove della storicità di quel cadavere (a meno di non dover considerare tali ogni singola testimonianza del suo fantasma). Morale della storia: i fantasmi possono essere visti anche facendo a meno di reali cadaveri. Il “Cristo risorto” poteva essere visto anche facendo a meno di un Gesù storico. E fino a prova contraria, quantomeno per rispetto ad Occam, noi ne facciamo volentieri a meno.


PARTE PRIMA:
L'ENIGMA

-I. UN EREMITAGGIO NEL GIAPPONE

Nel 1912, trovandomi nel Giappone dovetti rispondere ad una difficile domanda.
Visitavo, in primavera, i monasteri buddistici che fanno una santa corona alla città di Kyòto. Colà, fra i ciliegi leggeri e le vecchie paludi dove si aprono fiori di loto, nel silenzio dei vecchi templi di legno, il Giappone mistico custodisce i suoi tesori d'arte e di spiritualità. Si è accolti dovunque con quella effusione discreta del cuore che è la regola dei bonzi. Un giorno soprattutto io sentii quel contatto di simpatia umana che si stabilisce bruscamente fra due uomini sconosciuti l'uno all'altro. Perché mai, quasi senza parlare, di là dal mondo sensibile, si percepisce un misterioso accordo?
Ci trovavamo a Shaka-do, un grazioso eremitaggio, presso un fiume di montagna angusto e limpido. I ragazzi e le fanciulle in età di tredici anni vi si recano in pellegrinaggio il tredicesimo giorno del terzo mese, per domandare al Budda la saggezza.
Il padre superiore, uomo dalla grossa testa rasata, dal corpo tozzo, un pò impacciato nella veste gialla, fissò nei miei occhi uno sguardo candido e profondo e mi condusse davanti a ciò che forma l'onore del suo tempio: un'antica statua di legno che, prima dell'anno mille, dalle Indie fu mandata al Giappone in segno di comunione della fede. Essa fu scolpita, si dice, mentre il Budda era in cielo per predicare a sua madre, e i suoi discepoli in lacrime ne attendevano il ritorno. Il re Uten donò il legno di sandalo e il discepolo Mokuren scolpì a memoria l'effige. Quando il Budda ridiscese dopo un'assenza di novanta giorni, la statua gli andò incontro, poi, salendo i gradini, entrò con lui nel santo luogo dove i discepoli erano radunati in un tripudio di gioia.
I nostri pensieri si profondavano insieme in un remoto passato. Quindi, inginocchiati presso le coppe di thè, svolgemmo sulle stuoie bionde i rotoli meravigliosi dove Kano Monotobu dipinse, nel secolo XV, l'intera leggenda del Budda. Io mi posi a pensare all'enigma del Budda. E' egli un uomo realmente vissuto? Od è un personaggio mitico al quale la fede e l'arte diedero la vita? Il bel libro di Senart mi fa propendere per la seconda opinione.
L'ora passò. Rimanevano dei rotoli nei loro astucci leggeri. Con uno sguardo delizioso il monaco mi disse: “Venite ad abitare da noi una settimana o due. Avremo il tempo di vedere tutto a nostro agio”. Promisi di farlo un giorno. Mentre stavo per alzarmi, i suoi occhi cercarono sopra il mio capo le terre straniere donde ero venuto. Esitò un istante e, in cambio di tutte le mie domande, me ne presentò una: “Dite, che cos'è Gesù”.
Poichè in quel luogo di soavità eravamo due uomini gravati dal passato di due umanità che non si conobbero, noi pensavamo ai due padroni invisibili che governavano le nostre due razze. In un lampo di pensiero io vidi l'immenso spazio dell'Occidente, gli Stati temporali di Gesù e il posto che occupa in essi l'idea di Gesù. E per contrasto sentii il poco che si sa di Gesù, storicamente. Immediatamente un grande problema si manifestò in me.
Io risposi: “Le opinioni sono molto discordi. Per i credenti, Gesù è un deva, morto e resuscitato per salvare l'umanità. Per i miscredenti è un giudeo mal conosciuto, che i romani misero a morte perché si diceva re e annunziava la fine del mondo. Ciascuno sostiene la propria opinione. A proposito di Gesù è facile credere, difficile sapere”.
“Come per Budda”, disse il bonzo a mezza voce, col tono dell'uomo meditativo e dotto che ha pesato la fede secolare.
Mi alzai dicendo: “Cercherò di sapere quello che si può sapere. Quando tornerò, voi mi parlerete ancora del Budda e io vi parlerò di Gesù”.
Io scrivo per voi, lontano eremita, ed anche per te, chiunque tu sia, che senza pregiudizi, senza passione, senza interesse, con serietà, coraggio e buona fede consenti ad esaminare il grande problema.
Tu non lo devi accostare se non dopo aver provato te stesso. Vorrei che ogni studioso di religione facesse, come fino a poco fa in Montpellier il futuro medico, una specie di giuramento di Ippocrate:
“Giuro, qualunque sia la mia fede o la mia incredulità, di non tenerne alcun conto nella mia indagine. Giuro di essere disinteressato, di non mirare né a polemica né a propaganda.
Giuro di essere leale, di non omettere nulla di quanto vedrò, di non aggiungerci nulla, di nulla attenuare, di nulla esagerare.
Giuro di essere rispettoso, di non parlare scherzando di alcuna credenza antica o moderna.
Giuro di essere coraggioso, di mantenere la mia opinione intrepidamente contro qualunque credenza armata che non la tollerasse.
E giuro di rinunziare subito ad essa di fronte ad una ragione solida trovata da me o apportata da altri”.

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