venerdì 30 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXIII)

(per il capitolo precedente)


XXII

Gli scrittori anonimi dei vangeli, che oggi noi chiamiamo evangelisti, non ci riuscirono a produrre un'immagine coerente di Gesù, ridefinita e omogenea. Fin troppe mani furono coinvolte nel compito in tempi diversi. Una coerenza non è tentata nemmeno seriamente. La presentazione mostra chiaramente diverse tendenze in controtendenza l'un contro l'altra.
Per uno di quelli scrittori fu importante ritrarre un Gesù che, in opposizione al ritratto dato del Battista, non fosse un asceta. Egli prende parte senza preoccupazione ai banchetti. Cena volentieri coi pubblicani e peccatori. Non esclude le donne che hanno peccato, ma li prende in considerazione e con tolleranza. Appare amichevole alla gioia del vivere. Quando il vino finisce al matrimonio di Cana, trasforma l'acqua in vino, e in un vino assai migliore di quello che avevano avuto prima (Giovanni 2:1-10).
Ad un altro di quelli scrittori Gesù apparve un cupo puritano. Mentre egli sostiene la Legge Mosaica ed enfatizza chiaramente di non aver desiderio di infrangerla, è raffigurato in forte opposizione alle disposizioni umane a favore del divorzio introdotte nel ventiquattresimo capitolo del Deuteronomio.
In Marco 10:9, egli parla fermamente e definitivamente contro il divorzio:
L'uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto. Nell'undicesimo e dodicesimo verso dello stesso capitolo, egli sostiene che un nuovo matrimonio contratto da un uomo divorziato oppure da una donna divorziata è uguale a moicheia, un termine per cui l'adulterio deve essere considerato una traduzione davvero diplomatica.
Mentre, in alcuni dei vangeli, Gesù ci sorprende colle sue visioni tolleranti sulla deviazione sessuale . . . come nella sua attitudine verso la donna samaritana (Giovanni 4:7 et seq.); verso la donna che gli recò l'unguento (Luca 7:37); verso Maria Maddalena, e verso la donna colta in adulterio (Giovanni 8:3 et seq.) . . . egli è altrove rappresentato mentre parla con l'estrema asprezza di monaco fanatico che considera la donna simile a un serpente. È solo per cautela che l'evangelista, in Matteo 19:12, ha usato una certa insincerità nel porre quelle parole sulla bocca di Gesù:
Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca.
È chiaro che si presentano passi importanti nei vangeli dove Gesù non predica nient'altro che le più severe dottrine ebraiche. Così in Marco 12:28-31, quando lo scriba gli chiede qual è il primo comandamento tra tutti, lui risponde:
Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c'è altro comandamento più importante di questi”.
In tutti gli aspetti essenziali il Gesù qui raffigurato si percepisce in piena simpatia con le fondamentali dottrine tradizionali degli ebrei. 
Altrove, d'altra parte, egli è rappresentato mosso dal temperamento appassionatamente ribelle di un riformatore o di un rivoluzionario. Così in Luca 12:49 et seq.:
Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! . . .  Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. E continua a dire che metterà i membri di ciascuna famiglia l'uno contro l'altro.
Questo si sarebbe potuto spiegare come il risultato di uno sviluppo personale rapidamente in evoluzione. 
Ma la limitatezza mentale degli evangelisti è tradita dalla natura delle disposizioni contro le quali essi fanno sì che Gesù
, il (reazionario) riformatore, alzi la voce . . . quando, per esempio, lui è raffigurato ostile verso le regole tradizionali di purità. È facile vedere che gli autori di quei passi non avevano alcuna idea degli sforzi richiesti dagli uomini preminenti del tempo più antico per educare e disciplinare una sporca tribù di beduini nomadi, come gli israeliti di  quei giorni, in quella pulizia elementare che è la condizione primaria di una civiltà superiore. Qualcosa di simile alla reverenza ricolma l'uomo che legge con comprensione le disposizioni contenute in Deuteronomio 23:12 et seq.:Avrai anche un posto fuori dell'accampamento e là andrai per i tuoi bisogni. Nel tuo equipaggiamento avrai un piuolo, con il quale, nel ritirarti fuori, scaverai una buca e poi ricoprirai i tuoi escrementi. Allo stesso modo è prescritto che l'uomo che si è sporcato di notte sarà costretto a lasciare il campo e a non tornare fino a quando non ha fatto un bagno.
Anche le numerose disposizioni riguardanti la pulizia nella manipolazione e nel consumo di cibo devono essere interpretate come parte di questa educazione altamente necessaria di un sacco di barbari alla umana decenza. Che tali disposizioni talvolta siano dettate da un'assenza di conoscenza scientifica appropriata, non ha nulla a che fare con la questione. Ognuno capisce oggi che le numerose prescrizioni per il lavaggio di mani, piatti e pentole prima e dopo ogni pasto, alle quali i capi fornirono una sanzione religiosa per farle osservare, erano per il bene di tutti, e che qualunque opposizione a questa esagerata pulizia fosse irragionevole e reazionaria.
Leggiamo nel settimo capitolo di Marco:
Allora si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani immonde, cioè non lavate - i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi, e tornando dal mercato non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie e oggetti di rame - quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani immonde?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”
Di conseguenza, segue una denuncia totalmente irrazionale di quei cosiddetti farisei come ipocriti in tutto e per tutto.
L'idea fondamentale dell'evangelista, ripetuta più e più volte, non dovrebbe essere fraintesa. È semplicemente che ogni cosa dipende dalla pulizia interiore, e non esteriore. Quello che un uomo mangia non lo rende impuro . . . un'asserzione che rimane da provare. Ma le parole impure che escono dalla bocca di un uomo lo rendono impuro. In altre parole, l'importante nella vita non deve trovarsi in osservanze esterne, ma nello spirito interiore. Questa, ovviamente, è una verità indubitabile, ma non una nuova nel mondo israelita, dove i principali dei profeti . . . Amos, Michea, Osea. . . erano stati ispirati da essa secoli prima.
Ognuno può sentire che gli evangelisti vissero nella convinzione che la fine del mondo fosse imminente. Di conseguenza, fanno gridare sciagure da Gesù contro coloro che erano coi figli, e contro coloro che li offrivano latte, proprio come Paolo ammoniva gli uomini di tenersi lontano dalle loro mogli al tempo in cui il regno di Dio fosse alle porte. 
Già nella Genesi, il lavoro era considerato una maledizione che era caduta sull'uomo a causa della sua disobbedienza. Gesù, che, secondo gli scrittori dei vangeli, non aveva lui stesso mai lavorato, ma visse dei doni di donne devote (Luca 8:1-3), e che comandava ai suoi discepoli di vivere come mendicanti, non enfatizzò mai la gioia o l'onore che nasce da un lavoro ben fatto.  Invece egli dice ai suoi seguaci di prendere in considerazione gli uccelli o i gigli del campo, che né seminano né mietono, e tuttavia sono nutriti e vestiti dal loro padre celeste. 
Gli evangelisti rappresentano un Gesù indifferente alla sua famiglia e al suo paese. Le sue relazioni con sua madre e la sua famiglia sono raffigurate piuttosto tese, e un punto speciale è fatto di presentarlo come esempio di sottomissione alla dominazione romana. Egli collabora con i pubblicani che servono l'Impero romano e che per quella ragione sono evitati dagli ebrei. Egli differisce esplicitamente da coloro che esortano contro il pagamento dei tributi a Cesare . . . egli esegue anche un miracolo in questa connessione  lasciando che venga catturato un pesce che porta in bocca la tassa richiesta (Matteo 17:27).
La moralità che gli evangelisti fanno predicare a Gesù non è di alcun interesse storico oggi. Dove sembra più originale, come nel Discorso della Montagna, col suo comando di amare i nostri nemici e di restituire il bene al male, quella moralità ripete meramente le antiche dottrine ebraiche e uno dei temi favoriti della filosofia greco-romana. Così, quando a Diogene fu chiesto come meglio affrontare l'attacco di un nemico, egli rispose: “agendo nobilmente e gentilmente nei suoi confronti”. Detti di una tendenza simile si trovano in Senofonte, Platone, Seneca, Epitteto, Cicerone. I Cinici, in particolare, sono orgogliosi di soffrire senza risentimento.
Nel Levitico 19:18, troviamo lo stesso principio in una forma limitata:
Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo”.
La chiamata dei discepoli è seguita in Matteo dal Discorso della Montagna, di cui Marco non sa nulla. È semplicemente una compilazione, e il discorso non fu mai dato come ci viene detto. Anche quando Matteo e Luca fanno dire a Gesù:
A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l'altra, non c'è nessuna novità in ciò. Infatti questo, il più estremo di tutti i comandamenti, si trova nella “Didachè”, che è più antica di ciascuno dei vangeli. 
Altrimenti non esiste alcuna opposizione tra l'antica moralità ebraica e quella del Discorso sulla Montagna. Questo fu sottolineato già nel 1868 da Rodriguez in “Les origines du sermon de la Montagne”; successivamente da Robertson in “Die Principien des Judentums verglichen mit denen des Christentums” (1877). Passi con paralleli nell'Antico Testamento e nel Talmud sono numerosi. Le beatitudini si dovrebbero confrontare coi salmi 96:6 e 24:3; Isaia 66:13 e 57:15; Proverbi 29:23 e 21:21; Ecclesiaste 3:17, e così via.
L'enfasi sull'intenzione in opposizione all'azione, che, nel Discorso della Montagna, trova la sua espressione nella dichiarazione che
Chiunque guarda anche al dito di una donna, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Bereshith 24 e 24a). Ciò corrisponde a una linea di ragionamento trovata anche nel diritto romano, dove la sola intenzione di sedurre, di rubare, ecc., fu resa causa di sanzione.

giovedì 29 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXII)

(per il capitolo precedente)

XXI
L'intero racconto della Passione è così ricolmo di mitologia che l'estrapolazione di qualche fondamento storico potrebbe essere considerata fuori questione.
Così, per esempio, c'è evidentemente qualche sorta di misticismo nascosto dietro il racconto di Barabba comunicato in Matteo 27:15 et seq. Il significato di Barabba è semplicemente “il figlio del padre”. La versione originale del nome nella chiesa cristiana più antica fu addirittura Gesù Barabba. Sembra essere la prova che Gesù e Barabba siano identici. Il nome Gesù è stato omesso dal testo perchè i lettori furono offesi dall'aver associato quel nome ad un prigioniero che forse fu un assassino. La probabilità è che un sacrificio annuale del figlio di un padre, di un Barabba, formasse un aspetto consolidato della vita semitica. Nella stessa maniera la scena dove i soldati stanno deridendo il prigioniero Gesù sembra indicare la pratica di un rituale pagano di qualche genere. Questa è la suggestione fatta da Abbé Loisy, il grande biblista francese, il quale è inclinato in senso scettico, ma abbastanza lontano dall'esser scettico, e propenso a credere nell'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, la qual cosa non è supportata da alcuna prova di sorta, mentre egli si rifiuta di credere che la scena del popolo che lo salutava festante in quell'occasione potesse aver gridato soltanto una settimana più tardi: “Crocifiggilo!”. L'ebreo Filone racconta di un episodio di ridicola messinscena ad Alessandria e rivolta a re Agrippa, il nipote di Erode, che sembra aver rappresentato ciò che resta di un costume ebraico locale. È detto che un pazzo di nome Karabas  avesse sfilato come un re per finta, con un orpello per corona, uno scettro, e vesti regali. Karabas è chiaramente una scrittura sbagliata di Barabba (si veda “Il Ramo d'Oro” di Frazer, Volume 9, pag. 418). Quindi la storia di un prigioniero deriso da soldati romani che non combacia affatto con la disciplina romana, e la storia altrettanto fantastica circa la preferenza della folla ebraica per Barabba, sarebbero state armonizzate come reminiscenza di una sorta di carnevale semitico, il quale, a sua volta, recava reminiscenze di sacrifici umani davvero antichi, del sacrificio del primogenito da parte di suo padre, la cui pratica antica fu sostituita dal sacrificio dell'agnello pasquale (Esodo 22:29).

mercoledì 28 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XXI)

(per il capitolo precedente)

 XX
Gesù calma la tempesta e cammina sulle acque. Ma Mosè aveva già dominato e diviso le acque del mare (Esodo 14:21). Giosuè aveva già dominato le acque del Giordano, così che i portatori dell'Arca potessero attraversarlo a piedi asciutti (Giosuè 3:13). Elia aveva soltanto colpito le acque col suo mantello per dividerle di qua e di là così da poter attraversare lui ed Elia il Giordano come sul terreno asciutto (2 Re 2:8).
Gesù ascende al cielo, ma già Elia era stato assunto al cielo in un carro di fuoco, scortato da cavalli di fuoco (2 Re 2:11). È impossibile trascurare la misura in cui azioni miracolose attribuite ad Elia e al suo discepolo Eliseo nell'Antico Testamento sono stare attribuite a Gesù nel nuovo Testamento. A Nain Gesù resuscita dai morti l'unico figlio di una vedova (Luca 7:12). Ma questo miracolo di Gesù era stato già eseguito da Elia (1 Re 17:17 et seq.). Una vedova di Zarepta perse suo figlio. Quando morì, Elia lo trasferì sul suo letto, gridò al Signore, e il bambino tornò di nuovo in vita. Eliseo anticipò il miracolo della moltiplicazione dei pani attribuito a Gesù. Egli sfamò un centinaio di uomini c
on soli venti pani d'orzo, e “ne avanzò”. I vangeli devono eccedere. Gesù sfama  quattromila uomini con un pò di piccoli pesci e sette pani, e sono avanzate sette ceste di cibo (Matteo 15:34-38; Marco 8:1-8). In Giovanni 6:5 et seq., questo eccesso è portato ancora più lontano. Ci sono cinquemila uomini e solamente due pesci.
In modo generale, Elia è il prototipo, l'eroe religioso della nazione. Leggiamo in Malachia 4:5: “Ecco, io vi mando il profeta Elia, prima che venga il giorno del Signore, giorno grande e terribile”. Quella è la ragione del perchè l'evangelista (Marco 11:9) fa domandare dagli scribi [Sono i discepoli che, all'episodio della trasfigurazione, domandano a Gesù: “Perché gli scribi dicono che prima deve venire Elia?”.] se non dovesse prima venire Elia. E Gesù replica: “Sì, prima viene Elia e ristabilisce ogni cosa; ma come sta scritto del Figlio dell'uomo? Che deve soffrire molto ed essere disprezzato. Orbene, io vi dico che Elia è già venuto, ma hanno fatto di lui quello che hanno voluto, come sta scritto di lui”.
Fin dal principio della nostra epoca, Elia figurava nell'immaginazione popolare fianco a fianco con Mosè, e non è probabile che fosse collocato dopo Gesù. Questo lo si chiarisce nel diciassettesimo capitolo di Matteo e nel nono di Marco, dove Gesù diventa trasfigurato sulla montagna ed è detto che il suo volto si illuminò come il Sole, ed il suo vestito fu bianco come la luce.
E apparve loro Elia con Mosè e discorrevano con Gesù”. Poi Pietro propose a Gesù di costruire tre tende, una per ciascuno di loro. Poi una voce fu udita dalle nuvole, le altre due visioni scomparvero, e Gesù solo fu rimasto.
Così pieni di idee associate ad Elia sono gli evangelisti, da far intendere dai soldati romani sul Golgota il grido di “Eloì, Eloì” posto sulle labbra di Gesù come se fosse un'invocazione ad Elia . . . un'incomprensione perfettamente impossibile, dal momento che, naturalmente, Elia non poteva essere affatto conosciuto da loro (Matteo 27:49).

martedì 27 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XX)

(per il capitolo precedente)


XIX
 In Matteo quelle due coppie di fratelli sono evidentemente gli unici discepoli. Sono quattro in tutto, e a loro è aggiunto più tardi un quinto. In Giovanni 1:35-49 il battesimo di Gesù da parte di Giovanni è seguito dal reclutamento di un altro gruppo di discepoli in circostanze soprannaturali. Due di questi lo avvistarono. Egli chiede loro: “Che cercate?” La loro risposta è un'altra domanda: “Rabbì, dove abiti?”. Gli viene mostrato, e poi dicono: Abbiamo trovato il Messia”. Allora Gesù dà a Simone il nome Cefa, che è interpretato Pietro, e così via. In Giovanni 6:69, Pietro dichiara che Gesù ha “le parole di vita eterna” e che lui, Pietro, ha riconosciuto Gesù come “Cristo, il Figlio del Dio vivente”.
In questo vangelo, che deve essere considerato una trascrizione poetica davvero libera, replica allora Gesù:  “Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!”. Le ultime parole si riferiscono, naturalmente, a Giuda come colui che doveva tradirlo.
A poco a poco, gli originali quattro discepoli diventano dodici . . . Un evidente pezzo di mitologia. In Marco 1:16, ci sono solo due di loro, Simone e Andrea, che stanno pescando con le reti. Da qui il gioco di parole: “Vi farò diventare pescatori di uomini”. A fini di simmetria, sembra che un paio di fratelli, Giacomo e Giovanni, pure pescatori, siano aggiunti in Giovanni 1:18. Inoltre nello stesso vangelo, 2:14, un'altra aggiunta è fatta sotto forma di Levi il pubblicano, il figlio di Alfeo, che in Matteo 9:9 ha cambiato nome e viene chiamato Matteo come lo stesso scrittore evangelico.
Più tardi, in Matteo (12:2), quei quattro pescatori e un pubblicano, come per un colpo di magia, sono trasformati in dodici apostoli. In Marco 3:13 et seq., abbiamo chiaramente il mito che prende forma. Gesù sale su una montagna e ordina ai  dodici che devono avere il potere di guarire malattie e di cacciare demoni. 
Il bisogno è stato sentito di circondare il figlio della divinità con una considerevole corte; dodici apostoli e settanta discepoli. Ma mai nessuno divenne abbastanza sicuro dei nomi. In Marco 3:18, Levi è andato, e il suo posto è preso da Giacomo, figlio di Alfeo. In Luca 5:27, Levi il Pubblicano riappare. Nel prossimo capitolo dello stesso vangelo, il suo posto come figlio di Alfeo è ancora una volta preso da Giacomo. Tra gli apostoli troviamo qui due di nome Giuda, uno dei quali è il fratello di Giacomo e l'altro il futuro traditore. Taddeo, d'altra parte, è completamente scomparso. La confusione è così grande che diventa impossibile accettare quei racconti come documenti storici. L'origine del numero dodici resta oscuro. Robertson potrebbe aver ragione a credere di aver scoperto un culto pre-cristiano di Gesù organizzato sotto forma di dodici partecipanti raggruppati intorno al tredicesimo, che fu chiamato l'Unto (Cristo). Quei dodici hanno poi considerato sé stessi “i fratelli di Nostro Signore”. Tracce di questo culto pre-cristiano di Gesù si potrebbero trovare in Atti 19:3, dove gli efesini dicono a Paolo di essere stati battezzati “col battesimo di Giovanni”.  Le dottrine relative erano state comunicate loro dalla visita di un ebreo, Apollo di Alessandria, che fu un uomo eloquente e fervente nello spirito, sebbene “conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni (Atti 18:24).
Sotto tutte le circostanze, dovrebbe essere chiaro ad ogni uomo ragionevole che la storia dei dodici apostoli come l'abbiamo nei vangeli è un mito.
La leggenda riguardante uno di quelli apostoli ha causato un grande danno. Che fosse creduta  non parla bene dell'acume dell'uomo. Per quasi duemila anni questa leggenda di Giuda, come espressione dell'odio provato da un gruppo di uomini verso un altro, ha dato origine ad orrori indicibili. Non c'è alcuna esagerazione nel dire che questa leggenda, che contrappone un diavolo contro la figura di luce per un effetto efficace, ha causato la tortura e l'assassinio di centinaia di migliaia di esseri umani.
Secondo le sue stesse premesse, questa storia è impossibile. La premessa principale è, naturalmente, che un uomo dalle qualità soprannaturali, un dio o semidio, va in giro giorno dopo giorno piuttosto apertamente in una certa città e i suoi dintorni. Egli si preoccupa così poco di nascondere i suoi movimenti che qualche tempo prima era entrato in quella città alla piena luce del giorno, ed è anche detto che fosse stato salutato con entusiasmo dal popolo, così da essere conosciuto da ognuno, da ogni donna e ogni bambino. Egli passeggia in giro in compagnia dei suoi discepoli, predicando di giorno, e dormendo all'aperto di notte, con quelli stessi discepoli attorno a lui. Nondimeno è ritenuto necessario comprare uno di quei discepoli per il suo tradimento, e allo scopo di un maggiore effetto drammatico, questo deve accadere con un bacio! Immagina le autorità poliziarie di Berlino nel 1988 assoldare un socialista per la rivelazione del nascondiglio di Bebel! La polizia avrebbe potuto proprio altrettanto bene risparmiare la sua moneta usando l'elenco telefonico.
Se ci fosse stato detto che Gesù aveva cercato rifugio in una grotta o un sotterraneo, ci sarebbe potuto esserci, dopo tutto, qualche sorta di flebile senso associato al racconto. Ma sotto le circostanze a noi riferite, quelli che lo cercavano dovevano solo chiedere: “Chi di voi è Gesù?”. Ed egli certamente non avrebbe tentato di negare il suo nome con una bugia.
Non solo Giuda è più inutile della quinta ruota di un carro, ma egli è un'assurdità, comprensibile solamente come manifestazione dell'odio nutrito dal cristianesimo gentile contro i giudeo-cristiani durante il secondo secolo, quando era diventato utile dimenticare o negare che Gesù stesso, Maria, Giuseppe, tutti gli apostoli, tutti i discepoli, tutti gli evangelisti, erano stati ebrei.

lunedì 26 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XIX)

(per il capitolo precedente)


XVIII

Col battesimo di Gesù da parte di Giovanni, il racconto ancora una volta si avventura nell'infido reame della leggenda e del mito. Lo Spirito di Dio scende come una colomba . . . questo spirito che originariamente era femminile, una sorta di madre divina,  Come Cibele era la madre di Attis. E una voce dal cielo dice: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”. Più o meno valore emotivo potrebbe essere attribuito a questa leggenda, ma è impossibile considerarla Storia.
Poi Gesù è condotto nel deserto per essere tentato dal diavolo . . . una creatura che appare senza venir introdotta al lettore. Egli sembra provenire dall'India, dove tentò il Buddha, ma il suo ingresso nel racconto presuppone che sia noto al lettore, ed è qui che lo scrittore del vangelo commette un errore. Tutto quello che un lettore di Luca, per esempio, sa di lui è ciò che Gesù (10:18) dice: “Io vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore”. E questo non è molto informativo.
Non c'è dubbio che sia un diavolo straordinariamente stupido. L'uomo davanti a lui è supposto essere il figlio prediletto del Signore Onnipotente, e questa persona egli intende tentare con l'esca fiabesca del genere più infantile. È così stupido che egli non sa nemmeno in anticipo che sta andando incontro ad una sconfitta.
È anche caratteristico che questo diavolo non apparirà finché Gesù ha digiunato quaranta giorni e quaranta notti, così che dopo egli è davvero affamato.
Il numero quaranta e le parole deserto e digiuno erano inseparabilmente uniti negli antichi tempi israeliti. Mosè rimase quaranta giorni e quaranta notti sul Monte Sinai e durante tutto quel tempo non mangiò pane né bevve acqua (Esodo 24:18 e 34:28). Elia trascorse quaranta giorni e quaranta notti sull'Oreb, il monte di Dio, e digiunò tutto quel tempo (1 Re 19:8).
Dopo quel digiuno di quaranta giorni e quaranta notti, il diavolo lo lasciò e gli angeli andarono a servirlo. Questo lo aveva meritato certamente dopo una simile prova. Ma è difficile credere che quelle avventure avrebbero potuto avere un qualsiasi fondamento storico.
Si può notare in generale che gli scrittori del vangelo non avevano alcun interesse nei fatti storici. Sono piuttosto indifferenti ad ogni ordine cronologico, e quando menzionano eventuali eventi storici, lo fanno puntualmente in modo errato. Così è detto in Luca 2:2 che tutto il mondo romano doveva essere censito intorno al tempo  in cui nacque Gesù  e quando Cirenio (Publio Sulpicio Quirinio) era governatore della Siria. Ma se ciò fosse corretto, Gesù sarebbe venuto in questo mondo dopo la data assegnata alla nascita di Cristo, il che sembra piuttosto contradditorio. In Luca 3:1-2, è detto, inoltre, che
la parola di Dio scese su Giovanni” quando Lisania fu tetrarca di Abilene. Ma questo Lisania era morto a 34 anni al tempo in cui è detto che era nato Gesù.
Il fatto che la loro topografia sia povera come la loro cronologia, mostra che gli evangelisti non avevano alcuna conoscenza reale delle condizioni locali. Le loro idee geografiche si limitavano a pochi nomi: la Galilea, la Perea, la Giudea, il “mare” di Galilea. Quando il diavolo aveva lasciato Gesù, quest'ultimo andò in Galilea. Mentre cammina per “il mare della Galilea”, accade la chiamata dei suoi primi discepoli, due coppie di fratelli che sono pescatori, ma che lasciano immediatamente la loro occupazione per seguirlo. L'episodio suggerisce quello di 1 Re 19:19, dove Elia chiama Eliseo, laddove l'unica differenza è che quest'ultimo stava arando con i buoi, mentre gli altri stavano pescando. Ma, al pari di quelli, Eliseo bruscamente lasciò i suoi buoi, corse dietro a Elia, fece un sacrificio con i gioghi dei suoi buoi e finalmente seguì e servì Elia.

domenica 25 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XVIII)

(per il capitolo precedente)


XVII

Piuttosto in linea con lo stile dell'Antico Testamento, il terzo capitolo di Matteo comincia come segue: “In quei giorni (cioè non meno di trent'anni più tardi) comparve Giovanni il Battista. Allora viene detto di lui che egli era quello “annunziato dal profeta Isaia quando disse: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore”. Qui, come al solito, il testo antico viene tradotto in modo errato. In Isaia non è detto niente circa un grido nel deserto. La lettura corretta di quel passo (Isaia 40:3) dovrebbe essere: “Una voce grida:  preparate la via al Signore nel deserto!”.
 Quest'esempio non è affatto isolato. Nella loro ansia di scoprire profezie corroborative nell'Antico Testamento, gli evangelisti spesso facevano brutti errori. Il loro modo di pensare è estraneo all'umanità di oggi. Ma ciò che colpisce come la cosa più peculiare è la loro conoscenza insufficiente  degli scritti che per loro rappresentavano una vasta collezione di sapienza profetica.
In Matteo, l'annuncio dell'angelo della nascita di Gesù a Giuseppe (modellato sull'annuncio del Signore ad Abramo della nascita di Isacco e sull'annuncio simile da parte di un angelo alla madre di Sansone) è esplicitato come compimento di una profezia di Isaia: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio”. Ma questo passo fu reso erroneamente nella traduzione greca usata dall'evangelista. In Isaia (7:14) non si parla di una vergine, ma di una donna.   Quello che l'evangelista aveva in mente era la promessa ad Acaz: “Ecco: una donna concepirà e partorirà un figlio . . . Poiché prima ancora che il bimbo impari a rigettare il male e a scegliere il bene, sarà abbandonato il paese di cui temi i due re”. Nessuna profezia è implicita riguardo il bambino in questione e non si parla di alcuna nascita virginale.
Allo stesso modo l'evangelista lascia che Gesù sia nato a Betlemme per l'espresso scopo di rendere vere le parole di Michea 5:2. Ma la traduzione di quelle parole è piuttosto sbagliata: “E tu, Betlemme di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele”. Qui, d'altra parte,  c'è la vera resa del passo di Michea: “E tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà, ecc.”. Il significato di quelle parole è che Betlemme fu considerata la culla di Davide e di tutta la sua stirpe. È, in effetti, sorprendente quanti errori di questo tipo si siano insinuati nel Nuovo Testamento a causa dell'ignoranza e della confusione degli evangelisti. Nel ventitreesimo capitolo di Matteo, l'evangelista fa denunciare a Gesù i farisei ipocriti e servi a parole perché pagavano la decima della menta, dell'anèto e del cumìno, ma fallivano di mostrare pietà. Nessuna decima fu pagata di  verdure, tuttavia, e almeno di tutte le piante che crescevano incolte. Più tardi nello stesso capitolo a Gesù si fa accusare i farisei di essere responsabili di tutto il  sangue dei giusti sparso sulla terra, “dal sangue di Abele (che difficilmente poteva essere attribuito ai farisei) fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachìa, che avete ucciso tra il santuario e l'altare”. Così facendo, l'evangelista ha confuso Zaccaria, il figlio del sacerdote Ioiadà, che secondo 2 Cronache 24:20 et seq., fu lapidato per ordine di re Ioas, con Zaccaria, il figlio  di Baruc, che fu ucciso da fanatici ebrei all'interno del Tempio stesso a causa del presunto tradimento durante l'assedio di Gerusalemme da parte dei romani. Siccome questo accadde nell'anno 68, il passo del vangelo dev'essere un'interpolazione posteriore.

sabato 24 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XVII)

(per il capitolo precedente)


XVI

Verso la fine del secondo capitolo di Matteo, è detto che Giuseppe venne ad abitare in un villaggio chiamato Nazaret: “perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: «Sarà chiamato Nazareno»”.
Gli studiosi critico-testuali hanno notato che né l'Antico Testamento, né Giuseppe o il Talmud fanno mai menzione di un villaggio così chiamato. Al di fuori dei vangeli, il nome è sconosciuto fino al quarto secolo. Ovviamente, Alcuni teologi moderni hanno cercato di dimostrare una ferma convinzione tra i cristiani che Gesù avesse la sua casa a Nazaret. Ma questo non è altro che un'ipotesi basata sulla supposizione che i vangeli esistettero durante il primo secolo nella forma che hanno ora. La probabilità è che non ci fu mai un villaggio di nome Nazaret. Già alla fine degli anni 60, Owen Meredith sostenne che nulla indicava l'esistenza di questo villaggio prima dell'era cristiana. Al nostro giorno, il Dott. Thomas Kelly Cheyne è citato da J. M. Robertson, nel suo “Cristianesimo e Mitologia”, per aver concordato nientemeno che con un esperto come il Professor Julius Wellhausen, nel derivare il nome dalla regione di Genesaret, che rende Nazaret identico con la Galilea. Dallo studio di Epifanio, William B. Smith ha provato che, prima dell'epoca cristiana, esistette una setta ebraica chiamata i Nazarei. La loro ortodossia fu così estrema che non riconoscono alcuna autorità successiva a quella di Giosuè, il cui nome è identico a quello di Gesù. In un modo o nell'altro sembrano essere diventati amalgamati coi cristiani, i quali, tuttavia, cambiarono il nome da Nazarei a Nazorei.

 In ogni caso, sembra improbabile che i Nazorei (o Nazareni), come sono chiamati i seguaci di Gesù in Atti 24:5, ricevettero il loro nome dal presunto lugo di nascita di Gesù. In Matteo, ad essere sicuri, il nome è dovuto a questa derivazione, e si riferisce a un passo dei Profeti per la conferma. Ma questo passo non è stato trovato, e se Gesù fosse di Nazaret, doveva essere stato chiamato Nazarettano, o qualcosa del genere, ma non Nazoraios o Nazaraios. La parola Nazaraios sembra aver significato protettore, mostrando che i Nazarei erano considerati protettori nella stessa maniera dell'angelo Michele, o di Jahve stesso. (Si veda di William B. Smith “Il Gesù Pre-Cristiano” e il suo articolo su “La Reale Discendenza di Gesù” in “The Open Court”; anche l'articolo del Dr. Paul Carus su “Il Nazareno” nel “The Open Court” di gennaio 1910, e infine il Dr. Paul W. Schmiedel.) Forse la setta dei Nazarei originariamente fu identica con quella dei Nazirei, nel senso di consacrati o santi, perché si sforzavano di vivere in modo puro, astenendosi dal vino e lasciandosi crescere capelli e barba.  Forse l'appellativo si riferisce semplicemente al famoso passo di Isaia 33:2 circa il germoglio dal tronco di Jesse, siccome la parola per una tenera pianta è nazar. Ogni cosa indica che il villaggio di Nazaret aveva la sua origine in una leggenda di tarda data.

venerdì 23 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XVI)

(per il capitolo precedente)


XV
Il link successivo nella storia consiste nell'apparizione dell'angelo che provocò  la fuga in Egitto, la quale avvenne mentre (il da lungo tempo deceduto) Erode, tramite i suoi carnefici, uccise tutti i bambini che erano a Betlemme dai due anni in giù . . . Un massacro di innocenti che la Storia, per buone ragioni, non ricorda da nessuna parte.
Esso rappresenta una doppia imitazione di leggende dell'Antico Testamento. Innanzitutto, abbiamo la storia del tentativo del faraone di liberare l'Egitto dagli ebrei (Esodo 1:15 et seq.) richiedendo alle levatrici ebree di controllare da vicino il sesso di ogni neonato e uccidere tutti i maschi, concedendo alle femmine di sopravvivere. Le levatrici rispondono con scrupolo che le donne ebree non sono simili a quelle dell'Egitto: “sono piene di vitalità: prima che arrivi presso di loro la levatrice, hanno già partorito!”.
Al che il faraone incarica tutto il suo popolo di gettare nel fiume tutti i  maschi ebrei appena nati, mentre le femmine sono lasciate vive. Quindi la ben nota storia fa sì che la figlia del faraone trovi il Mosè infante in un cestello di papiro che era stato lasciato vagare sul fiume.  Di cui tutto ciò è piuttosto ignoto agli storici nativi dell'Egitto.
L'altro passo parallelo dell'Antico Testamento utilizzato nella costruzione della storia circa il massacro dei bambini di Betlemme proveniva da 1 Re 11:15 et seq., dove ci è detto di come Hadad, della casa reale di Davide, sfuggì al massacro che prese luogo quando Joab trascorse sei mezzi uccidendo ogni maschio edomita. Hadad fuggì in Egitto, dove trovò grande favore presso il faraone.
Rimase lì fino a quando non sentì che Davide era morto . . . come Giuseppe e Maria rimasero in Egitto finché non sentirono del decesso di Erode.
L'imitazione è manifesta.

giovedì 22 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XV)

(per il capitolo precedente)


XIV

Un modo logico di trovare ciò che è veramente storico sarebbe quello di iniziare eliminando ciò che non può essere considerato tale e poi vedere ciò che rimane. È da temersi che il risultato sarebbe lo stesso come quando Peer Gynt iniziò a sbucciare la cipolla rimuovendo uno strato alla volta. C'era “un numero spaventoso” di loro, e sperava sempre che il nucleo sarebbe sbucato alla volta successiva. Ma alla fine scoprì con suo grande disgusto che, nella sua più intima interiorità, la cipolla non era nient'altro che strati.
Una volta, nei lontani anni 90, Anatole France scrisse un famoso racconto breve, “Il Procuratore di Giudea”, in cui tentò di esprimere il massimo scetticismo possibile rappresentando un Pilato  completamente dimentico della morte di Gesù. Lui era ancora estraneo al pensiero che più tardi sarebbe stato espresso dal suo giovane amico e medico, Paul Louis Couchoud, e cioè che la storia di Gesù stesso non è altro che una leggenda, cosicchè non un singolo dettaglio rimane ad indicare la natura storica di quella figura.
Il vangelo di San Matteo, che viene prima nel Nuovo Testamento, si apre con una tavola genealogica perfettamente impossibile di Giuseppe, il promesso sposo di Maria. Lo scopo è quello di dimostrare la sua discendenza da re Davide. L'intera questione è insignificante, poichè subito dopo è asserito . . . naturalmente, come resoconto di   seconda mano . . . che Giuseppe non era il padre di Gesù, così che la sua ascendenza non poteva avere alcuna importanza di sorta. Ma l'albero genealogico stesso è grottesco. Per quanto io possa comprendere, figurano in un punto trecento anni tra un padre e suo figlio. In Matteo questa tavola copre 26 generazioni. In Luca ne ha 41. Il testo di Matteo 1:16 è diverso nei manoscritti più antichi e nel Nuovo Testamento in stampa, dove le parole “che fu chiamato Cristo” sono state aggiunte alla fine del verso.
Ma siccome era Gesù, e non Giuseppe, che doveva essere disceso da Davide, e siccome Gesù non era nemmeno un discendente di Giuseppe,  l'intera tavola è assurda.
Il capitolo successivo ci offre l'affascinante racconto di tre uomini sapienti, o magi, che poi furono trasformati in tre re. Essi vennero “nei giorni di re di Erode”, sebbene Erode morì quattro anni prima dell'inizio dell'era cristiana. Siccome Gesù nacque a Betlemme in Giudea, essi vennero a Gerusalemme da Anatolia, che si traduce “est”.  Dicono: “Dov'è nato il re degli ebrei? Poiché abbiamo visto la sua stella in oriente e siamo venuti per adorarlo”. Poi segue l'interrogatorio dei sapienti da parte di Erode, la sua dichiarazione menzognera che anche lui desiderava adorare il bambino, la storia della stella che stette sopra la casa di Giuseppe, e l'offerta da parte dei sapienti di oro, incelso e mirra al bambino.
È una bella fiaba, ma ogni confutazione della sua affidabilità storica può essere ritenuta superflua.

mercoledì 21 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XIV)

(per il capitolo precedente)


XIII
   Nella maggior parte dei culti asiatici ed egizi, la madre del dio subisce una trasformazione che la rende non solo il genitore ma anche la dominatrice di  suo figlio. Nei vangeli d'altra parte, come abbiamo già visto, c'è in effetti una certa ostilità nel figlio verso la madre . . . un'ostilità che sta a suggerire la sua liberazione da tutti i vincoli terreni, e a caratterizzarlo come puro spirito.  Nel corso dello sviluppo a cui la Chiesa cattolica è stata soggetta, però, questa falsa relazione si è piuttosto persa di vista. In tutte le sue rappresentazioni artistiche, il figlio manifesta devozione o reverenza verso la madre.
 È alquanto degno di nota che tutte le donne che stanno vicino a Gesù in virtù della loro ammirazione o adorazione sono chiamate Maria come sua madre, come, per esempio, Maria, la sorella di Marta, e Maria Maddalena. In Asia, sembra che la madre del dio recava sempre un nome che comincia con la lettera ma.   Tra altri menzionati dall'orientalista, ci sono Maria; Mariamna; Maritala, la madre di Krishna; Mariana di Mariandinio in Bitinia e Mandane, la madre di Ciro, che gli ebrei considerarono il Messia del Signore. Così leggiamo in Isaia 45:1: “Così parla il Signore al suo unto, a Ciro”.
Ci potrebbe essere una mitologia anche nel nome di Maria. Ma che la figura di Gesù divenisse così perduta nell'oblio che nessuno degli scrittori evangelici lo aveva visto, e che perfino Paolo lo avesse visto solamente in una visione, dovrebbe assai meno destare meraviglia se quella stessa figura fosse leggendaria.
Egli non ha lasciato dietro di sé una singola riga scritta.
Forse non sapeva nemmeno scrivere.
Un bel passo del quarto vangelo, generalmente riconosciuto un'interpolazione posteriore, lo rappresenta mentre scrive nella sabbia. È un  vero peccato che una personalità che ha tenuto l'Europa in soggezione per duemila anni dovrebbe fare il suo scritto nella sabbia soltanto. Ma alcuni tra i suoi seguaci o adepti devono aver saputo come scrivere. Se le sue parole erano così preziose per loro, perché non fecero mai una precisa testimonianza di ciò che disse?  Perché loro furono soddisfatti di mettergli sulle labbra un conglomerato di estratti dal Talmud e proverbi popolari e parabole? Non ci hanno detto neppure dove fosse solito vivere? D'altra parte essi ci dicono che rimase da ospite ora con un lebbroso e ora con un fariseo, e poi di nuovo con Maria e Marta . . . due donne che sembrano mere allegorie dell'ebraismo che si perdeva in osservanze cerimoniali e ostentati atti di santità, da un lato, e, dall'altro, del cristianesimo gentile verso cui lo scrittore evangelico propende a causa della sua maggiore ricettività a nuovi insegnamenti.
   Anche i racconti più squisiti raccontati circa Gesù non hanno assunto alcuna forma definitiva nella fantasia degli evangelisti. Così la leggenda della donna che porta un unguento a Gesù ha preso parecchie forme diverse.
   L'identità stessa di questa donna varia.
In Marco 14:3 leggiamo di una donna senza nome che viene da Gesù mentre sta partecipando ad un pasto nella casa di Simone il Lebbroso. Lei reca nella sua mano un'ampolla di alabastro di un unguento di nardo genuino e molto prezioso.  Quest'ampolla lei la rompe e versa l'unguento sul suo capo, per il cui atto lei diventa esposta ad una critica severa da parte di quelli presenti.
In Matteo, questa critica è pronunciata dai discepoli stessi.
   In Luca 7:36 et seq., Simone il Lebbroso si è trasformato in un fariseo . . . che prova che la relazione di Gesù coi farisei non fu così cattiva come è rappresentata a volte. In questa connessione non dobbiamo dimenticare le parole poste sulle sue labbra da Matteo 23:3 “Fate dunque ed osservate tutte le cose che vi diranno”. La donna di Luca è diventata una “peccatrice di quella città”. Lei lava i suoi piedi con le sue lacrime, li asciuga coi suoi capelli, li bacia, e poi li unge con l'unguento.
 In Giovanni 12:3 la scena è cambiata ancora una volta. Gesù è a cena con Lazzaro, che ha resuscitato dai morti. Qui è Maria che unge i suoi piedi con un unguento costoso e li asciuga coi suoi  capelli. Ed ecco qui nuovamente i discepoli che brontolano per conto dei poveri.
   È bene notare che un potente movimento sociale fu riflesso nel cristianesimo al suo primo inizio. Evidentemente l'elemento comunistico di quei primi giorni fu retrocesso più e più sullo sfondo, man mano che le comunità cristiane vennero a comprendere molti membri ricchi,  e l'eliminazione fu completata quando il cristianesimo diventò la religione ufficiale dello stato.
La rabbia dei discepoli per lo spreco dell'unguento costoso recato a Gesù da quella donna prova che in origine un forte odio veniva percepito contro tutte le forme di lusso. Il malanimo nutrito
verso il ricco è evidenziato dalle parole che Marco 10:25 pone sulle labbra di Gesù: “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. Lo si ode di nuovo in Marco 10:21, quando Gesù dice al giovane di vendere qualunque cosa abbia e di darlo ai poveri. Significativa in questo senso è anche la parabola di Luca 16:19 circa l'uomo che andò all'inferno, mentre il povero, Lazzaro, dopo la sua morte fu trasportato da angeli nel seno di Abramo. Né si può dubitare che quando, nel Discorso della Montagna, ci viene detto che “beati sono i poveri in spirito, perchè di essi è il regno dei cieli”, le parole “in spirito” devono essere considerate un'interpolazione fatta ad un tempo posteriore quando le tendenze comuniste furono disapprovate come una crescente minaccia.
E proprio come molto di ciò che è stato preso per Storia da lettori irriflessivi non è nient'altro che allegoria, così c'è un sacco di astrologia in altri passi apparentemente storici.
Significativo è, per esempio, che il giorno più lungo dell'anno è stato dato a San Giovanni, mentre il più breve, quando la luce inizia la sua battaglia di conquista contro le tenebre, è diventato il giorno particolare di Gesù, il Natale, il giorno della natività.
Caratteristica del portato astrologico di quelle antiche leggende è il costante spostamento della Pasqua.  Ci si può chiedere perché Paolo non fornì ai convertiti greci e romani un certo giorno da osservare. E mentre la Chiesa cattolica afferma di conoscere il giorno preciso in cui Pietro e Paolo furono condannati a Roma, essa non è consapevole del giorno in cui Gesù fu crocifisso . . . anche se si sarebbe potuto ritenere il secondo di gran lunga più importante. 

martedì 20 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XIII)

(per il capitolo precedente)

XII

 Dopo l'esilio il mondo ebraico fu ricolmo di idee babilonesi. 
Talvolta sembra catturare un'eco del grande “Poema di Gilgamesh” babilonese. Xisutro naviga tranquillamente attraverso la tempesta sulle acque del Diluvio; Gesù dorme tranquillamente sulla barca durante la tempesta. La montagna sulla quale Xisutro divenne deificato corrisponde a quella su cui Gesù fu trasfigurato. Chi può sapere se il gregge di duemila porci che si tuffò nell'acqua e scomparve dopo che Gesù aveva miracolosamente esorcizzato gli spiriti malvagi non fosse una sorta di simbolo dell'umanità peccaminosa distrutta dal Diluvio, una leggenda che proveniva a sua volta da Babilonia?
Coi babilonesi vennero anche miti iraniani . . . quelli appartenenti alla religione di Zaratustra. Un'altra potente influenza derivò dal culto di Mitra, che, come il cristianesimo nascente, aveva per oggetto la purificazione, la redenzione, la resurrezione e un'unione con Dio come quella dei figli col proprio padre. Lo Spirito Santo, che appare nell'Avesta, qui ricorre di nuovo.
In Anatolia, l'antico culto di Attis-Cibele fu fecondato parzialmente dai simili misteri greci dell'occidente, e parzialmente dal culto di Mitra dall'oriente. Il pensiero basilare, che si incontra pure in Paolo, è il dolore alla morte della vita nella natura e la gioia alla sua restaurazione.
Attis muore giovane. Dal suo sangue germogliano viole. La sua resurrezione fu celebrata con canti e feste. Al di là dei confini dell'ebraismo e di Paolo, la condizione miserabile del mondo era spiegata con la presunzione (adikia). La maggior parte dei pensieri considerati specificamente cristiani non si originarono da quella fede, ma scaturirono dal miscuglio di razze dell'impero mondiale e furono alimentati da forti correnti di comunicazione reciproca. 
Come un terreno mortale in carne ed ossa, il Gesù menzionato nei vangeli era scomparso dalla memoria contemporanea nel giro di pochi anni. Neppure Marco, generalmente ritenuto il più antico degli scrittori evangelici, ebbe qualche idea di come sembrasse. Egli è incapace di darci un suo ritratto. Perfino nel vangelo nominato da Marco, egli non appare un vero essere umano, ma un mago, un operatore di miracoli, e uno che guarisce col tocco delle sue mani.
Queste cure miracolose sono numerose in tutti i vangeli, ma siccome i loro scrittori non possedevano alcuna nozione di scienza, la quale è greca piuttosto che ebraica nel suo spirito, non accade a nessuno tra loro di permettere che Gesù, come un Pasteur, fornisca un rimedio che possa essere utilizzato per la cura di un qualche numero di casi. Le loro idee di medicina sono inseparabili da suggestione e ciarlataneria. Essi stanno cercando di impressionare il lettore con rozze storie come quella di Marco 2:4, dove ci è detto che la pressione di  coloro che desideravano vedere Gesù guarire uno colpito da paralisi fu così grande da non poter trascinare il malato nella maniera solita, ma da dover rimuovere il tetto e calarvi dall'alto la lettiga coll'uomo sopra.
Marco è conciso e relativamente parsimonioso col miracoloso. Egli non è consapevole di nessuna genealogia o  nascita verginale e non ha racconti da dire sull'infanzia di Gesù. Quando Matteo e Luca hanno così molto da dire, questo non dipende dal loro accesso a fonti storiche ignote a Marco, ma dal semplice fatto che più lontano essi si ritrovarono dal tempo in cui visse Gesù, più persone sapevano di lui. E questa conoscenza raggiunse la sua pienezza solo quando la figura originaria fu completamente dimenticata . . . ma con la differenza che per quel tempo egli era diventato il figlio nella sua relazione a Dio il Padre, la quale relazione ha il suo prototipo nella mitologia babilonese. La madre col bambino adorati dalla Chiesa cattolica trova la sua corrispondenza in Iside e in Ishtar. Il termine “nella pienezza del tempo” proviene da Babilonia. Gesù visto in opposizione ai farisei corrisponde al Buddha, visto in opposizione ai bramini. Ci sono reminiscenze di buddismo  pure nel racconto della tentazione così come nei fenomeni naturali che accompagnano la morte di Gesù.
Il percorso per mare dall'India portava all'Egitto.
Alessandria fu presto un punto cruciale.

   Così si può affermare con fiducia che, sebbene l'ideale messianico potrebbe essere stato l'elemento principale nella formazione della nuova religione,  la sua impronta divenne fusa con impronte provenienti da un certo numero di altre religioni.

lunedì 19 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XII)

(per il capitolo precedente)

 XI

La speranza messianica e la fede messianica non sono le uniche fonti del cristianesimo originario. Vicina a quelle risiede un'altra, differente . . . il credo che a noi sembra così strano, non nelle dottrine predicate da un giovane entusiasta della Galilea, ma nella sua resurrezione dai morti. 
È estremamente difficile per un uomo del presente  cogliere il mondo delle idee paradossali in cui, duemila anni fa, vivevano in Anatolia, in Siria e in Egitto, in tutti i paesi a est del Mediterraneo, uomini senza alcun background di cultura greco-romana. È sorprendente trovare in 1 Corinzi 15:4-15 che Paolo fondò tutta la sua predicazione sulla convinzione che un giovane ritenuto figlio di Dio. . . e quindi egli stesso un essere divino, invulnerabile e immortale . . . si fosse lasciato seppellire dopo aver simulato l'apparenza di un cadavere, solo per risorgere il terzo giorno dalla tomba. Paolo dice: “Egli è resuscitato il terzo giorno secondo le Scritture. Apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta. . . .  Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me”. Più avanti dice: “Ora, se si predica che Cristo è resuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste resurrezione dei morti? Se non esiste resurrezione dai morti, neanche Cristo è resuscitato! Ma se Cristo non è resuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede”.
In altre parole, i culti  di Adone, Attis, Osiride, e così via, ci conducono al punto di partenza del cristianesimo originario, che fu il credo nella resurrezione. Ciò che risiede al cuore dell'adorazione di Adone ed Attis in Siria e in Palestina, e di simili culti religiosi in Anatolia ed in Egitto, fu l'idea che un giovane dio per la durezza del fato fosse costretto a morire nel fiore della sua giovinezza; che venisse pianto da donne, seppellito nella terra o nel Nilo, e di nuovo portato in vita, facendo sì che il lutto si mutasse in gioia.

domenica 18 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (XI)

(per il capitolo precedente)

X

Ad ogni modo, egli fu un altro uomo dopo la sua visita a Damasco. Ora è tutto speranza e fede. Come una colonna di fuoco, egli precede  gli eserciti che lo seguono in massa. È ricolmo della carità che ha elogiato così splendidamente ?  Essa manda onde di fuoco attraverso di lui invece di bruciare dentro di lui come una lampada sacra.
Un esempio preso a caso proverà questo. Era stata formata una piccola chiesa a Corinto, ma tra i i suoi membri la carne ancora dominava. Ai credenti del Messia era stato detto che la legge di Mosè non fosse più in vigore, ma che tutto fosse loro permesso, e così si abbandonarono ad una vita immorale.
Le donne uscivano in giro senza velo.  Le feste d'amore di cui la comunione costituiva una parte degeneravano in orge e festini selvaggi.
Le carni lasciate dai sacrifici agli dèi greci furono comprate al mercato e divorate con buon appetito. C'erano anche coloro che non esitavano a partecipare alle feste religiose pagane. Ma la notizia più orribile che raggiunse Paolo fu che un membro della chiesa si era sposato con la sua matrigna divorziata, mentre suo padre era ancora vivo.
Paolo perse ogni controllo di sé. Era infuriato.
E non fu calmato dall'autentico rimorso del peccatore. Proprio nell'epistola che trabocca di lode alla carità, lui  predice una punizione miracolosa (1 Corinzi 5:3-5). Egli ha deciso in nome del Signore, e con il potere del nostro Signore Gesù Cristo, di consegnare il peccatore a Satana per la distruzione della sua carne, perché il suo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore Gesù.
La sua rabbia non conosceva limiti. Ma il peggio che lo rese ridicolo fu quando il miracolo non si materializzò. Egli fu esposto al disprezzo come un millantatore.  Cercò di spaventare con le lettere, ma non venne di persona (2 Corinzi 10:9). Così rese infelice la sua vita colla sua incessante agitazione ed esortazione, e col suo combattimento costante contro nemici dentro e fuori il recinto dei santificati. 
Insiste di essere dalla parte giusta. Ama polemizzare. Ci si potrebbe spingere perfino a definirlo lamentoso.  Bisogna solo sentirlo descrivere la sua relazione con Pietro (Galati 2:2 et seq.). Nessuna parola è così offensiva da non utilizzare contro il suo rivale. Lo accusa sia di viltà che di ipocrisia:   “Ma quando Cefa venne ad Antiochia, gli resistei in faccia perché era da condannare. Infatti, prima che fossero venuti alcuni da parte di Giacomo, egli mangiava con persone non giudaiche; ma quando quelli furono arrivati, cominciò a ritirarsi e a separarsi per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei si misero a simulare con lui; a tal punto che perfino Barnaba fu trascinato dalla loro ipocrisia. Ma quando vidi che non camminavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei giudeo, vivi alla maniera degli stranieri e non dei Giudei, come mai costringi gli stranieri a vivere come i Giudei?»”. E questo è seguito da un sacco di rumore quasi incomprensibile.

Ma tutto questo, in cui la mia linea di ragionamento è stata guidata da varie associazioni di idee . . . quelle battaglie all'interno dei gruppi più antichi  di credenti messianici tra quelli di stirpe ebraica e quelli che non lo erano . . .  tutto questo e molti altri fatti e problemi sono di secondaria importanza rispetto all'unica grande verità che molto tempo fa albeggiò su uomini che si erano liberati dai pregiudizi accademici dei teologi di professione . . .  uomini come Arthur Drews in Germania, J. M. Robertson in Inghilterra, Alfred Loisy e Paul Louis Couchoud in Francia.
Nel suo seme e nel suo spirito principale, il cristianesimo esistette dal momento in cui il Messia dei profeti, il “servo del Signore”  di Isaia, il giusto perseguitato dei salmi e della Sapienza di Salomone, divennero fusi in una sola figura, quella di Jahve stesso trasformato in un dio che muore, risorge di nuovo, e ritornerà per sedersi in giudizio del mondo.
È da questa visione fondamentale dell'esistenza, questa duplicazione di Jahve in un Jahve-Messia o Jahve-Gesù, che il cristianesimo inizia. Questo Gesù non nacque da Giuseppe e Maria, ma per fede, speranza e carità (Couchoud).
Nient'altro che questo tipo di Jahve-Messia è conosciuto in ciò che porta il nome dell'Apocalisse di San Giovanni, che era un'Apocalisse ebraica, un'imitazione del Libro di Daniele, prima di diventare una apocalisse cristiana.
Nient'altro era noto a Paolo.
Più tardi la curiosità della gente comune e il desiderio di informazione, nonché la loro incapacità di raggiungere tali altezze spirituali, risultarono nella collezione di aneddoti tradizionali; storie mistiche e mitiche sulla nascita di Gesù e il massacro dei bimbi di Erode (in imitazione del tentativo del faraone di uccidere l'infante Mosè, che probabilmente non era mai esistito a sua volta); leggende sulla tentazione di Gesù da parte del diavolo; numerosi detti e parabole impressionanti pronunciati dai saggi del tempo; storie su un uomo popolare d'animo nobile e altamente superiore; storie di cure e imprese miracolose, simboli, visioni, e così via . . .  tutto di cui fu successivamente bollito assieme, nel miscuglio composto in modo strano che è chiamato il vangelo secondo San Marco.

E da questo vangelo tutti gli altri furono derivati.  

sabato 17 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (X)

(per il capitolo precedente)

IX

Il padre di Saul aveva deciso presto di farne un rabbi, ma gli aveva dato un'occupazione in linea colla maniera e  il costume del tempo. Il giovane divenne un fabbricatore di tende, lavorando come conciatore di pelli provenienti dalla Cilicia oppure costruendo capanne di mattoni. Non possedeva nessun mezzo indipendente ed era davvero gentile. Quando non irritato o inferocito dalla passione, egli era di buone maniere, e perfino cordiale, ma altrimenti irascibile e incline alla gelosia.
In apparenza sembra essere stato piuttosto insignificante. Secondo antichi documenti cristiani, la cui affidabilità potrebbe essere disputata, ma le cui descrizioni non sembrano totalmente immaginarie, egli fu brutto, piccolo di statura, tozzo e gobbo [Dr. Brandes evidentemente si riferisce agli Atti di Paolo e Tecla, dove, comunque, Capitolo 1, verso 3, si legge come segue:  “Scorse Paolo che stava venendo: era un uomo di bassa statura, la testa calva, le gambe arcuate, il corpo vigoroso, le sopracciglia congiunte, il naso alquanto sporgente, pieno di amabilità.”].
Allo stesso tempo egli soffre di qualche segreto fallimento, una “spina nella carne” inviata da Dio per trattenerlo da orgoglio eccessivo. Questa spina consiste di “tormenti da un angelo di Satana” (2 Corinzi 12:7). Tre volte aveva implorato il Signore di potersi liberare da lui, e tre volte egli aveva ottenuto la scoraggiante risposta: “La mia grazia ti basta”. Questa spina non si riferisce ad alcuna tentazione sessuale. Di volta in volta egli ci permette di sapere come fosse freddo di temperamento. Vedi in particolare 1 Corinzi 7:7, dove dice: “Perché vorrei che tutti gli uomini fossero come me” . . . cioè, liberi dall'essere attratti da donne.
Da giovane si recò a Gerusalemme e si crede che avesse studiato presso Gamaliele, che mostrò una tolleranza notevole, sebbene di natura rigida e considerato un fariseo. Saul, d'altra parte, si trasformò in un fanatico selvaggio, agitato e agitatore, e attaccato con autentica ossessione al passato nazionale. Quando la prima chiesa cristiana di Gerusalemme era stata dispersa, egli cominciò a visitare altre città.
A quel tempo, quando la pazzia di Caligola aveva scosso l'autorità romana, sembra che fosse apparso un gruppo di persone a Damasco che credeva che il Messia fosse arrivato. Per contrastare questo movimento, sembra che Saul avesse ottenuto il permesso dal sommo sacerdote Teofilo, figlio di Anano, di arrestare quei rinnegati e condurli in catene a Gerusalemme.
Infine, nel raggiungere quel paradiso terrestre costituito dai giardini di Damasco, sembra che fosse diventato disgustato della sua posizione di carnefice. Egli ricordò coloro che aveva perseguitato e portato alla tortura. Egli vide una luce nel cielo che illuminò tutto intorno a lui, ed udì una voce parlare nella sua lingua nativa, che lo avvisò e ammonì. Egli soffrì di un attacco epilettico, al termine del quale si risvegliò cambiato e convertito.

venerdì 16 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (IX)

(per il capitolo precedente)


VIII

Era nato nell'anno 10 o 12 a Tarso in Cilicia. Il suo nome si era latinizzato in Paolo solo dopo che era diventato l'Apostolo dei gentili. La sua famiglia proveniva da Giscala di Galilea e fu creduta appartenente alla tribù di Beniamino. Suo padre fu un cittadino romano, avendo acquisito questo status per servigi prestati, o forse, ereditandolo da qualcuno che lo acquisì ad un prezzo. Come tutte le migliori famiglie ebree, la sua apparteneva alla fazione dei farisei. Anche dopo la sua rottura con questa fazione, Paolo mantenne il suo entusiasmo e tensione come pure la sua asprezza di linguaggio.
 Tarso era allora una città fiorente, la sua popolazione mezza greca e mezza aramea.
Gli ebrei erano numerosi in tutti i centri mercantili. L'apprezzamento letterario era diffuso, e nessun'altra città, neppure Atene o Alessandria, poteva vantare una maggiore ricchezza di istituzioni scientifiche. Questo non significa che Saul ricevette una completa educazione greca. Gli ebrei raramente frequentavano scuole di apprendimento profano. Quelle scuole insegnavano soprattutto l'uso di un greco puro. Se Saul avesse appreso da una di loro, non è probabile che Paolo avrebbe scritto, o meglio dettato, in una lingua così non-greca, totalmente strana nella sua costruzione, e così piena di espressioni aramaiche e siriane che difficilmente può essere stata comprensibile ad un greco colto di quel giorno.  Senza vergognarsi della sua mancanza di quel che fu allora chiamata eruzione, egli parla di sé stesso (2 Corinzi 11:6) come idiotes to logo, “rozzo nel parlare”, e la sua intenzione è, ovviamente, accentuare quanto poco gli importino queste cose.
 Evidentemente egli pensava nella lingua siro-caldea, che fu anche la sua lingua nativa, e quella che usò di preferenza anche quando si rivolgeva a sé stesso oppure udiva delle strane voci a lui rivolte.
Quello che predica non ha nessuna relazione di sorta con la  filosofia greca. La citazione frequentemente menzionata di una commedia perduta di Menandro,  “Thais, o Buoni Costumi Corrotti da Cattive Compagnie”, era diventata un proverbio popolare usato da molti che non avevano mai letto Menandro. 
 Le altre due citazioni greche che sono state scoperte, si presentano in epistole che difficilmente possono essere ritenute autentiche. Una di loro è trovata in Tito 1:12 e recita come segue: “Uno dei loro, proprio un loro profeta, disse: «I Cretesi sono sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri»”. È attribuita ad Epimenide, che visse nel VI secolo A.E.C., e che dagli antichi venne considerato un grande indovino. L'altra, in Atti 17:28, recita così: “In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto”. I poeti qui citati sono Aratus di Cilicia e Cleante di Licia.
 Per “lui” intendevano Zeus, naturalmente.
È facile vedere che la maggior parte della cultura del giovane  Saul proveniva dal Talmud. Egli è guidato da parole piuttosto che da pensieri. Una sola parola lo farà perseguire una linea di pensieri lontana dal suo punto di partenza. Solo in un punto la prima epistola ai Corinzi (13:1 et seq.) sale a tali altezze che pochi altri passi gli reggono il confronto per fiero entusiasmo o fluente eloquenza. Ma dobbiamo anche ammettere che un raffinato studioso come Van Manen lo considera una interpolazione posteriore. Quelle sono le parole bellissime che ho in mente: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei un bronzo risonante o un cembalo squillante.  Se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla”.
Sono seguite da un numero di espressioni egualmente esaltate . . . scorci di un animo fiero di cui uno simile non era stato visto, e non si sarebbe visto di nuovo, per secoli. 
Ma è bene considerare la cornice nella quale sono state poste quelle gemme: stupidi argomenti sofistici come quelli del capitolo precedente colla sua similitudine noiosamente prolungata del corpo che è uno, e tuttavia ha molte membra, e con la sua applicazione alla chiesa e il suo sostegno per ragioni del tipo: “Se il piede dicesse: «Poiché io non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe più parte del corpo. E se l'orecchio dicesse: «Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe più parte del corpo.” E così via, ad infinitum. Oppure vediamo ciò che segue questa lode esaltata della carità. È un capitolo così sciolto nel suo ragionamento che la versione stabilita del testo sostituisce “parlare con lingue sconosciute” all'originale “parlare con la lingua”, che implicava la produzione di suoni inarticolati durante uno stato di estasi. E così otteniamo quei passi: “Chi infatti parla in una lingua sconosciuta non parla agli uomini, ma a Dio, giacchè nessuno comprende, mentre egli dice per ispirazione misteri. ... Chi parla in una lingua sconosciuta edifica se stesso, chi profetizza edifica l'assemblea; ecc.”. Tutto di cui non è nient'altro che un sacco di vuote frasi.

giovedì 15 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (VIII)

(per il capitolo precedente)


VII

Dopo qualche tempo Paolo fu visitato a Filippi da due seguaci credenti, Sila Silvano e Timoteo, di cui si dice che gli avessero recato notizie di una chiesa fondata a Tessalonica grazie ai mezzi forniti generosamente dagli abitanti di Filippi.  Tra quelli ci fu una donna di nome Lidia, una venditrice di porpora, dalla citta di Tiatira. Lei aprì la sua casa a Paolo e ai suoi compagni, e li ospitò (Filippesi 4:6; Atti 16:14-15).
Paolo, che in realtà fu il fondatore della religione cristiana, non ha nulla da dirci circa la personalità di Gesù e non lo aveva mai visto. Neppure fu egli mai visto dagli . . . in realtà anonimi . . . autori dei vangeli. Quando Paolo (1 Corinzi 9:1) esclama: “Non ho visto Gesù, il nostro Signore?” ciò che egli ha in mente è la sua visione sulla via per Damasco. E ciò che è popolarmente chiamato il vangelo secondo San Marco, San Luca, e così via, significa solo, giudicando dalla precisa parola utilizzata in quei testi (katá), che il vangelo in questione fu creduto essere stato scritto da un seguace del discepolo dal quale prese il nome. . . non che fosse stato scritto da quel discepolo in persona. E non una riga di quei vangeli fu messa per iscritto fino a quando l'attività di Paolo era durata molti anni.
Con tutta la sua fiera esaltazione, questo Paolo sembra essere stato, per quanto siamo in grado di realizzare, una persona piuttosto terribile . . . una di quelle nature patologiche nelle quali l'entusiasmo rapidamente si tramuta in odio, mentre l'odio altrettanto rapidamente si volge in eccessiva devozione.
Tutta la conoscenza storica è, dopo tutto, incerta. È un detto appropriato, in effetti, che la verità della Storia dipende dal silenzio di uomini morti.
Ma questo è che cosa le fonti esistenti hanno da dirci. Quando lo sfortunato Stefano doveva essere lapidato per la sua fede dissenziente nel Messia, i primi tra i suoi carnefici, che si ritrovarono ostacolati dai loro vestiti, li piazzarono ai piedi di un giovane fanatico, Saul, il quale, secondo la sua stessa dichiarazione, considerò quell'assassinio con soddisfazione e, per quella ragione, fu più che propenso a custodire i vestiti di coloro che lo commisero. Accecato dalla sua passione, egli ritenne un dovere fare qualcosa contro i nazareni. E questo dovere lo realizzò a Gerusalemme, dove ottenne un'autorità dal sommo sacerdote per gettare in prigione parecchi dei devoti.  È detto anche che egli avesse acconsentito quando alcuni di loro furono messi a morte per lapidazione. Si crede che questo sia accaduto nell'anno 37. La sua rapida conversione prese luogo nell'anno successivo. Dopodichè, come prima, egli fu un agitatore per professione.

mercoledì 14 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (VII)

(per il capitolo precedente)


VI
Gli scrittori pagani di Roma non ci offrono nessun indiscusso riferimento a Gesù. La prima menzione di lui occorre in una lettera di Plinio il Giovane all'Imperatore Traiano, scritta nell'anno 111 o 112, quando Plinio era stato inviato come legatus propraetore alle province di Bitinia e Ponto, e fu detto di averle trovato entrambe infestate dal cristianesimo. Ma può la lettera esser considerata autentica? Noi dobbiamo notare che la sola forma in cui ci ha raggiunto è un manoscritto completamente separato dal resto delle sue lettere. Per giunta, in connessione coi suoi riferimenti ai cristiani, Plinio parla di “Clemente di Roma” come di un uomo ben noto che realmente ha scritto le epistole attribuite a lui. Ma il consenso dell'opinione degli esperti è che, di quelle epistole, solamente la prima dalla chiesa di Roma ai Corinzi può eventualmente esser autentica. E quest'epistola non fu riconosciuta fino all'anno 170. Come, allora, Plinio poteva sapere qualcosa di essa? Questa circonstanza getta un considerevole sospetto sulla menzione di Plinio dei cristiani nella 96-esima epistola. Questo è ciò che si presume avesse scritto a Traiano:
“Quanto a quelli che negarono di essere stati cristiani, mi sentii obbligato a rilasciarli liberi non appena avessero adorato gli dèi e sacrificato alla tua statua.
Tutti questi (che affermarono di non essere cristiani) venerarono la tua immagine e i simulacri degli dèi, e imprecarono contro Cristo. Ma affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno (carmen) a Cristo come se fosse un dio (Christo quasi deo).
Se, come sembra altamente incerto, questo passo dovesse essere autentico, allora Plinio vide nella condotta dei cristiani una pubblica minaccia fintantochè questo nuovo dio, che era stato innestato sull'antico geloso dio degli ebrei, e al quale essi cantavano inni, sembrava incompatibile con gli altri dèi dell'impero, a cui gli adoratori del Messia non avrebbero offerto incenso e vino, e fintantochè fu anche incompatibile col culto del deificato Cesare.
Tutto sommato, ci sono solo due riferimenti a Cristo nella letteratura latina. Entrambi figurano in opere di scrittori romani che vissero durante il periodo di transizione dal primo al secondo secolo. Quelle sono le opere di Tacito e Svetonio, entrambi amici del più giovane Plinio.
Negli “Annali” di Tacito (15:44), con la loro esposizione particolarmente drammatica, leggiamo in connessione coll'incendio di Roma sotto Nerone:
“Nerone si inventò dei colpevoli responsabili di questo crimine. Li sottomise a pene raffinatissime. Sono coloro che ognuno detesta a causa delle loro nefandezze, e che dal popolo sono chiamati Chrestiani. L'originatore del nome (Christus), fu condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato, sotto il regno di Tiberio”.
Sembra impossibile per ogni critico privo di pregiudizi dubitare che questo passo rappresenti un'interpolazione, un'aggiunta fabbricata al testo, inserita molto tempo dopo i giorni di Tacito da qualche monaco o copista cristiano. Esso è formulato nella più stretta sintonia con la tradizione cristiana che gradualmente era divenuta stabilita. Chrestiani, che è l'equivalente greco di Christiani, è un appellativo che difficilmente può esser stato noto a Tacito quando egli scrisse “Gli Annali”. La parola greca Cristo, in vece di Messia non venne in uso fino al tempo di Traiano. Nessuno degli evangelisti impiega la parola Cristiani in connessione con quelli che seguirono Gesù. Il solo passo (Atti 11:20) dove si fa una menzione delle conversioni di gentili presenta l'origine di questo movimento in Antiochia. Tacito non menziona il nome di Gesù, e apparentemente non lo udì. Egli sembra considerare Cristo un nome personale e non sa che significa il Messia. Ciò che è particolarmente sospetto, comunque, è che, come un cristiano di un'epoca posteriore, egli parla di Pilato come se questa personalità dev'essere familiare ai lettori senza alcuna spiegazione aggiuntiva.
Nessun'opera di Tacito ci ha raggiunto senza inserzioni fabbricate. La fede mostrata da Gibbon sulla genuinità dei più antichi manoscritti di Tacito è stata abbandonata da lungo tempo.
La ragione più forte per ritenere un'interpolazione questo passo è perchè ciò che dice Tacito . . . oppure appare dire . . .  circa la relazione di Nerone coi cristiani non può eventualmente essere vero. Non è immaginabile che, così presto come nei giorni di Nerone, i seguaci di Gesù a Roma potessero aver formato una congregazione vasta abbastanza da attirare l'attenzione pubblica e così suscitare l'odio del popolo al punto da divenir soggetti all'accusa di aver incendiato la città. E come poteva Tacito, che non prese mai seriamente le dottrine degli ebrei, ma (secondo Tertulliano) credette che il loro dio, che egli non distinse mai da quello dei cristiani, fosse un uomo con la testa d'asino come quella del famoso graffito della crocifissione . . . come poteva egli considerare la presenza a Roma di una piccola setta ebraica una minaccia all'Impero?
Nessun uomo ragionevole al giorno d'oggi crede alla leggenda che attribuì a Nerone stesso la responsabilità dell'incendio di Roma. Svetonio, che fu propenso a sospettarlo di qualunque cosa, non aveva udito alcuna diceria che lo indicasse colpevole. E nè ci fu una ragione del perchè Nerone dovesse accusare i cristiani di aver iniziato l'incendio. Essi si chiamarono Iesseni o Nazareni, gli Scelti o i Santi, e così via. Comunemente essi erano considerati ebrei. Osservavano la Legge Mosaica, e il resto della popolazione non poteva distinguerli da altri ebrei. Essi ci tenevano a loro stessi e si preoccupavano di attrarre poca attenzione quanto fosse possibile.
La storia circa le torce umane che è giunta a noi da Tacito, sembra il prodotto di un'immaginazione incitata dalla lettura di una martirologia cristiana posteriore. 
Una punizione per l'incendio non esisteva a Roma al tempo di Nerone. I giardini dove si suppose che quelle torce fossero state messe erano stati trasformati in un rifugio per gli sfortunati che erano stati resi sfollati dall'incendio della città. Essi furono riempiti di tende e baracche di legno, tra le quali nessuno si sarebbe sognato di erigere pire per il rogo di criminali.
Gli scrittori pagani non esibiscono nessuna conoscenza di quelli orrori. I più antichi scrittori cristiani sapevano altrettanto poco di quelle “torce viventi”, che avrebbero fornito un così eccellente materiale per la propaganda. La loro menzione più antica occorre in un famigerato falso del quarto secolo . . . la corrispondenza totalmente immaginaria tra Seneca e l'apostolo Paolo [Il Capitolo 12 dell'Epistola di Paolo e Seneca allude all'incendio di Roma, e alla punizione di ebrei e cristiani come suoi responsabili, ma non ha nulla da dire circa “torce viventi”]. Una loro menzione più estesa è fatta da Sulpicio Severo, che morì nel 403, ma è mischiata con leggende cristiane come quelle circa la morte di Simon Mago e l'episcopato romano di san Pietro. In generale, le parole usate da Sulpicio sono identiche a quelle attribuite a Tacito. È aperto al dubbio se il testo di Tacito utilizzato da Sulpicio contenesse il famoso riferimento ai cristiani . . . odium generis humani. Altrimenti esso deve esser diventato noto ad altri scrittori cristiani che citarono Tacito. La probabilità è che il passo negli “Annali” (15:44) fu trasferito a Tacito da Sulpicio da qualche monaco scriba  . . . per la maggior gloria di Dio, e per rafforzare la continuità della tradizione cristiana mediante una testimonianza pagana.
Per quanto possiamo realizzare, allora, non esiste nella letteratura romana contemporanea nessun riferimento autentico che supporti l'esistenza storica di Gesù.