giovedì 8 giugno 2017

Circa «Jesus — A Myth» di Georg Brandes (I)



 Il Dio di Coincidenza

Può qualcuno negare che

Una cosa dopo l'altra

In sequenza e logica

Mai vista prima

Non può essere che la

Interferenza di un Dio

Determinata a provare che

Ognuno che pretende

Di conoscere ora

Una cospirazione è

Demente?


(Kent Murphy)

 Senza invidia
Sì, egli guarda senza invidia: e voi per questo gli rendete onore?
Il suo sguardo non cerca i vostri onori;
ha occhi d'aquila, per la lontananza;
manco vi vede! — Vede solo stelle, stelle.
(Friedrich Nietzsche)

La prima grande lezione che apprendo dalla lettura di Georg Brandes, Jesus — A Myth (che mi propongo di tradurre poco alla volta in italiano su questo blog), ha l'aria di essere una lucidissima, disincantata osservazione del reale: niente è (più) intrinsecamente irresistibile dei cosiddetti miracoli del Gesù di carta. Qualunque cosa ci fosse stata davvero “là”, e che figura pomposamente sotto i termini di “Miracolo” o di “Resurrezione dai Morti” (mi raccomando alle maiuscole per non offendere i folli apologeti cristiani!) non ha più il potere di proiettarsi al mondo d'oggi come esperienza affettiva. È tutta una faccenda vacua e folkloristica dal prestigio unicamente propagandistico (e ritornerò di seguito su questo punto). Niente è buono o cattivo, desiderabile o indesiderabile o chissà cos'altro, a proposito di visioni, rivelazioni, sogni, estasi mistiche, miracoli o resurrezioni, tranne ciò che è reso tale dai laboratori interiori che producono le emozioni di cui ci nutriamo. E nutrirsi di emozioni è il peggio che possa accadere, specie se quelle emozioni si pongono al servizio di bastarde superstizioni religiose.

Brandes è così disincantato precursore dei nostri tempi che ha previsto, con anni di anticipo, che non interessa più, perlomeno agli atei o agli scettici, disquisire ad nauseam su questioni ridicole del tipo “Gesù è davvero risorto?” oppure “Gesù ha davvero fatto esorcismi?”, ecc.
Ad oggi nessun'importanza è attaccata ad un problema che preoccupò gente religiosamente interessata cinquant'anni fa. La questione se i miracoli siano possibili o probabili è scomparsa da sé. Non la si solleva più, perchè nessuno vi è interessato se non quelli coinvolti nella denuncia di fachiri, medium, e ciarlatani che pretendono di usare metodi simili alla magia di vecchio stile.
Il problema ora ha assunto piuttosto un aspetto e grandezza differenti.

(Georg Brandes, Jesus — A Myth, capitolo 2, mia libera traduzione)

E non interessano più perchè i folli apologeti cristiani sono già stati ampiamente confutati su quella materia (leggere per credere). Quindi è più saggio, più utile e soprattutto più interessante, passare ad altro e ad altri.

Di certo non alla disamina delle vecchie ed usurate teorie storiciste.
In tante, troppe, praticamente tutte, di esse c'è un assortimento di Gesù storici che appaiono come comparse o con i ruoli più vari e il cui scopo è sommare la propria evanescente presenza alla narrazione evangelica — che di per sè ci consegna una figura a sua volta evanescente — per una pura e semplice questione di atmosfera e suggestione, mentre il vero Gesù è di nuovo e di nuovo sempre altrove, inafferrabile come lo sono tutti i fantasmi e gli esseri immaginari.
Spesso fanno apparizioni, nelle ricostruzioni più o meno credibili delle origini del cristianesimo, fugaci contro-figure, santoni, guru, e altre semileggendarie figure, sagome buttate in un angolo dello sfondo nella misura in cui dovevano dare spazio e magnificenza al fabbricato Gesù di carta.
La tendenziosa propaganda proto-cattolica nota come Atti degli Apostoli, degna da figurare nella lista dei più sfacciati revisionismi storici, ci consegna per prima le speculazioni fantasiose più bislacche su “chi sia chi” nelle origini del cristianesimo, consegnandoci magari un Paolo del tutto contraffatto e falsificato rispetto a quello delle epistole, oppure un Pietro del tutto in contraddizione con lo scemo che appare sotto il suo nome nel più antico vangelo, oppure ancora un Simon Mago che posa fin troppo da vicino come il mostruoso doppio di Paolo. Ma si sa: si chiama propaganda, da archiviare come tale. Come sfondo o elemento di corredo, le propagande hanno l'oneroso compito di esorcizzare in un mondo creato ciò che a volte si teme essere il reale modello della propria realtà, che deve essere creduta passabilmente solida e protetta — magari con un reale Gesù di Nazaret che consegna le chiavi della chiesa ad un rassicurante Pietro, e questi a sua volta ad un docile quanto fedele burattino Paolo — o perlomeno non un ambiente in cui si potrebbe scambiare per vera e fedelmente ortodossa una persona eretica o addirittura finta. Ma nella finzione, come nella vita, a volte capita di sbagliare. E sicuramente si tratta di un grosso abbaglio, quello commesso dal miticista danese Georg Brandes, di ricostruire un presunto nucleo storico nientemeno che da Atti degli Apostoli (!) quasi questo libro avesse le giuste credenziali per dare il diritto, prima ancora della pretesa, di ricostruirne uno. Atti è 100% pura finzione. Che abbaglio, quello di Brandes e non solo, di ritrovarsi prigionieri di questa ridicola propaganda, ridotti schiavi dell'illusione che possa nascondere chissà quale verità sul conto di Paolo o di Pietro o di Simon Mago, o di qualunque altro creduto corrispondere alla definizione di reale personaggio storico unicamente in virtù del suo essere ricordato da questa santa favola, questa bastarda, superstiziosa propaganda, chiamata Atti degli Apostoli.

Ma forse c'è dell'ironia, dopotutto, nel fatto che Brandes creda alla leggenda della conversione di Paolo sulla via per Damasco in virtù di Atti, salvo poi rimediare bruscamente con una svolta da 180 gradi in grado di ristabilire come d'incanto la vera natura delle cose con i suoi lettori, allorchè scrive, in prosa semplice e mirabile:
     Ma tutto questo, in cui la mia linea di ragionamento è stata guidata da varie associazioni di idee . . . quelle battaglie all'interno dei gruppi più antichi  di credenti messianici tra quelli di stirpe ebraica e quelli che non lo erano . . .  tutto questo e molti altri fatti e problemi sono di secondaria importanza rispetto all'unica grande verità che molto tempo fa albeggiò su uomini che si erano liberati dai pregiudizi accademici dei teologi di professione . . .  uomini come Arthur Drews in Germania, J. M. Robertson in Inghilterra, Alfred Loisy e Paul Louis Couchoud in Francia.
Nel suo seme e nel suo spirito principale, il cristianesimo esistette dal momento in cui il Messia dei profeti, il “servo del Signore”  di Isaia, il giusto perseguitato dei salmi e della Sapienza di Salomone, divennero fusi in una sola figura, quella di Jahve stesso trasformato in un dio che muore, risorge di nuovo, e ritornerà per sedersi in giudizio del mondo.
È da questa visione fondamentale dell'esistenza, questa duplicazione di Jahve in un Jahve-Messia o Jahve-Gesù, che il cristianesimo inizia. Questo Gesù non nacque da Giuseppe e Maria, ma per fede, speranza e carità (Couchoud).
Nient'altro che questo tipo di Jahve-Messia è conosciuto in ciò che porta il nome dell'Apocalisse di San Giovanni, che era un'Apocalisse ebraica, un'imitazione del Libro di Daniele, prima di diventare una apocalisse cristiana.
Nient'altro era noto a Paolo.
Più tardi la curiosità della gente comune e il desiderio di informazione, nonché la loro incapacità di raggiungere tali altezze spirituali, risultarono nella collezione di aneddoti tradizionali; storie mistiche e mitiche sulla nascita di Gesù e il massacro dei bimbi di Erode (in imitazione del tentativo del faraone di uccidere l'infante Mosè, che probabilmente non era mai esistito a sua volta); leggende sulla tentazione di Gesù da parte del diavolo; numerosi detti e parabole impressionanti pronunciati dai saggi del tempo; storie su un uomo popolare d'animo nobile e altamente superiore; storie di cure e imprese miracolose, simboli, visioni, e così via . . .  tutto di cui fu successivamente bollito assieme, nel miscuglio composto in modo strano che è chiamato il vangelo secondo San Marco.
E da questo vangelo tutti gli altri furono derivati.  

(Georg Brandes, Jesus — A Myth, capitolo 10, mia libera traduzione e mio grassetto)

Morale: potresti inventarti le più imprevedibili azioni e contro-reazioni da parte di Paolo, Pietro, Giacomo, ecc., ecc., più o meno con la stessa sfacciata e ipocrita libertà dello stronzo autore di Atti, ciò non toglie che all'origine del cristianesimo non vi fu mai un reale Gesù storico, ma solo il credo in una deità che muore e risorge.

Brandes, e qui è la sua originalità, identifica con YHWH stesso questa deità morente che resuscita. C'è della logica profonda in queste affermazioni: l'idea di un dio che sacrifica suo figlio sulla croce non è poi così lontana dall'idea di un dio che sceglie egli stesso di auto-sacrificarsi come sacrificio espiatorio.

Però sorgerebbe un dubbio, che purtroppo non è balenato nella mente del dr. Brandes: in che misura il credo del sacrificio espiatorio, lungi dall'essere così antico come Brandes e tanti altri pretendono che sia, non rivela nondimeno una certa interessata quanto malcelata insistenza nell'enfatizzare l'identità tra il sacrificatore (YHWH) e il sacrificato (il “Figlio”, il “Cristo”)?

Il sospetto affiora che il sacrificio espiatorio sia solo la risposta — una tra le tante — ad un credo ancora più antico e pervasivo circa la morte di una deità che non contemplava affatto l'idea del sacrificio espiatorio, ma solo l'intima certezza di una mistica rivelazione ed auto-illuminazione della deità.

Perfino se il cristianesimo primitivo nacque coll'idea specifica del sacrificio espiatorio del Figlio di YHWH, ciò non impedisce di vedere in quell'idea la mera istanziazione ebraica non solo del tema ellenistico del dio che muore e risorge, ma anche una particolare risposta ebraica allo gnosticismo precristiano. Gli storicisti in fondo direbbero la stessa cosa, seppure in termini resi grottescamente letteralisti: essi dicono che prima venne “Gesù di Nazaret”, il rivelatore di “qualcosa” (mettici qualunque cosa tu desideri qui) e poi subentra il mito di Cristo redentore dal peccato. Quindi anche loro ammettono, nella loro totale demenza, che qualcosa — una rivelazione — precedette l'idea del sacrificio espiatorio. Solo che loro riducono quel qualcosa al ridicolo galileo di carta (lasciando che sia la fede dei folli apologeti cristiani a fare di quell'uomo inventato la frivola icona di non capisco quale stupefacente meraviglia), e non invece al reale misticismo rivelatorio ebraico pre-cristiano (non chiamarla gnosi per distinguerla dalla gnosi del II secolo E.C.).

O forse la stessa idea che l'atto redentivo della deità fosse una reazione ad un atto non-redentivo della medesima potrebbe essere viziata alla radice dall'idea errata che debba esserci “per forza” qualcosa di sorprendente, di inatteso, all'origine del culto, e questa idea (potenzialmente) errata rischi di portartela appresso perfino se non chiami quel qualcosa “Gesù storico” ma “misticismo ebraico pre-cristiano”, o qualsiasi altro termine che più t'aggrada. Nel qual caso avrebbe ragione Brandes: il credo più antico fu l'atto redentivo di una deità. Ma con una mia nota aggiuntiva: il mito più antico non fu affatto un “fiammifero”, come il miticista Paul-Louis Couchoud (in comune con lo storicista Alfred Loisy) era quasi ardente di credere. Sarebbe errato pensare alle origini cristiane usando come una metafora i versi pur attraenti di Dante:

Non ci fu nessuna “favilla”, nessun “fiammifero”, nè in senso miticista (la prima allucinazione di Pietro) nè tantomeno in senso più storicista (un insignificante quanto ingiustificato Gesù storico), o se ci fu, non provocò la vera origine del culto, ma rientra a sua volta tra i suoi effetti. La mia enfasi sarebbe qui sulla essenziale monotonia del sacrificio espiatorio di Gesù nel mito relativo, una monotonia che non avrebbe niente da invidiare alla monotonia dei sacrifici annuali del Tempio di Gerusalemme. L'idea di una sorpresa come scintilla originatrice del culto sarebbe allora posteriore alla vera Origine (anche se solo di poco). E sappiamo tutti chi fu il primo latore di tale sorpresa, quando l'idea che dovette esserci una si insediò senza più lasciarla nella mente dei primi cristiani: l'uomo chiamato Paolo.

Una simile prospettiva aprirebbe la strada a identificare il Gesù dei primi cristiani con la classica deità di una religione misterica ebraica.

Ma esaminerò questa possibilità più in dettaglio in un futuro.

Mi limito a due altre osservazioni da fare sul conto di Brandes.


Brandes è noto soprattutto per aver ipotizzato che l'Apocalisse — o almeno il nucleo ebraico e pre-cristiano di esso — riflette di più l'originario cristianesimo dei Pilastri di quanto non lo fanno le stesse epistole paoline. Anche qui, stesso discorso come prima: l'Apocalisse potrebbe essere pre-cristiana, post-70, post-90, o addirittura, docet Thomas Witulski, post-150 — ciò non toglie che è un fatto auto-evidente che il cristianesimo si originò con sogni, rivelazioni, visioni, simili a quelle del farneticante autore dell'Apocalisse. Questo vale perfino se Brandes dovesse essere in errore nel credere, come Couchoud, come Richard Carrier, che i Pilastri fossero i reali originatori del culto.

In secondo luogo, mi va di stimare di più Brandes rispetto a Couchoud perchè, a differenza di quest'ultimo, il primo non sembra nutrire alcun distorto amore nei confronti della tradizione cristiana. Al contrario, egli tiene bene a mente l'esatta distinzione tra il senso greco della misura e la disgustosa intemperanza tutta orientale di cui il Gesù di carta è l'ennesimo, amaro compendio, reso possibile solo dall'imbarazzante assenza del primo. L'Oriente ha sempre partorito la schifosa intolleranza monoteistica di turno e l'Occidente è sempre stato lì a (a malapena) respingerla, e tanto più sono convinto dell'irrazionalità del monoteismo di salsa orientale (in tutte le sue forme) quanto più mi rendo conto della fragilità della cosiddetta “ragione” occidentale nel far fronte ad essa. A onore di Brandes, egli anticipa per certi versi la critica serrata del prof Hector Avalos — autentica bestia nera per i folli apologeti cristiani di tutto il globo — alla presunta “moralità” del Nuovo Testamento, quando scrive piuttosto serenamente:

In generale si potrebbe dire che la moralità greco-romana stette assai al di sopra di ciò che i vangeli posero sulle labbra di Gesù. Il pensiero fondamentale della moralità pagana, che una buona azione è la sua stessa ricompensa, non si presentò mai ad alcuno degli evangelisti. La moralità dei vangeli è una moralità di ricompense. Quel che essi fanno impartire dal Gesù da loro disegnato ai suoi fedeli, è che essi non devono eseguire le loro buone azioni sulla terra in maniera tale da trascurare la loro ricompensa celeste, che è di gran lunga più preziosa di ciò che possono ottenere qui (Matteo 6:1-6; Luca 14:12-14). L'idea di ricompensa è una conclusione predefinita per gli evangelisti. Ogni prescrizione morale deve, naturalmente, essere accompagnata da una promessa di ricompensa o punizione. Essi fanno in modo che Pietro domandi a Gesù che cosa otterranno i discepoli per aver rinunciato a tutto e seguito lui. In questa domanda Gesù non vede niente di specifico o vergognoso, ma risponde che, quando il Figlio dell'uomo siederà nel trono della sua gloria, allora essi siederanno su dodici troni, a giudicare le dodici tribù di Israele . . . una ricompensa non davvero attraente come noi vediamo oggi le cose.
(Georg Brandes, Jesus — A Myth, capitolo 24, mia libera traduzione e mio grassetto)

La moralità stessa potrebbe essere un mito, il riflesso di un mero tratto evolutivo contingente incorporato nel corso di millenni nei geni della nostra specie, ma perfino così, perfino nell'impossibilità di una reale condanna morale del Gesù di carta, ci si può limitare a constatarne del tutto spassionatamente la natura anti-morale, almeno sotto l'assunzione temporanea dell'esistenza di una morale. La critica di Brandes all'“etica” del Gesù di carta rimane tutta, al risveglio della coscienza. 

Georg Brandes


Sarò aspro come la verità
e intransigente come la giustizia.
Io faccio sul serio
Io non sarò ambiguo
Io non accetterò scuse
Io non arretrerò di un solo pollice
E SARÒ ASCOLTATO.

WILLIAM LLOYD GARRISON


INTRODUZIONE

Per più di seicento anni l'uomo comune in Svizzera e altrove non ha mai dubitato che Guglielmo Tell fu un contadino da Bürglen nel cantone di Uri, e un genero di Walter Fürst, a sua volta da Uri. Quando, il 18 novembre 1307, egli si rifiutò di prestare omaggio al “Cappello Imperiale” che l'ufficiale giudiziario austriaco, Hermann Gessler aveva messo su un palo ad Altdorf come segno della sovranità austriaca, a Tell, in quanto un arciere famoso, fu ordinato dall'ufficiale giudiziario di colpire una mela sulla testa del suo piccolo figlio.
In caso di fallimento, il ragazzo doveva morire con lui.
Tell colpì la mela. Ma ammise che un'altra freccia, che aveva preparato nel caso avesse mancato il bersaglio con la prima, era riservata per Gessler. Al che l'ufficiale giudiziario ordinò che Tell fosse preso e portato al suo castello. La tempesta sul lago di Lucerna rovesciò la barca, e Tell fu liberato dalle sue catene pur di tenere il timone. Con un tremendo salto riuscì a  raggiungere la riva, mentre la barca fu risospinta indietro dalla tempesta.
Dopodichè uccise l'ufficiale giudiziario con una freccia non appena quest'ultimo stava passando a cavallo attraverso la “strada vuota” al Küssnacht. Nel 1315 combattè per la libertà svizzera nella grande battaglia di Morgarten, e nel 1354 morì nel tentativo di salvare un bambino dall'annegamento nel Schächenbach.
Ci sono in Svizzera non meno di tre cappelle di Tell.
Vicino all'antico borgo di Bürglen una piccola cappella decorata con scene della vita di Guglielmo Tell commemora il posto dove sorgeva la casa in cui dimorava. Giusto dietro di essa sorge la rovina inghirlandata dall'edera di una torre, dove nei tempi antichi, quando Lower Uri apparteneva ancora al convento dei Santi Felice e Regula di Zurigo, il rappresentante locale del “protettore” dell'abbazia si diceva avesse avuto la sua residenza. Ma in quella zona  si è affermato da tempo che la torre fosse parte di un castello appartenente ad un Herr von Attinghausen, un nobiluomo di cui è riportato che fosse il suocero di Tell. Di conseguenza, egli è chiamato Walter, Fürst (principe) von Attinghausen. Nel corso del tempo divenne anche una comune diceria che lo stesso Tell fosse stato di nobile nascita, e il maresciallo Fidel von Zurlauben, che lo storico, Johannes von Müller, definì l'archivio vivente della Svizzera, comprendeva una riproduzione dello stemma di Guglielmo Tell nei suoi elenchi della nobiltà di Uri.
Questa cappella a Burglen fu iniziata nel 1582 e dedicata nel maggio 1584.
La Rocca di Tell (Tell Platte) e il salto per la salvezza sono menzionati per la prima volta in  una cronaca svizzera compilata tra il 1467 e il 1480. La probabilità è che la cappella presso questo luogo non sia stata costruita prima della metà del XVI secolo; Dal 1561 si sente di pellegrinaggi alla Rocca di Tell, e nel 1582 il cantone di Uri ordinò che fossero tenuti annualmente, sotto la guida delle autorità in pompa magna.
La terza cappella di Tell risiede presso Küssnacht, nei pressi della “strada vuota” in cui si suppone che l'ufficiale giudiziario avesse incontrato la sua morte. In questa connessione si devono notare diverse sconcertanti circostanze. La città e il castello di Küssnacht non sono stati aggiunti al cantone di Schwiz fino all'inizio del XV secolo.
Che cosa, allora, potrebbe aver a che fare l'ufficiale giudiziario Gessler Schwiz con quel luogo? L'incongruenza diventa ancora più marcata quando si ricorda che il cosiddetto Castello di Gessler risiede ai piedi del Rigi, vicino alla città di Küssnacht.
Così l'ufficiale giudiziario, che sbarcò a Küssnacht per la sua strada da Uri, aveva da percorrere solo poche centinaia di passi per andare a raggiungere la sua fortezza e trovare riposo dopo il suo estenuante viaggio attraverso il lago. Per giungere vicino al punto dove sorge la cappella, doveva passare per il suo castello e, nel bel mezzo di una notte di tempesta, cavalcare fino a Immensee al fine di raggiungere la strada vuota e permettere di venire colpito dalla posizione indicata dalla cappella.
Come ben noto oggigiorno, la spiegazione è abbastanza semplice: Guglielmo Tell non è mai esistito.
Non c'è mai stato alcun ufficiale giudiziario con il nome di Gessler. L'intera storia della fondazione della Confederazione svizzera dai confederati a Rütli è una leggenda.
Meno noto è il turbamento che richiese far arrivare a riconoscere la verità della questione.
Nel 1752 il pastore bernese, Uriel Freudenberger, esortò il clero di Uri a confutare tutti coloro che dubitavano dell'esistenza di Tell producendo alcuni dei parecchi documenti probatori detti di esistere. La risposta sopraggiunse nel 1759 e assunse la forma di una serie di falsi. L'anno successivo Freudenberger emise il suo opuscolo, “Guillaume Tell, fable danoise”, che fu confiscato e bruciato pubblicamente. È un errore quando MacLeod Yearsley nel suo “The Folk Lore of Fairy Tale” (Londra, 1924), dice che Freudenberger stesso fu bruciato vivo. Ma resta il fatto che egli non fu trattato per nulla con gentilezza. Chiunque mai proclama una verità sconvolgente per le credenze care al popolo deve essere preparato a qualche persecuzione e a molti abusi. Basta ricordare la campagna iniziata in Germania settantacinque anni più tardi contro David Friedrich Strauss per motivi simili.
La soluzione dell'enigma di Guglielmo Tell, però, non era così semplice come Freudenberger immaginò. Sembra certo che la leggenda popolare su Palnatoke, come riferito da Saxo Grammaticus (1180 circa), deve aver raggiunto la Svizzera nella sua forma letteraria e fornito le basi per la leggenda di Tell. Grimm, nel suo “Deutsche Mythologie”, sostenne che la morte di re Harald Bluetooth per mano di Toke era storica, mentre il tiro alla mela era del tutto mitologico. D'altra parte, il colto Konrad Maurer, che era di gran lunga meglio informato sulle antiche condizioni settentrionali, negò a Palnatoke qualsiasi esistenza storica. Nella leggenda originale non è nemmeno danese, ma un capo finlandese. E c'è un sacco di mitologia nel tiro fatale. Il significato fondamentale della parola Tell è quello di un folle che agisce alla cieca (come fece Hodur quando uccise Baldur). Inoltre, la leggenda è universale. Il poeta persiano Farid ud-din ‘Attar, nato nel 1119, menzionò nel suo “Mantik-uttair”, "Discorsi di Uccelli"  (1175), un re che aveva uno schiavo preferito. Sul capo di costui pose delle mele contro cui puntò le frecce, colpendole infallibilmente, fino a quando lo schiavo si ammalò di terrore.
Anche nel salto di Guglielmo Tell dalla barca c'è un sacco di mitologia. Attraverso i secoli vi è stata una perdurante tradizione, che il dio  alle prese con demoni, oppure l'eroe la cui vita è minacciata, si mettono in salvo dai loro inseguitori tramite un meraviglioso salto. Glauco, soprannominato Pontius, per esempio, era un pescatore che saltò in mare e divenne adorato come un dio nella città beota di Antedone. Nei tempi antichi c'era un luogo del mare conosciuto come “il salto di Glauco”.
Quando il poeta anglosassone Cynewulf riferì la vita di Gesù nel 1006, dispose l'Ascensione in modo tale che Gesù aveva da effettuare sei salti miracolosi, di cui solo l'ultimo bastò per portarlo in Paradiso.
In quanto mentalmente deficiente, a Tell furono presto dati tre guardiani dalla leggenda: Werner von Stauffacher, Walter Fürst, e Arnold von Melchthal. Questi si radunano a Rütli per l'istituzione della Confederazione svizzera. Tell viene escluso dai loro incontri.
Ogni altra cosa è altrettanto favolosa e irreale.

Constituisce uno spot sulla fama del grande storico svizzero Johannes von Müller  che, per riguardo alla sua popolarità, parlò solo in termini vaghi e ambigui circa Tell e Gessler, anche se era personalmente convinto che la leggenda non avesse alcun  fondamento storico di sorta. 
Attraverso la bellissima tragedia di Schiller, “Wilhelm Tell,” scritta sotto l'ispirazione di Goethe, il significato di Tell come un eroe nazionale svizzero e una personificazione dell'amore per la libertà diventò stabilito per tutto il tempo a venire. A tal punto Tell, divenne identificato con lo Stato svizzero che per parecchio tempo la sua immagine appariva sui francobolli della Svizzera.
Egli non è mai esistito. Ma questo non fa alcuna differenza.
Egli è e rimarrà un attivo ideale, e come un modello egli governa ancora la mente degli uomini.
Lo stesso vale per un'altra figura, anch'essa appartenente al mondo della leggenda, ma che ha esercitato una assai più vasta influenza sulla vita spirituale di Europa e America.

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