venerdì 2 febbraio 2018

Il Problema Gesù: Una Riaffermazione della Teoria del Mito (II) — Il Mito Centrale

(procede da qui)


CAPITOLO II

IL MITO CENTRALE


§ 1. Il Motivo di Conflitto

Per gli scopi di questa inchiesta, tutti i miracoli, strettamente così chiamati, sono fuor discussione. Questo non significa che la teoria mitica di Gesù sia l'esito di una filosofia atea. Uno dei libri moderni più brillanti su Gesù è il lavoro di un ateo dichiarato [1] che accettò sostanzialmente l'intera presentazione non-soprannaturale del Gesù dei vangeli, prendendola per una cattiva biografia, e sottoponendo la dottrina ad una critica appassionata ma comprensiva. Questo scrittore, rifiutando i miracoli come fuori dal dibattito, ebbe una convinzione della storicità di Gesù che non fu affetta in alcun modo da una conoscenza della moderna critica documentaria. D'altra parte, il Professor Arthur Drews, autore de Il Mito di Cristo, afferma espressamente di raccomandare la teoria mitica nell'interesse della religione teistica. Naturalmente anche lui rifiuta i miracoli come esterni al dibattito.
Quelli che sono ancora interessati a discuterli, e ad affermare credi come quelli della Nascita Verginale e della Resurrezione, dovrebbero volgere la loro attenzione all'opera ben nota del tardo W. R. Cassels, Supernatural Religion [2] in cui l'intero caso soprannaturalista nel suo duplice aspetto di “rivelazione” e di miracoli, è esaminato con un'abbondanza di apprendimento, pazienza, e candore. Disprezzato nel suo giorno da studiosi professionali ortodossi, quel trattato ha fatto così completamente il suo lavoro speciale nella critica generale della fede nel soprannaturale che, per quanto comune potrebbe essere ancora l'ortodossia, la materia è ora poco dibattuta tra uomini istruiti. Quelli che ci tengono ancora alla posizione ortodossa, perciò, non sono indirizzati qui. La nostra inchiesta invita l'attenzione solo di quelli che, abbandonando la base nel soprannaturale della fede cristiana, tentano di trattenere (potrebbe essere come la base per un “cristianesimo” trasformato) (1) la personalità umana che essi credono sepolta sotto i miti riconosciuti dei documenti, e (2) gli insegnamenti — o alcuni di loro — attribuiti all'Uomo-Dio dei vangeli. Il problema è un problema di critica storica, e non verte sul teismo o sull'ateismo. La storicità di Gesù è mantenuta non solo da “cristiani” di vari gradi di eterodossia ma da alcuni professati razionalisti; da critici eminenti per tempra di giudizio, come dal Professor Schmiedel di Zurigo; e dall'altra parte dal dottor F. C. Conybeare.
Quei critici concordano nel considerare Gesù un uomo naturale, nato in modo naturale, ed è a loro che dobbiamo replicare. Quando un cristiano ortodosso come il rev. dottor T. J. Thorburn, che tiene all'Annunciazione e alla Nascita Verginale, si mette a confutare la teoria mitica [3]  scovando analogie nel mito, sarebbe tempo perso discutere con lui. Uno scrittore che può credere di avere una prova della storia della partenogenesi umana non ha nessuna concezione di una prova in comune con noi. È inutile coerentemente indicare che egli fraintende costantemente e assurdamente l'argomento del mito; [4] che egli discute l'evemerismo senza sapere cosa significa; [5] e che egli si destreggia semplicemente con pentole come le storie della Trasfigurazione e dell'Ascensione. Da uno col suo punto di vista non possiamo aspettarci nient'altro; e a quelli ai quali soddisfa la sua esposizione nessuna teoria mitica può fare appello. Quando egli ricorre alla tattica di negare un “avvistamento spirituale” a coloro che accettano verifiche scientifiche, egli esemplifica semplicemente la normale procedura di incompetenza ortodossa. L'argomentatore religioso che si lamenta della ragione di solito conferma e tradisce sé stesso in quella maniera a buon mercato. Il nostro argomento è rivolto a coloro che professano di applicare a materie bibliche i principi della critica storica.
La scuola biografica, come si potrebbe definire senza offesa i vari candidati campioni della storicità dei documenti, abbandona la Nascita Verginale e la Resurrezione in quanto impossibilità. Che equivale a dire, essi accettano la teoria mitica per quanto riguarda quei due elementi cardinali della leggenda cristiana. Essi in generale riconoscono anche che il quarto vangelo, nella misura in cui si differenzia essenzialmente dai sinottici, è principalmente un processo di fabbricazione del mito. Ma, aggrappandosi al presunto sottostrato, la maggior parte dei membri della scuola aderiscono alla storicità fondamentale della Crocifissione. Qui essi stanno con Strauss, che trovò  un solido fatto storico nella condanna a morte di Gesù da parte di Ponzio Pilato. Strauss è generalmente esplicito riguardo le sue ragioni per accettare e respingere; e mentre egli risolve nel mito almeno nove decimi dei racconti evangelici, trovandole mere invenzioni per “compiere” presunte predizioni dell'Antico Testamento, egli trova indiscutibile la testimonianza di Tacito riguardo la condanna a morte. [6]
Ora, gli Annali di Tacito, è in sé stesso un discusso documento; ma perfino se lo prendiamo per indiscutibile, si tratta per ammissione comune solo di una dichiarazione recente di un racconto già reso corrente dai seguaci di Cristo, poichè gli Annali sono comunemente datati nel 120 E.C. circa. O Tacito si stava basando su un ricordo romano della Crocifissione oppure egli stava dicendo semplicemente ciò che dicevano i cristiani riguardo l'origine della loro setta. Se quest'ultimo caso, egli non offre nessuna base storica. D'altra parte, l'improbabilità che vi fosse un ricordo romano di condanne a morte nella Palestina di novant'anni prima è così grande che nessun apologeta cristiano ora sembra affermarlo. Tacito di fatto non dà alcun segno di consultazione di ricordi ufficiali, [7] dato che le sue soli fonti rintracciabili sono storici precedenti, soprattutto Svetonio. Quindi il motivo dichiarato di Strauss per accettare la condanna a morte di un “Cristo” da parte di Ponzio Pilato è veramente illusorio; e quando ulteriormente lo troviamo pronunciare che l'episodio di Barabba dev'essere tenuto fondamentalmente storico perchè esso è “radicato così fermamente nell'antica tradizione cristiana”, [8] noi siamo di nuovo indotti a respingere la sua analisi. Come vedremo, l'episodio di Barabba è incomprensibile come Storia, ma altamente comprensibile come mito. Già dal principio, allora, si constata che vengono fatte assunzioni non-verificate  dalla scuola biografica riguardo a cosa potrebbe con fiducia venir preso per storico, perfino quando, come nel caso di Strauss, essi affermano un'abbondanza di mito.
Dove Strauss fu precipitoso, scrittori razionalisti più recenti lo sono stati perfino di più. Un mio vecchio amico, il traduttore inglese del primo lavoro di Jules Soury su Gesù, prese per garantito che dietro eroi leggendari in generale c'è sempre il nucleo di un fatto; ma Soury, dopo aver ipotizzato come veritiera una gran parte della storia evangelica, rinunciò ad un certo numero dei suoi stessi elementi. [9]  
Non appena egli cominciò ad applicare una critica, esse si rivelarono assunzioni arbitrarie. Egualmente arbitraria è l'assunzione di “qualche base”, fatta su alcun principio scientifico.
La scuola biografica in generale aderisce almeno al processo e alla condanna di fronte a Pilato, sebbene parecchi abbandonano come finzione il processo di fronte al Sinedrio, che in effetti fu abbandonato da lungo tempo proprio come il terzo vangelo, a favore di un processo altrettanto fittizio di fronte ad Erode. Come è osservato dal signor Loisy, il processo di fronte a Pilato è per il critico storico la chiave di volta del racconto della tragedia. Se quello se ne va, vi rimane  soltanto un corpo di insegnamento altamente composito, con nessuna personalità storica identificabile a cui associarlo.
Ma perfino riguardo i processi c'è ampia divergenza tra la scuola biografica. Per esempio, il signor Charles Stanley Lester, un ex ecclesiastico di Milwaukee, nel suo libro interessante The Historic Jesus, [10] respinge interamente il processo del Sinedrio, e parimenti il resoconto evangelico del processo di Pilato, ma trova una “Storia probabile” nell'opinione che i sacerdoti persuasero privatamente Pilato a condannare Gesù per la loro accusa senza alcun processo. [11] Di nuovo, l'autore anonimo de The Four Gospels as Historical Records [12] un critico candico, ricercatore, eminentemente acuto, respinge parimenti il racconto di Giuda, il processo di fronte al Sinedrio, e il processo di fronte a Pilato, [13] proprio come respinge la maggior parte degli altri elementi della storia evangelica, tuttavia sembra completamente prendere per garantito la storicità del “Gran Maestro”, il “Maestro”, senza mai neppure sollevare quel problema se non per protestare che egli non ha assolutamente nulla da dire contro di lui. [14] Egli distrugge così completamente l'intera narrazione, in effetti, che difficilmente si può dire che egli mantenga la tesi della storicità, ma lui non la mette mai in discussione; egli semplicemente distrugge la biografia. Il signor Lester, d'altra parte, respinge con fiducia un centinaio di dettagli in quanto mito, affermando di presentare i vangeli “spogliati dal drappeggio di mitologia e liberati da tutte le finzioni dogmatiche”; [15] e tuttavia non meno fiduciosamente afferma un centinaio di cose “indubitabili”, in una maniera che quasi oltrepassa il signor Loisy.
Se, affrontato da procedure simili, il lettore critico domanda su che motivi è accettata la personalità storica, egli non ottiene alcuna risposta dall'abile scrittore anonimo, e dal signor Lester, in effetti, solamente la risposta che gli insegnamenti attribuiti a lui nei vangeli sono auto-certificati in quanto provenienti dal “Gesù” in cui lui crede, mentre gli altri sono rifiutati da lui poichè incoerenti con la sua concezione. Come al solito, la critica negativa è ragionata profondamente; la critica costruttiva è puramente arbitraria. Tuttavia il signor Lester è un critico amabile e — a parte la sua bizzarra animosità verso “la mente semitica” — [16] un critico temperato, animosamente interessato alla verità storica e lealmente opposto ad ogni tipo di clericalismo, antico e moderno. Ciò che dobbiamo chiederci da questi critici è che essi dovrebbero portare sulla loro assunzione biografica lo stesso metodo critico che essi recano sulla moltitudine di dettagli che li colpiscono come ovviamente non-storici. Respingendo i miracoli e una narrazione auto-contradditoria, essi affermano un Personaggio miracoloso e auto-contradditorio. Anche quella concezione dev'essere analizzata.
Il Gesù dei vangeli è al tempo stesso un Messia (con nessuna missione precisa come tale), un Dio Salvatore con cui si fonde il Messia indefinito, e un Dio Che Istruisce che si mescola ad entrambi. La scuola biografica, in generale, ipotizza un Maestro umano, attorno alla cui dottrina si è formata una concezione messianica combinata con una dottrina di salvezza mediante sacrificio di sangue. Se in questo intreccio non vi si può inserire il dettaglio storico del processo di fronte a Pilato, non è lasciato niente se non il dettaglio quasi-mitico della crocifissione come una base apparentemente storica per l'insegnamento messianico e di altro tipo, così tanto di cui è estraneo al culto primitivo, così tanto di cui deve essere assegnato criticamente a fonti ebraiche precedenti e contemporanee, e così tanto ad editori e compilatori gesuani più recenti. Quei laici che sono soddisfatti di attingere dai vangeli certi insegnamenti, come il Discorso della Montagna, e li chiamano “cristianesimo”, non hanno realizzato quanto completamente l'analisi documentaria abbia disintegrato gli insegnamenti nel materiale ebraico pre-gesuano e nel materiale gentile post-gesuano. La più recente analisi professionale, come abbiamo osservato, non lascia alcun “Insegnamento” gesuano, salvo un'escatologia, una dottrina di “cose ultime”, proveniente da un Messia visionario privo di un messaggio politico o sociale. [17] Il nucleo della scuola biografica, d'altra parte, si avvinghia in modo diverso a “qualcosa” nell'Insegnamento che sarà in qualche maniera commisurato all'“impressione” fatta dalla vita e dalla morte del Maestro, che, da Renan in avanti, essi considerano la vera genesi del mito della Resurrezione e del culto successivo. 
Avendo illustrato, allora, le potenti ragioni critiche per rifiutare come non-storico l'intera documentazione del triplice episodio della Cena, l'Agonia, e i Processi, [18] ci interessa mostrare (1) che il tutto è comprensibile solo come mito, e (2) come probabilmente sorse il mito. La sequenza culmina nella Crocifissione, che, col Sacramento, è per lo ierologo razionale come per il teologo ortodosso il centro del cristianesimo. A sua volta la scuola biografica si impegna a mantenere la storicità dell'evento, senza il quale non può spiegare la nascita del culto. Se allora la teoria mitica deve reggersi, essa deve mostrare che la narrativa centrale appartiene al reame del mito.

§ 2. Il Rito Sacrificale 

Nella documentazione cristiana, la Crocifissione è essenzialmente un sacrificio. “L'essenza del Sacramento non è semplicemente una partecipazione ad una coppa comune o ad un pasto comune, ma un festeggiamento circa un sacrificio . . . e questo si ritrovò dovunque tra ebrei e gentili”. [19] Quindi il termine “Eucarestia”, che significa “ringraziamento” o “offerta di grazie”, applicato nella Dottrina dei Dodici Apostoli al tipo di sacramento ivi indicato, e di là preso da Giustino e da altri Padri, è chiaramente un nome fuorviante per la cosa specificata nei vangeli. Del sacrificio evangelico, il sacramento è l'applicazione liturgica e simbolica. [20] Oppure, altrimenti, la crocifissione è il compimento della teoria del sacramento. Sulla vista della storicità della prima, o di entrambe, sarebbe necessario mostrare perchè la procedura esposta nei vangeli simulava così strettamente un sacrificio umano, e questo è tentato per puro caso di passaggio dal signor Loisy. La scena di derisione da parte dei soldati, egli dice, “fu forse collegata con qualche uso festivo pagano”. [21] Ma questo al tempo stesso ammette l'ingresso della teoria mitica, la quale afferma che è indicata una consuetudine ancestrale di una “festività”. Se Gesù fu condannato a morte per compiacere la moltitudine ebraica, com'è l'opinione perfino dei più distruttivi tra gli esegeti tedeschi recenti [22] — perchè la condanna a morte dovrebbe assumere una forma pagana? Il signor Loisy, che aveva in precedenza accettato come Storia il racconto dell'Ingresso a Gerusalemme, con l'acclamazione pubblica di Gesù come “il Figlio di Davide”, è impreparato a credere col critico tedesco che nel giro di una settimana la moltitudine gridò “Crocifiggilo!”; ed egli perciò elimina totalmente quell'elemento dalla sua bozza biografica. Egli implica, comunque, che il destino di Gesù fu deciso da Pilato per compiacere i sacerdoti, il che è altrettanto fatale alla tesi di una consuetudine festiva pagana. Egli accetta, inoltre, la scena della Derisione, senza nessun'apparente ragione critica, ma apparentemente al fine di stabilire una Storia che spiegherebbe la crescita successiva del culto. In questo processo l'importante episodio di Barabba è rifiutato da lui come non-storico. [23]
Quindi il critico più distintosi della scuola biografica non ha nessuna spiegazione da offrire per un secondo elemento importante nella documentazione che, essendo del tutto non-soprannaturale, si deve ritenere che sia stato inserito per qualche ragione forte. In realtà esso comporta da vicino l'intera teoria mitica. Barabba fu in tutta probabilità una figura regolare nella religione popolare semitica; e il nome si collega nei documenti con quello di Gesù. La lettura “Gesù Barabba” in Matteo 27:16, come abbiamo notato, [24] fu a lungo la lettura accettata nella Chiesa antica; e la sua introduzione e la sua scomparsa sono parimenti significative. È probabile ovviamente che questo nome “Gesù il Figlio del Padre” (= Bar-Abbas [25]), applicato ad un assassino, procurebbe non poca offesa ai primi lettori cristiani che avrebbe portato naturalmente nel tempo alla sua eliminazione dal testo corrente. [26] Ma su quella vista non c'è nessuna spiegazione della sua introduzione. Una simile pietra d'inciampo non poteva essere stato messa senza una ragione coercitiva.
I dati antropologici e ierologici vanno a mostrare che un sacrificio annuale di un “Figlio del Padre” fosse  un aspetto di lunga data nel mondo semitico. Un racconto in Filone Giudeo circa una pantomima ad Alessandria per ridere del re ebreo Agrippa, il nipote di Erode, punta abbastanza chiaramente ad una sopravvivenza ebraica locale di quella consuetudine. È detto che un folle di nome Karabas sia stato fatto sfilare come a finto re, con una finta corona, scettro e veste. [27] In tutta probabilità, la K è un errore di trascrizione per B. In ogni caso, “la pratica di sacrificare il figlio per il padre fu comune, se non universale, tra i popoli semitici” [28] come tra altri; e la Pasqua [29] fu originariamente un sacrificio di primizie, umane e animali, [30] le prime essendo probabilmente più prevalenti in tempi di disastro. “Devozione” era il principio: sacrifici sostituti sarebbero sostituiti normalmente. Il sacrifico del figlio di un re, in particolare, fu ritenuto di schiacciante efficacia dagli antichi ebrei e da altri semiti, come tra altre razze nelle fasi selvagge e barbariche. [31]
Non c'è niente di peculiare ai semiti  nella consuetudine generale o nella particolare, poichè in entrambi i casi era quasi universale una volta; ma è ai semiti che siamo interessati specialmente qui. La storia di Abramo e Isacco, per non dire nulla di quella della figlia di Jefte, è un indicatore nell'evoluzione della religione, che è in maniera deducibile un mito umano per promuovere la sostituzione di un sacrificio animale al posto di un sacrificio umano. E il mito fenicio di “Ieoud”, l'“unigenito” figlio di Re Crono, “che i Fenici chiamano Israele”, sacrificato da suo padre al tempo di un pericolo collettivo, dopo essere rivestito nella veste di regalità, [32] punta verso le radici storiche del cristianesimo. Di nuovo e di nuovo incontriamo la concezione dell'“unigenito” “Figlio del Padre” - Padre Abramo, Padre Crono, Padre Israele, il Padre-Re - come un sacrificio speciale nella storia ebraica e in altre storie semitiche. Crono è un Dio semitico: e in connessione con le Saturnalia romane noi abbiamo il ricordo di un oracolo greco che comanda di “mandare un uomo al Padre” — cioè, a Crono.  [33]
Quel che è certo è che i sacrifici di re, che erano normali ad una fase dell'evoluzione sociale, [34] tendevano inevitabilmente ad assumere altre forme tribali o comuni; e una moltitudine di riti preservarono chiari segni dell'origine regale. I re inevitabilmente avrebbero passato il loro originario tragico fardello; la comunità, legata alla preservazione del sacrificio, lo alterò a sua volta. [35] Si sentiva, deve essere stato sentito, che un sacrificio di qualche tipo, doveva scongiurare l'ira divina: [36] quella convinzione risiede alla base della religione cristiana come della religione ebraica: è fondamentale ad ogni religione primitiva; ed è fortunatamente al di là del nostro potere realizzare se non simbolicamente l'incommensurabile sterminio umano che ha comportato la convinzione religiosa.
Principalmente, erano desiderate vittime volontarie; e nella storia romana e giapponese ci sono testimonianze generali o speciali del loro farsi avanti, annualmente o in momenti di emergenza. [37] Anche nel caso di un sacrificio animale, i romani avevano l'espediente di porre orzo nelle orecchie della vittima per far chinare la sua testa come se fosse in sottomissione. [38] Ma riguardo ai sacrifici umani, che erano sentiti specialmente efficaci, il cambiamento da vittime volontarie a vittime costrette fu inevitabile; e dalla varietà delle forme di sacrificio umano, per cui in certe fasi prigionieri di guerra e schiavi fornivano una vasta proporzione delle vittime, noi selezioniamo in particolare quella dell'evoluzione dal capro espiatorio volontario o re o messaggero sacrificato, tramite la vittima “comprata con un prezzo”, al criminale liberato oppure un'altra persona rassegnata o disperata corrotta con un periodo di libertà e abbondanza per morire per la comunità al suo termine. 
  In molti casi se non nella maggior parte, una deificazione della vittima fu implicata nella teoria, dato che la vittima veniva abitualmente identificata con il Dio. [39] Così era in certi sacrifici speciali nel Messico pre-cristiano. [40] Così era nei sacrifici umani dei Khondi di Orissa, che perdurarono fino a circa la metà dell'ultimo secolo. [41] Nell'ultimo caso, di cu abbiamo una documentazione precisa, le vittime annuali venivano prese da famiglie devote tramite acquisto alla funzione, oppure venivano comprate da bambini e allevati allo scopo.  Quando assegnati definitivamente, ai maschi era permessa assoluta libertà sessuale, dato che erano considerati già automaticamente deificati. La vittima era infine uccisa “per i peccati del mondo”, ed era dichiarata liturgicamente un Dio nel processo.
Questi riti gradualmente si ridussero in comunità innovatrici da assassini rituali a misteri o mascherate rituali; anche come sacrifici umani in generale, in più parti del mondo, si ridussero da corpi a parti di corpi, dita, capelli, prepuzi; da vittime umane a vittime animali; [42] da animali più grandi ad animali più piccoli; da quelli a uccelli; da animali reali a modelli di terracotta o argilla, frutta, grani, covoni di giunchi, figure, carta o altri simboli. Sembra che di solito siano stati re o capi umani ad imporre la modifica ai sacerdoti. E come con la vittima, così con il pasto sacramentale che accompagnava così tanti sacrifici. I sacramenti cannibali erano una volta, probabilmente, universali: essi sono sopravvissuti fino a tempi recenti in certe regioni; ma col progresso della civiltà presto e inevitabilmente tendono a diventare meramente simbolici. In Messico all'avvento di Cortés, sussistevano entrambe le forme cannibali e simboliche  — le prime sotto limiti convenzionali; le seconde nella pratica di mangiare un'immagine di terracotta che era stata sollevata su una croce e là trafitta, per una santificazione. [43] Questo “Mangiare il Dio” era davvero decisamente un sacramento; ma così lo erano i sacramenti cannibali che lo precedettero.
Esaminando l'evoluzione generale raggiungiamo la conclusione che da qualche parte in Asia Minore sussisteva un culto o culti prima della “nostra era” in cui un “Figlio del Padre” era sacrificato annualmente sotto l'una o l'altra delle categorie di sacrificio umano — Capro espiatorio, Primizia rappresentante, Dio di Vegetazione, o Messaggero; eventualmente in qualche caso sotto tutti e quattro gli aspetti fusi in uno solo. L'usanza potrebbe o non potrebbe esser sopravvissuta nella Gerusalemme dopo l'Esilio: molto probabilmente sopravvisse, infatti non solo i Testi Sacri ammettono una costante attrazione popolare e legale per le pratiche “pagane” di sacrificio umano [44] ma il costume religioso ebraico preserva in una varietà di forme una chiara prova di istituzioni di sacrificio umano che non sono riconosciute nei Testi Sacri. [45]
In ogni caso, in connessione col culto o rito particolare in questione vi permaneva anche un'Eucarestia o Sacramento o Santa Cena, simile ai sacramenti dei culti di Mitra, Dioniso, Attis, e molti altri Dèi. [46] In un periodo remoto era stato strettamente cannibale: nel corso del tempo, diventò simbolico. In altre parole, originariamente la vittima sacrificata era divorata sacramentalmente; nel corso del tempo la cosa mangiata fu qualcos'altro, con al più una formula rituale di “corpo e sangue”. Ad una certa fase, se per costrizione regale o d'altro tipo oppure per scelta dei devoti, il rito annuale del sacrificio diventò un mero rituale o Dramma Misterico — come in altri casi diventò una mascherata pubblica. La prima evoluzione è sottostante alle religioni di Dioniso, Osiride, Adone, e Attis: quest'ultima potrebbe o non potrebbe esser perdurata accanto alla precedente.
Ciò che emerge dal racconto evangelico riguardante Barabba e Gesù è non solo che non accadde un episodio simile: qui la teoria mitica è concorde col signor Loisy, che in effetti dichiara un mito il racconto; ma che nella prima età del cristianesimo il nome “Gesù Barabba” fu ben conosciuto, e stava per qualcosa di ben conosciuto. Era certamente conosciuto dagli ebrei, poiché abbiamo una menzione talmudica, risalente ad un periodo appena posteriore alla caduta del Tempio, che ci fu un rituale ebraico “Settimana del Figlio, o, come la chiamano alcuni, Gesù il Figlio, in connessione con la circoncisione e la redenzione del bimbo primogenito. [47] Dalla deduzione della diffusione del nome non c'è via di fuga: associato ad un ladro e assassino esso non poteva mai esser entrato altrimenti nei vangeli. E la teoria mitica può fornire la spiegazione che né la teoria ortodossa e neppure la teoria biografica possono produrre. Noi abbiamo una prova esterna che un sacrificio di un “Figlio del Padre” fosse consueto in parti del mondo semitico. Ciò che la storia evangelica prova è che fu conosciuto essere stato una pratica, o a Gerusalemme oppure altrove, rilasciare un prigioniero alla moltitudine in connessione ad una festività popolare, che poteva o non poteva essere stata la Pasqua. La liberazione potrebbe esserci stata allo scopo o di una mascherata religiosa oppure di un sacrificio. Ad ogni modo, il rito religioso coinvolto fu un rito di “Gesù Barabba” — Gesù il Figlio del Padre — e comportava o un vero sacrificio oppure un finto sacrificio, in cui il “Figlio” figurava come un finto re, con una veste e una corona.
Più il problema è considerato, allora, più chiara diventa la soluzione. Non appena il culto di Gesù raggiunse la fase di propaganda in cui descriveva il suo Dio-Figlio mentre doveva morire, in circostanze di ignominia, come un sacrificio espiatorio, esso sarebbe andato incontro alla memoria del vero rito di Barabba. Dato che la vittima Barabba era ritualmente flagellata e “crocifissa” (un termine che non è ancora stato indagato), segue che dovunque l'antica propaganda [48] procedette in aree in cui sopravviveva la memoria del rito, ai cristiani sarebbe stato detto che il loro Gesù il Figlio fu semplicemente il Gesù Barabba di quel rito popolare; e la sola maniera possibile — o almeno la migliore — per scavalcare l'incriminazione fu inserire una narrativa che ridusse il Gesù Barabba del rituale regolare ad un singolo personaggio, un criminale che la corrotta moltitudine ebraica aveva scelto di salvare invece del Gesù senza peccato del culto. Nelle circostanze date essa fu un'invenzione assolutamente necessaria; e nessun'altra circostanza poteva concepibilmente averla resa necessaria. La storia, per l'ammissione riluttante del signor Loisy, che conserva qualsiasi cosa egli pensa di poter criticamente mantenere della documentazione, è un mito; ed è un mito che sulla teoria biografica non può essere spiegato. La teoria mitica lo ha spiegato. Quanto alla scomparsa del “Gesù” dal nome di Barabba nei documenti, essa difficilmente ha bisogno di una spiegazione.  Quando la memoria dell'antico rito annuale si estinse dalla conoscenza generale, la soppressione del “Gesù” sarebbe stata desiderabile parimenti per i colti che ancora sapevano e per gli incolti che non sapevano. [49]

§ 3. Elementi Contingenti

È inutile per il difensore della teoria biografica interporre una protesta che la storia di Barabba sia solo un elemento nel caso. Gli altri elementi saranno tutti condotti a loro volta: quello è stato posto di fronte a causa del suo significato cruciale. Casualmente si potrebbe notare ulteriormente che la teoria mitica spiega l'elemento chiaramente non-storico dei “trenta pezzi d'argento”, spiegati confusamente da “il profeta Geremia” come “il prezzo del venduto, che i figli di Israele avevano mercanteggiato” (Matteo 27:9). Il riferimento è in realtà a Zaccaria (11:12-13).
La storia del Tradimento è una finzione sulla stessa superficie del racconto, dove Giuda è impiegato per indicare un personaggio di dichiarata notorietà, circa i cui movimenti non c'era stata nessuna segretezza. [50] Giuda è manifestamente una figura alquanto recente nella leggenda evangelica, proveniente dal più recente Dramma Misterico, non dal rito sul quale fu costruito. Ma, qualunque potrebbe essere la soluzione del crittogramma circa il campo del vasaio e i trenta pezzi d'argento in Zaccaria, oppure il fatto storico circa Aceldama, una cosa è chiara: “il prezzo di lui che fu comprato” in Matteo, parla dell'usanza di pagare un prezzo per vittime sacrificali.
Non segue che un prezzo fosse pagato regolarmente nel caso del rito di Gesù Barabba, sebbene la documentazione in realtà insiste sull'elemento in virtù della storia di Giuda: ciò che è chiaro è che una memoria di vittime acquistate sopravvisse dopo la caduta di Gerusalemme. Non è improbabile che “Aceldama” fosse un campo dove le vittime sacrificali erano o uccise o seppellite, o entrambe le cose. Un passo nel Kalika Purana suggerisce la procedura, e il significato probabile di Golgota, il “luogo di teschi”. Nel rito indù, la vittima umana fu immolata “presso un cimitero o luogo santo” su cui il sacrificatore non doveva guardare; e la testa fu presentata nel luogo di teschi, sacro a Bhoiruvu” (Dio di Paura). Questo poteva essere un tempio speciale, o in una parte del cimitero, “oppure su una montagna”. [51]
A questo punto un avvertimento deve essere dato contro la confusione introdotta dall'assunzione abituale che “qualcosa del genere” capitò sotto Ponzio Pilato. Non è solo sulla teoria biografica che quella data è valida. Ponzio Pilato è semplicemente una figura nel più recente Dramma Misterico, originariamente scelto, probabilmente, a causa della sua notorietà come uno spargitore di sangue ebraico. [52] Noi non siamo vincolati a provare che alla sua data l'usanza del sacrificio umano rituale, reale o pretesa, sopravvisse a Gerusalemme, sebbene poteva averlo fatto, dato che sopravvisse a Rodi nel tempo di Porfirio nella forma, forse, di un dramma misterico semitico. [53]
È l'assunzione della storicità della Crocifissione che disarma parzialmente il teorema di Sir. J. G. Frazer riguardo una coincidenza di riti sacrificali ebraici. [54] Notando che i dettagli della Crocifissione si conformano strettamente a quelli di un sacrificio umano a volte praticato nell'era cristiana in connessione con i Saturnalia romani, e anche a quelli di un rito reale oppure finto connesso con la festa babilonese delle Sacee, egli ricorre alle ipotesi alternative (a) che l'analoga festa ebraica di Purim, importata da Babilonia dopo il Ritorno, e che comporta a sua volta una crocifissione reale oppure una finta, capitò di coincidere con la reale crocifissione del Gesù evangelico; o che (b) una tradizione cristiana “spostò la data della crocifissione di un mese o così” per connetterla con la Pasqua. Siccome al rito ufficiale di Purim, sebbene parente a quello della Pasqua, non può essere stato proprio permesso di coincidere con esso, la tesi di una coincidenza è sterile; e il teorico è assicurato da un collega esperto che “tutto ciò che sentiamo della Passione è solo spiegabile dalla festività di Pasqua”, e che “senza lo sfondo della festività tutto ciò che sappiamo della Crocifissione e di ciò che vi condusse è totalmente incomprensibile”. [55] Quando, comunque, si realizza la natura non-storica del racconto evangelico, queste difficoltà scompaiono. L'intenzione fu certamente connettere la Crocifissione con la Pasqua (in cui l'agnello pasquale — che simboleggia Isacco — fu solitamente rivestito nella forma di una croce [56]) e nel quarto vangelo Gesù diventa un vero sacrificio di Pasqua. Ma il racconto è semplicemente una riduzione ad una forma storica della procedura di un abituale sacrificio rituale, usanze consuete di sacrificio umano che sono rappresentate come istanze di una singola condanna a morte romana.  Con l'esatta data stagionale del rito di Gesù Barabba che qui motivò la leggenda evangelica, la teoria mitica non è interessata principalmente, sebbene ha un interesse secondario. Esso fu probabilmente una Festività Primaverile, e allo stesso tempo una Festività dell'Anno Nuovo, dato che il periodo dell'equinozio invernale era stato sia in oriente che in occidente il tempo del Nuovo Anno prima che fu collocato dopo il solstizio d'inverno. È quindi altamente probabile che ci fossero analoghe festività sacrificali nel periodo natalizio e a Pasqua, una che celebrava la nuova nascita del Sole e l'altra la rinascita della vegetazione. La festa delle Sacee potrebbe o non potrebbe essere stata identica a quella conosciuta dai monumenti per essere stata chiamata il Zagmuk [57] (Nuovo Anno): ad ogni modo, le caratteristiche potrebbero essere state le stesse. Ci fu in Giudea, inoltre, un anno ieratico come pure uno civile, una Pasqua Minore come pure la maggiore. [58] La teoria mitica non dipende su una data riconosciuta, sebbene il mito  fissa una data astronomica, a sua volta costantemente variabile nel calendario.
Ciò che salta agli occhi è che la leggenda evangelica preserva due aspetti separati della festività di un Finto Re Sacrificato, che come episodi nella vita del Maestro sono totalmente incompatibili, e che la teoria biografica non può spiegare in maniera ragionevole — l'Ingresso acclamato e benvenuto a Gerusalemme e nel giro di una settimana la richiesta della crocifissione da parte della moltitudine della città. L'Ingresso è un'elaborazione di numerosi elementi mitici, ma contiene l'elemento della cavalcata acclamata del quasi-re, montato su un asino (o due asini). Se la scuola biografica considerasse solo le probabilità storiche, si renderebbero conto che la storia come raccontata non può essere storica, con o senza la strana antitesi della rapida richiesta da parte della moltitudine della morte del profeta. Questo ingresso trionfale, per un personaggio come il Gesù evangelico, non può esser accaduto spontaneamente: deve essere stato pianificato; e, se disposto con un effetto simile come descrive la documentazione, avrebbe dato a Pilato un motivo davvero sufficiente per intervenire senza aspettare un'accusa dai sacerdoti. Preso come Storia, esso è totalmente inconciliabile con il “Crocifiggilo” attribuito ad una moltitudine il cui sostegno a Gesù era stato affermato il giorno prima; e coerentemente il signor Loisy, accettando l'Ingresso, respinge l'ultimo episodio. Strauss, esitando a procedere, “come si è spesso fatto recentemente”, fino al rifiuto dell'Ingresso sull'asino come totalmente mitico, lo trova molto così; [59] e Brandt lo respinge casualmente in quanto “sotto il sospetto più forte di essere fabbricato su motivi dell'Antico Testamento dal principio alla fine.” [60]
Quindi la stessa scuola biografica fornisce una teoria mitica, senza indicare un motivo esplicativo per postulare una contraddizione. Ma quando realizziamo che un'acclamazione di un finto re che cavalca su un asino fu veramente parte del rituale in un rito sacrificale in cui egli doveva essere crocifisso, i due elementi in conflitto nella leggenda sono di colpo spiegati nella piena teoria mitica. La loro gestione e il loro sviluppo separati furono, proprio altrettanto comprensibilmente, parte del processo di fabbricazione del vangelo, la creazione di un Gesù ideale. Ma vedendo che nella festività delle Sacee il finto re aveva un regno di cinque giorni tra il suo inizio e la sua morte [61] il rituale originale fornì l'intervallo che nella storia evangelica è colmato dagli atti del Dio che Insegna. Cinque giorni è l'intervallo tradizionale accettato da Domenica delle Palme fino al Giorno della Crocifissione.
[Anche per l'elemento dei due asini in Matteo c'è una spiegazione mitica. Molti scrittori della scuola biografica, che compensano sé stessi per le loro difficoltà attribuendo una stupidità particolarmente grossolana agli apostoli ed evangelisti ad ogni opportunità, decidono che il narratore o interpolatore postulò i due asini, un asino e il suo puledro, perchè egli trovò in Zaccaria una predizione messianica così espressa, [62] e non compresero che l'idioma ebraico significava semplicemente “un asino”. Tuttavia un membro della scuola, il dottor Conybeare, denuncia aspramente i teorici del mito per aver preteso di comprendere il simbolismo ebraico meglio di quanto fecero gli ebrei. Ciascun principio serve alla svolta. Quando Tertulliano dice che Gesù è il Pesce Divino perchè i pesci erano nati mediante partenogenesi, e Gesù nacque di nuovo nelle acque del Giordano, il dottor Conybeare è sicuro della sapienza di Tertulliano. Questa tesi, trovata la prima volta in Tertulliano, deve decidere la questione, ad esclusione di ogni riflessione sul fatto che il Sole a Pasqua era passato prima dell'era cristiana dal segno dell'Ariete al segno dei Pesci nello zodiaco. Ma quando Matteo legge i due asini di Zaccaria a significare due asini, Matteo dev'essere rifiutato come un ebreo che non comprese il più comune idioma ebraico.
Il semplice fatto che la Septuaginta non offre la duplicazione, ponendo solo “un giovane puledro”, servirà a indicare ad ogni lettore attento che l'evangelista o l'interpolatore stava seguendo la Bibbia ebraica, e perciò si deve presumere che egli ha conosciuto qualcosa dell'idioma ebraico. E la conclusione davvero critica è che entrambi i passi avevano considerato la figura zodiacale dei Due Asini per il segno del Cancro, da cui abbiamo il mito di Bacco che cavalca due asini. [63] Inoltre, è probabile che il passo simile nel Cantico di Giacobbe [64] Quei dettagli, che il dottor Conybeare trattiene assolutamente dai suoi lettori, indicano l'induzione mitologica posta dal presente scrittore. In una incongrua sentenza, dottor Conybeare sembra sostenere [65] che per assicurare qualche considerazione per questa tesi noi dobbiamo “provare che i più antichi cristiani, che erano ebrei, devono essere stati familiari con la rara leggenda di Bacco che attraversa una palude su due asini” e “con la rara rappresentazione del segno zodiacale del Cancro come un asino e il suo puledro”.
Come sa il critico che la leggenda fosse rara al principio dell'era cristiana egli non lo rivela; non più di quanto egli dà la sua giustificazione per definire raro il segno degli Asini alla faccia della dichiarazione di Lattanzio che i greci chiamano il segno del Cancro “(gli) Asini”. Questo riferimento fu dato da me, come anche l'elemento che il segno dell'Asino e Puledro è babilonese. Era quindi davvero probabile che sia conosciuto nel mondo semitico. Tuttavia il dottor Conybeare inconsapevolmente ci informa che “è quasi impossibile” che esso doveva essere conosciuto ai “cristiani più antichi” quando nel frattempo egli sta argomentando che Matteo non fu il vangelo dei “cristiani più antichi”. È in perfetta sintonia con questa procedura caotica che egli prima in modo oracolare mi riporta ad Igino, la cui versione del mito di Bacco e gli asini io avevo in realtà citato e menzionato; e poi, scoprendo che io avevo fatto così, tuttavia lasciando inalterata la sua esortazione scritta, annuncia che “per stessa ammissione del signor Robertson, Bacco non montò mai su due asini”. È difficile esser sicuri se il dottor Conybeare creda o meno alla storicità di Bacco, come egli crede a quella di Gesù; ma vedendo che Lattanzio, come da me citato, dichiara espressamente che i due asini (=Cancro) trasportarono Bacco attraverso la palude, e che il dottor Conybeare ha già riconosciuto che esisteva questo mito, la sua assurda conclusione può essere attribuita soltanto alla sua incoerenza abituale.
Io ho trattato in dettaglio la sua critica inutile a questo punto al fine di porre in guardia il lettore contro il metodo di millanteria. La mitologia comparativa è un campo spinoso e difficile, ma deve essere esplorato; e il dottor Conybeare, il cui studio sul soggetto sembra aver cominciato nell'anno della pubblicazione del suo libro, [66] neppure discerne la natura dei suoi problemi. Egli apertamente suppone che i totem siano Dèi; e sostiene che il mondo ebraico ed ellenistico nell'età di Augusto fosse alla fase mitopoietica degli aborigeni australiani di oggi. Dei fenomeni del mito iconografico egli è evidentemente piuttosto ignorante; e il suo ditirambo sul mito solare non ci dice nulla se non un obsoleto dibattito sulla questione. Ed è in questa connessione che egli informa i suoi antagonisti nella sua maniera accademica ora celebrata, che essi sono “un numero arretrato”.  
Dev'essere solamente aggiunto che per quanto riguarda il problema documentario, il dottor Conybeare è egualmente distratto. È lungi dal certo che a questo punto il “puledro” di Marco non sia una “correzione” di un originale che Matteo accettò. L'assunzione — respinta da loro stessi —  che Marco e Matteo come noi li abbiamo sono entrambe forme primarie, con Matteo che segue sempre ed elabora Marco, è una delle vaghe ipotesi che questi critici quando conviene loro prendono per certezze. Ma la questione della priorità della forma non influenza la questione fondamentale. Una delle suggestioni da me avanzate che il dottor Conybeare ha nascosto accuratamente ai suoi lettori — se, in effetti, egli vede mai realmente ciò che gli è di fronte — è che l'elemento del singolo asino o puledro è probabilmente un mito con un'altra base. “Un asino legato”, sembra esser stato un simbolo egizio che punta ad una data solare oppure ad un mito zodiacale o d'altro tipo, [67] e questo simbolo, che è trovato nel Cantico di Giacobbe, è la forma posta sulla storia di Marco da Giustino Martire. Che l'altro simbolo avesse una lunga moda cristiana è indicato per prima dal fatto che vi esiste realmente una gemma gnostica che mostra un asino che allatta il suo puledro, con sopra la figura del granchio (Cancro), e l'inscrizione D.N. IHV. XPS., DEI FILIUS = Dominus Noster Jesu (?) Christus, Figlio di Dio; [68] e, secondariamente, dalla menzione dell'asino e puledro nel terzo Sermone di San Proclo (quinto secolo). [69] Anche quei dettagli Dr. Conybeare nasconde ai suoi lettori, per gli obiettivi della sua polemica.
Che noi stiam trattando un conflitto di simbolismi sarà probabilmente la conclusione di quelli che affronteranno i fatti. Ma il dottor Conybeare, che qui è in buona compagnia, è piuttosto soddisfatto che dietro la storia di Marco di un Gesù che cavalca in una processione rumorosa su un puledro noi abbiamo una Storia indiscutibile. Non ci dev'essere nessun'assurdità circa due asini; ma per lui la storia del puledro non solleva nessuna difficoltà. Egli esemplifica ulteriormente il problema sintetizzando Marco come a dire che “una insignificante dimostrazione trionfale è organizzata per lui [Gesù] appena entra nella città sacra su un asino”; [70] e spiegando che “non c'era nessun'altra maniera di entrare in Gerusalemme a meno di non andarvi a piedi”. [71] l'“insignificante” è ritenuto sufficiente per liquidare il problema della totale indifferenza del Governatore romano nei confronti del movimento messianico. Così funziona il metodo biografico, nelle mani del nostro accademico.
Nel frattempo, l'elemento del puledro è, sulla sua interpretazione personale, un compimento specifico di una profezia, solo che in questo caso la profezia è a suo avviso interpretata correttamente, laddove nella storia dei due asini essa fu fraintesa. Col suo metodo personale, il critico è impegnato alla posizione che la frase “sul quale nessuno è mai salito” è mito. [72] Per seri critici in generale, questo è sufficiente a porre in dubbio l'intera storia. Per il nostro critico, una storia di una processione trionfale, con un puledro, è semplicemente risolta in una storia di un'“insignificante processione”, con un comune asino. Quindi, sotto la pretesa di estrarre Storia da un dato documento, il documento è semplicemente manipolato a volontà per convenire ad una presupposizione. Su questo piano, le dodici fatiche di Ercole sono semplicemente Storia esagerata, ed ognuno può realizzare a suo piacimento qualsiasi Vita di Eracle a partire da ciò. Non dobbiamo dire che Una andò su un leone, ma potremo concludere che lei montò su un piccolo pony giallo. È il metodo dei primi razionalisti deisti tedeschi, secondo cui la storia di Gesù che cammina sulle acque è salvata tramite la spiegazione che stava camminando sulla riva.]
Parte della dimostrazione della teoria mitica, di nuovo, risiede nel fatto che il primo atto di Gesù dopo il suo ingresso è scacciare quelli che vendevano e comperavano nel tempio e rovesciare i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe. Che questo dovesse essere stato realizzato senza resistenza sembrò ad Origene così impressionante che lo dichiarò tra i più grandi miracoli di Gesù, [73] aggiungendo il commento scettico — “se realmente accadde”. La teoria mitica potrebbe rivendicare qui il sostegno di Origene.
Strauss non poteva trovare nessuna ragione per respingere la storia come mito sul suo metodo di trovare motivi mitici solo nell'Antico Testamento. Se egli fosse vissuto al nostro giorno egli probabilmente avrebbe concordato che l'episodio è scelto dai tipi di imprese che erano permesse alla vittima durante le Sacee e i Saturnalia e simili festività sacrificali primitive in generale, e convertite ad un resoconto dottrinale. Queste libertà come sono descritte, sfiorando tutte quasi il sacrilegio, sono tra quelle che potevano accadere normalmente. È per via di un anti-giudaismo che l'episodio è utilizzato nei sinottici.
Nel quarto vangelo, dove così tante materie sono convertite ad un nuovo resoconto, e così tanta nuova dottrina è introdotta, la purificazione è posta con un obiettivo simbolico al principio della carriera del Messia, in una visita a Gerusalemme di cui i sinottici non ne sanno nulla; e in questo mito Gesù fauna frusta di cordicelleper effettuare il suo obiettivo. Questo elemento più recente fu probabilmente suggerito dall'effigie del Dio Salvatore egizio Osiride, che porta una frusta in quanto il Dio di retribuzione. Nei sinottici non c'è nessun simbolo: la storia è semplicemente impiegata come parte del sovraimposto artificio didattico che a fasi alterne esibisce il pieno sviluppo del Messia e l'inidoneità della “dispensazione ebraica” a continuare. In modo deducibile, la storia dell'albero di fico è nello stesso caso, a significare la condanna del culto ebraico, sebbene qui potrebbe esserci un motivo concreto di cui noi abbiamo perduto l'indizio. Ma è significativo che mentre il documento evangelico non poteva eventualmente assegnare al santo Messia un corso generale come quello seguito dalla vittima sacrificale autorizzata, fa seguire la storia del suo Ingresso con quella di un atto marcatamente disordinato; dopodiché egli va a dimorare a Betania (Matteo 21:17) ad una casa che più tardi è indicata come quella di un lebbroso (26:6). Là il suo capo è unto da una donna; che in Luca, in un episodio collocato diversamente (7:37), diventa “una peccatrice”. Non è questa un'altra eco dell'oscura tragedia della vittima sacrificale, che veniva unta per il suo destino?

§ 4. Il Rituale del Finto Re

Considerata separatamente, la Crocifissione nella storia evangelica è tanto impossibile quanto l'Ingresso. La croce, ci è detto, fu intestata con un'iscrizione: “Costui è il re degli ebrei”. Sir J. G. Frazer [74] e il signor Salomon Reinach [75] concordano nel riconoscere che se la vittima fosse stata realmente condannata a morte con l'accusa di aver fatto una pretesa simile, nessun governatore romano avrebbe osato approvarla così. [76] L'argomento è che solo trasformando la condanna a morte in una celebrazione di un rito popolare la procedura poteva essere stata resa ufficialmente accettabile. Ma estrarre questa spiegazione dalla documentazione equivale semplicemente a invalidarla come tale. Se vi accadde realmente questa manipolazione della scena del decesso di un adorato Maestro, come potevano fallire i narratori alla fine di dire così tanto? Ci viene chiesto dalla scuola biografica di credere che la Crocifissione fosse una tragedia-farsa che tratta il Maestro come la vittima in un rito ben noto di sacrificio umano, e anche di credere che i devoti che preservarono il ricordo, sapendo questo fatto, scelsero di non dire nulla circa di esso, preferendo rappresentare la procedura come un unico episodio.
Si sarebbe forse potuto sostenere, sull'ipotesi biografica, che i soldati romani, che si ritiene fossero stati asiatici, scelsero di improvvisare una versione del rito sacrificale che fosse sconosciuto ai seguaci di Gesù, e che quest'ultimi semplicemente riportarono l'episodio senza comprenderlo, interpretandolo dai loro profeti nella loro maniera personale. Ma se il ricordo è storico è incredibile che in un culto che si pretende abbia fatto molti adepti per tutto l'Impero romano in oriente e in occidente in una generazione o due, non si sarebbe presto saputo che la procedura della Crocifissione fosse una copia di riti popolari orientali e occidentali di un sacrificio umano. Se vi fosse successo ciò che suggerisce l'ipotesi, ci fu una deliberata soppressione. Cioè per dire, la credibilità del racconto è a questo punto messa essenzialmente in discussione da un sostenitore della teoria biografica, che si basa espressamente sul racconto per quanto riguarda i dati non-miracolosi.
E mentre da una parte esso è in effetti accusato della più grave suppressio veri, d'altra parte esso è accusato, egualmente nel nome dell'ipotesi biografica, di qualcosa di più di una suggestio falsi, di finzione assoluta. Il signor Loisy non rifiuta semplicemente come non-storica la storia di Barabba, non offrendo alcuna spiegazione della sua strana presenza: egli va criticamente alla conclusione che Gesù sulla croce non emise nessuna parola, se di disperazione, supplica, o rassegnazione. Non abbiamo bisogno di chiedere che genere di credito il signor Loisy possa esigere per una documentazione che egli quindi discredita così gravemente. La domanda scientifica è, Su quali basi egli può obiettare all'estensione di una teoria del mito alla quale egli contribuisce così? Se la documentazione per ammissione comune inventò detti per il Mastro sulla croce, perché non dovrebbe essere un'invenzione il tutto? In particolare, perché non dovrebbero essere invenzioni il processo di fronte a Pilato e l'iscrizione sulla croce?
L'iscrizione sulla croce, osserviamo, è impossibile per il grande antropologo della scuola se non come parte di un rituale simulato. Il signor Loisy, sostenendo la stessa tesi generale, dichiara che “dire che Gesù non fu condannato a morte come re degli ebrei, cioè per dire, come Messia, per la sua stessa confessione, equivale a dire [autant vaut soutenir] che egli non è mai esistito.” [77] È addirittura così; e il sostenitore della teoria mitica è quindi giustificato doppiamente. La corretta deduzione è, non che in ogni rito di sacrificio umano  fosse affissa esattamente tale etichetta al patibolo, ma che probabilmente qualche etichetta lo fu, e che i fabbricatori del vangelo (oppure uno di loro) “inventò” un'etichetta che dichiarò la loro pretesa per Gesù come Messia. Fu una cosa chiaramente abile da fare, rappresentando l'etichetta come una ingiuria romana, e perciò rendendola un appello ad ogni ebreo. [78]
È concepibile in effetti che i soldati romani che presero parte, una volta tanto, al rito di Gesù Barabba, potrebbero aver trasformato quello a scopo di disprezzo etichettando il povero finto re come il re degli ebrei. Ma questo episodio non sarebbe l'attuazione della scena descritta nella documentazione. Sarebbe semplicemente un suo suggerimento, la cui accettazione non fu che un elemento di finzione in più.
Che la Crocifissione, come descritta, sia un normale atto di sacrificio umano rituale, è anche più vero di quanto si rivela esserlo dai paralleli  delle Sacee e dei Saturnalia. La flagellazione, la veste regale, la finta corona, erano tutte parti di quei rituali, che quindi si conformano in parodia al rituale del sacrifico mitico di Ieoud, figlio di Crono, fatto sfilare probabilmente nel rituale per la vittima sacrificata a Crono a Rodi. Ma così lo sono il sorso di vino e aceto, lo spezzare le gambe, e il passare per la spada. La corona è un aspetto di ogni sacrificio antico, in tutte le parti del mondo. Corone di fiori erano normali nel caso di vittime umane, in India, in Messico, in Grecia, e tra gli indiani del Nord America, come nel comune sacrificio animale tra i greci, romani, e i semiti. Ma anche la corona di spine aveva una speciale moda religiosa in Egitto, dove corone erano procurate come tali da alberi di spine presso Abido i cui rami si incurvavano a forma di ghirlanda. Anche Prometeo il Salvatore riceve da Zeus una corona di vimini; e i suoi adoratori indossavano corone in suo onore. [79] O alcuni di questi motivi speciali oppure la pratica comune nel rito popolare renderanno conto della documentazione.
E quelli elementi del rituale del finto re escludono l'argomento che si potrebbe eventualmente portare  dal fatto che nel mondo antico, come tra i primitivi in generale, tutte le condanne a morte, come tali, tendono ad assumere una forma sacrificale. Il criminale condannato è “dedicato”, sacer, tabù, proprio in quanto è semplicemente la vittima sacrificata, diventando l'appannaggio del Dio poiché è il rappresentante di Dio che è sacrificato per il Dio. [80] Si potrebbe perciò sostenere che un uomo condannato per motivi puramente politici avrebbe potuto essere trattato come una vittima sacrificale. Ma non c'è nessun esempio del criminale condannato a morte come tale che viene trattato come il finto re. Un criminale poteva essere trasformato a quello scopo, ma ciò sarebbe per disposizione speciale: condannato a morte semplicemente come un criminale, egli non sarebbe stato incoronato e addobbato in modo regale. Quei dettagli erano aspetti di sacrifici specifici: condanne a morte erano sacrificali solo in senso generale, e non erano naturalmente onorarie in alcuna maniera. Nella storia evangelica, i due ladri non sono né derisi, né addobbati, e neppure incoronati. Essi non sono “Figli del Padre”, o sostituti del Re.

§ 5. Aggiunte Dottrinali

Qui si solleva il quesito, comunque, se la triplice condanna a morte fosse un rito consueto. Dato che tutte le condanne a morte sono, come detto sopra, quasi-sacrificali, una comune condanna a morte poteva plausibilmente venir combinata con un sacrificio specifico. Si deve osservare che nessuna menzione della triplice condanna a morte capita al di fuori dei vangeli: gli Atti e le Epistole non vi fanno alcuna allusione. È quindi in maniera plausibile, come fu suggerito da Strauss, un'aggiunta posteriore al mito, motivato dal verso ora scartato come spurio da Marco (15:28), ma preservato in Luca (22:37): “Deve compiersi questa parola della scrittura: E fu annoverato tra i malfattori”. Ma siamo indotti a considerare la possibilità che la triplice condanna a morte fosse ancestrale dal punto di vista rituale.
La storia di una questa condanna a morte negli “Atti di San Hitzibouzit”, martirizzato in qualche tempo in Persia, è evidentemente una prova dubbia della pratica, come osserva Sir J. G. Frazer. La documentazione recita che il santo fu “offerto come un sacrificio tra due malfattori sulla cima di una collina opposta al Sole e di fronte a tutta la moltitudine”, [81] suggerendo che il sacrificio fosse un sacrificio solare. Questo è possibile; ma il martirologio è una testimonianza dubbia. D'altra parte i lsignor W. R. Paton ha suggerito che la triplice condanna a morte fosse una pratica persiana, ed era fatta ad un Dio triplice. [82] C'è l'importante supporto della dichiarazione in un frammento di Ctesia (36) che l'usurpatore egizio Inaro fu crocifisso da Artaserse Primo tra due ladri. In aggiunta ai casi di sacrifici greci di tre vittime si potrebbe notare un sacrificio tra i Dravidici di Jeypur; [83] e la pratica tra i Khondi di collocare la vittima tra due arbusti. Nel caso di Jeypur una vittima era sacrificata verso est, una verso ovest, e una al centro di un villaggio; e in un altro caso due vittime erano sacrificate ogni terzo giorno. Una triplice condanna a morte sarebbe potuta essere un evento speciale, in cui due vittime erano criminali sia realmente che ritualmente, al fine di aumentare la divinità della terza vittima. E sappiamo che accaddero triplici sacrifici. Il lancio di Sadrach, Mesach e Abdenego nella fornace ardente fu apparentemente un triplice sacrificio: difficilmente si pretenderà un episodio storico nella sua forma attuale.
Ad un bilancio accurato, comunque, la presunzione sembra proprio contro un rito triplice. Ciò che è piuttosto chiaro è che per gli antichi seguaci di Gesù la “profezia” nel 53-esimo capitolo di Isaia possedette la più alta importanza. Gunkel, che qui è seguito dal Professor Drews, [84] assume l'opinione che la figura sofferente descritta sia realmente quella della vittima tipica del sacrificio umano; essa si adatta certamente a quella concezione in punti dove non si compone facilmente con quella della figura dell'oppresso Israele. [85] La vittima futrafitta per le nostre trasgressioni, schiacciata per le nostre iniquità; e sul piano ideale per le sue piaghe noi siamo stati guariti.” D'altra parte, chi erano “noi” per “Isaia” se non lo stesso Israele? L'unica interpretazione sembra essere che generazioni passate avevano sofferto per il presente; e questo non produce una figura intellettualmente soddisfacente. Ma ancor più improbabile, nel complesso, è la suggestione che il profeta ebreo o poeta lirico quasi-profetico — qualsiasi data potremo assegnare al capitolo — abbia percepito e figurato realmente la visione tragica della vittima sacrificale come qui si suppone che abbia fatto. Sarebbe un'impresa psicologica estremamente notevole perfino per quello scrittore altamente dotato; [86] e inoltre si conformerebbe alla fine ancora meno con l'idea generale del contesto rispetto al supposto presentimento del Popolo sofferente. È difficile raggiungere qualche idea soddisfacente del significato generale di Isaia sulla vista di Gunkel e Drews.
Noi siamo così tenuti, allora, alla conclusione che, siccome il capitolo di Isaia fu certamente preso dai primi Crististi [87] che avevano adottato l'idea messianica come una profezia del loro Messia, il mito di Cristo fu formato in accordo con esso. Ci sono tre principali strati nel mito di Cristo, il Gesuista, il Cristista o messianico, e quello del Dio che Insegna. Il motivo della “sofferenza” serve a legare insieme i tre; e l'elemento concreto,egli fu contato fra i malfattori,  collegato com'è con “egli ha dato sé stesso alla morte”, dà un motivo davvero definito per l'elemento della forzata compagnia dei malfattori nella scena della Crocifissione. In breve, è apparentemente uno dei motivi particolarmente ebraici nella costruzione del mito. Ancor prima nel racconto il Messia è spesso a contatto con “pubblicani e peccatori”; egli va “mangiando e bevendo”, in contrasto con la figura ascetica del Battista. Quell'aspetto è parte probabilmente dell'atmosfera del motivo mitico della vittima sacrificale, con l'ospite lebbroso e l'unzione da parte della “peccatrice”. Ma i “due ladri” sono introdotti in modo deducibile da un altro lato.
Nei primi due vangeli, la natura dell'anonima donna che unge è tacitamente suggerita dalla stessa reticenza della descrizione, “una donna”. Nell'ebraismo e nell'Oriente in generale, la donna che andava liberamente nelle case di uomini era declassata; e la “peccatrice” di Luca era solo una specificazione di quella già accennata. Ma la storia in Luca dell'omaggio del buon ladrone è chiaramente un mito nuovo, proveniente dalla ampliata etica del “vangelo dei gentili”. Matteo e Marco non hanno pensiero di alcunché se non dell'associazione del Messia con tipici trasgressori nella morte: per loro i due ladroni sono ostili. Il vangelo “gentile” corregge la circostanza convertendo uno dei trasgressori. Nessun indagatore critico, presumibilmente, manca ora di osservare un mito dottrinale nella seconda fase. È solo l'atmosfera di presupposizione che può tenerlo impercettibile nella prima fase. Nella fabbricazione dei vangeli, il mito rituale, il mito dottrinale, e il mito tradizionale sono co-fattori; e potrebbe essere che perfino quando il mito dottrinale è piuttosto chiaramente all'opera, come nella messa in scena della morte messianica “con trasgressori” sia commemorato anche un effettivo rituale.

§ 6. Rituale Minore ed Elementi del Mito

Nel mito più recente ai ladroni, come accade, si fanno incarnare certi aspetti del rituale sacrificale. Ci vien detto nel quarto vangelo che gli ebrei chiesero a Pilato che fossero loro spezzate le gambe e fossero portati via, — perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato (poiché era la Preparazione e quel sabato era un gran giorno). Di conseguenza i soldati spezzano le gambe dei due ladroni, “ma giunti a Gesù, lo videro già morto, e non gli spezzarono le gambe. L'implicazione è che le gambe degli uomini dovevano essere spezzate allo scopo di ucciderli — una suggestione palesemente non vera. [88]
La ferita con la lancia che “tuttavia” fu inflitta a Gesù sarebbe stata la maniera di uccidere gli altri se fossero vivi: spezzare le gambe fu una brutalità che non avrebbe assicurato la morte.
La spiegazione è che sia lo spezzare le gambe che il passare per la lancia erano aspetti di riti sacrificali. Potrebbe essere stato in contrasto intenzionale con la precedente procedura che nel rituale sacerdotale [89] della Pasqua è disposto che non venisse spezzata nessun osso della vittima (non specificata). Spezzare le ossa delle gambe nel sacrificio umano era uno degli orribili espedienti del mondo primitivo per assicurare l'apparente buona volontà della vittima: si deve trovare parimenti nel sacrificio dravidico e nel sacrificio africano. [90] Un metodo alternativo, che tendeva a soppiantare l'altro, fu quello della droga o intossicazione, di cui troviamo una prova ancor più diffusa. Nella Gerusalemme antica, troviamo la pratica trasferita a comuni condanne a morte sulla croce, con donne pietose che svolgevano una pratica di offerta di una porzione narcotica di vino e incenso alla vittima. [91] Così associata con le morti di criminali comuni, suggerì ad alcuni degli inventori gesuisti del mito un terreno per abbellire la testimonianza.
Nei primi due vangeli, è offerto da bere  a Gesù sulla croce — vino [92] mischiato con fiele, in Matteo; vino mischiato con mirra in Marco — “ma non lo prese”; questo, in Matteo, dopo aver assaggiato. La forma marciana è probabilmente la prima, poiché descrive il narcotico consueto: l'idea serve ad indicare che nel caso della vittima divina nessun artificio fu necessario per assicurare un'apparente acquiescenza: egli fu un volontario sofferente. “Fiele”, in Matteo, potrebbe avere un riferimento a misteri pagani in cui figurava una bevanda di fiele. [93] In Luca, viene offerto aceto apparentemente come parte della derisione. In Giovanni non si menziona nessuna bevanda fino alla fine, quando la vittima morente dice, “Ho sete”. Avendo partecipato di “una spugna imbevuta di aceto in cima a una canna”, egli dice, “Tutto è compiuto”, e muore. In Matteo, quest'atto di compassione prende una forma più semplice, poiché la spugna di aceto è offerta all'emissione del grido di disperazione, mentre gli altri presenti lo scherniscono: in Marco, chi offre la spugna schernisce pure. 
È inutile dibattere a lungo sulle priorità di questi dettagli: per quanto riguarda il bere aceto, tutti hanno considerato allo stesso modo il salmo 69:21: “Mi hanno invece dato fiele per cibo, e per dissetarmi mi hanno dato da bere dell'aceto”. Per quella ragione, l'elemento di vino e mirra è probabilmente primordiale; ci comunica del mito sacrificale; e il bere aceto è un'aggiunta dottrinale; proprio come il rigetto del narcotico è dottrinale. Per le variazioni che distinguono ciascun racconto dagli altri, non c'è nessuna spiegazione ragionevole sulla vista biografica: se devoti spettatori non potevano preservare la verità su questo punto, dove potevano essere creduti? L'interpretazione mitica da sola rende tutto comprensibile.
Il quarto vangelo, col suo racconto dello spezzare delle gambe, fornisce il terreno più forte per ipotizzare l'occorrenza occasionale di un rito triplice, in cui le vittime inferiori venivano trattate come nel sacrificio umano africano e altrove sono stati trattati di norma gli schiavi sacrificati,  mentre la vittima centrale era posta su un altro piedistallo. L'espressa rappresentazione riguardo il misterioso sacrificio pasquale suggerisce che la frantumazione delle ossa avveniva in altri. In tutta probabilità, l'originale sacrificio pasquale era quella di una vittima umana di un grado particolarmente alto: la sostituzione dell'agnello era parte del processo di civilizzazione indicato nel mito di Abramo ed Isacco. E se la conoscenza del rito della morte di Gesù Barabba poteva sopravvivere nel primo secolo o più tardi, anche una conoscenza di un antico rito triplice poteva sopravvivere. Ma questo rimane esposto al dubbio, sebbene in numerosi punti specialmente il quarto vangelo enfatizza la derivazione storica del culto da un sacramento di sacrificio di sangue.
Da nessuna parte c'è la base letterale del simbolo di “corpo e sangue” su cui si è così insistito. I suoi scrittori tennero presente nella loro mente un rituale reale in cui il consumo del corpo di un Dio Sacrificato, prima realmente, poi simbolicamente, era di cardinale importanza. Il mito posteriore pone nuova enfasi sulla concezione, come se fosse stato percepito che il mito più antico non fosse stato abbastanza esplicito; e fa sì che il sommo sacerdote ebreo esponga la dottrina del sacrificio umano dal lato ebraico. [94] È in questa atmosfera di idee sacrificali che otteniamo l'elemento della ferita inflitta alla vittima divina con una lancia. Il dettaglio è trasformato specialmente a causa della dottrina giovannea della resurrezione ponendo ciò che passò nella fisiologia popolare per una certa dimostrazione della morte — lo scaturire di “sangue e acqua”. [95] Ma qui di nuovo troviamo sia un motivo ebraico [96] che un motivo pagano per il dettaglio. Nel sacrificio dello schiavo sacro della Dèa-Luna tra gli albanesi primitivi, alla vittima fu concesso l'anno consueto di lussuria e licenza, e fu infine unto e ucciso venendo trafitto al cuore per il costato con una lancia sacra. E ci sono altri casi analoghi orientali. [97]
È il quarto vangelo, infine, che introduce la “tunica senza cuciture”, combinando un motivo ebraico con uno pagano.
Allo scopo di realizzare una “profezia” ritenuta messianica, [98] i sinottici fanno sì che i soldati tirino a sorte per le vesti di Gesù. Il quarto vangelo specifica una semplice distribuzione delle tuniche in generale, come se potevano esserci stati numerosi abbastanza da far passare per i soldati, ma limita l'atto di “tirare a sorte” al chiton, la sottoveste. Così i soldati sia “si dividono la tunica” e sia tirano a sorte per la “tunica”. La fabbricazione di questo “senza cuciture” è nello stesso tempo un'assimilazione di Gesù al sommo sacerdote ed un'assimilazione del Dio Ucciso al Dio-Sole ed altre divinità. [99] Un chiton speciale fu tessuto per Apollo a Sparta; come un peplos o scialle veniva intrecciato per Era ad Elide. E questo a sua volta aveva per i pagani pre-cristiani significati mistici siccome simboleggiano l'indivisibile veste solare di Ahura Mazda; la veste di Pan dai molti colori, e ancora altre idee. Sempre la storia è dettagliata in termini di mito, di rituale, di simbolo, di dottrina, mai nei termini di una biografia reale.

§ 7. La Croce

Non è del tutto certo, e non è probabile, che nelle fasi più antiche del mito la croce come tale fosse prominente. La crocifissione antica non equivaleva sempre ad inchiodare mani tese nella forma di croce, ma spesso una sospensione della vittima per le braccia, collegate insieme ai polsi, con o senza un sostegno per il corpo alle cosce. [100] Lo stauros non era necessariamente una croce: avrebbe potuto essere una semplice pila o palo. Nel libro degli Atti (5:30) a Pietro e gli apostoli si fa parlare di Gesù “che voi uccideste, appendendolo su un albero”. Questo era in sé stesso un comune modo sacrificale; e tutte le tradizioni sacrificali sono rappresentate più o meno nella compilazione del Nuovo Testamento.
Ma ci fu un impulso irresistibile ad una divinizzazione della croce come della vittima. Età prima dell'era cristiana il simbolo era stato mistico e sacrosanto per semiti, per egizi, per greci, per indù; e l'Albero Sacro dei culti di Attis, Dioniso, e Osiride si prestò parimenti a parecchi significati simbolici. [101] La croce aveva un riferimento all'equinozio, quando l'albero sacro era tagliato; alla vittima legata ad esso; ai quattro punti cardinali; al segno zodiacale dell'Ariete, connesso così con l'agnello sacrificale; [102] e all'universo come simboleggiato nel “globo” dell'imperatore, con le linee della croce tracciate in esso. Il finale significato cristiano della croce è un composite di idee associate ad essa dappertutto, dal Messico alla Costa d'Oro, in entrambe delle cui regioni era oppure è un simbolo del Dio della Pioggia. [103] La vittima dravidica, il sacrificio deificato, era come se fosse crocifissa; [104] com'era la vittima in un sacrificio di Batak, dove, come sulla Costa d'Oro, è rappresentata la forma della croce di Sant'Andrea. [105] La normalità di qualche procedura simile nella pratica sacrificale africana punta alla sua antichità generale.
Apparirebbe anche che nei misteri degli Dèi Salvatori non solo un aspetto crocifisso del Dio ma una simulazione di quello da parte dei devoti fosse abituale. Osiride fu realmente rappresentato in una forma crocifissa; [106] e nel rituale l'adoratore diventava “uno con Osiride”, apparentemente coll'essere “unito all'albero di sicomoro” [107] Quando, allora, nell'epistola ai Galati [108] noi troviamo “Paolo” che si rivolge ai convertiti come “coloro di fronte ai cui occhi Gesù Cristo fu apertamente rappresentato (προεγράφη) crocifisso”, e che dichiara di sé stesso: [109] “Io porto nel mio corpo le stimmate di Gesù”, ci viene indicato nello stesso tempo la pratica siriana delle stigmata, che sembra connettersi sia con l'usanza di Osiride che con quella cristiana. Nel suo importante resoconto dell'esistenza della città sacra di Ierapoli — un microcosmo di paganesimo orientale — Luciano, dopo aver detto quanti figli sono sacrificati colla finzione votiva che sono buoi, ricorda che è la pratica universale fare ferite al collo o alle mani, e che “tutti” i siriani recano queste stigmata. [110] Uno dei culti principali del luogo era quello di Attis, il Dio castrato della Vegetazione, nei cui misteri l'immagine di un giovane era legata ad un albero, [111] con un rituale di sofferenza, pianto, resurrezione, e festeggiamento. Come Dioniso fu anche “egli dell'albero”, non è improbabile che lui, che anche morì e risorse di nuovo, potrebbe essere stato adorato in modo simile. D'altra parte, la rappresentazione del Salvatore Prometeo che soffre in una posizione crocifissa ci comunica di un concetto ancestrale. [112]
Per gli ebrei, infine, il simbolo della croce era già misticamente potente, essendo un segno di salvezza in connessione col sacrificio-massacro della Pasqua ebraica, e di conseguenza salvifico in tempi di pericolo simile. [113] Quando con questo si combinò il significato mistico del segno nella tradizione platonico a indicare il Logos, [114] ll fondamento mitico del Cristismo era del fondamento più vasto. Il crocifisso è posteriore nell'arte cristiana; ma la croce lungo la strada è tanto antica quanto il culto di Ermes, Dio dei confini. [115]

§ 8. Il Messia Sofferente

Al fine di spiegare il rifiuto ebraico di vedere in Gesù il Messia promesso, l'esegesi ortodossa ha diffuso ampiamente la credenza secondo cui non faceva parte dell'idea messianica l'idea che l'Unto dovesse morire di una morte ignominiosa; e alcuni di noi cominciarono ad accettare quella spiegazione del caso. Chiaramente essa non era l'attesa ebraica tradizionale oppure generalmente prevalente. Tuttavia negli Atti noi troviamo che si fa affermare ad entrambi Pietro e Paolo (3:18; 17:3; 26:23) che i profeti in generale predissero che Cristo dovesse soffrire; e in Luca (14:26-27, 44-46) la stessa asserzione è posta sulle labbra di Gesù. O allora gli esegeti considerano infondate quelle asserzioni oppure essi ammettono che una scuola di interpretazione nell'ebraismo trovò un numero di passi “profetici” che predissero la morte esemplare del Messia. E il margine A.V. ci riporta al Salmo 22; Isaia 1:6; 53:5, ecc.; Daniele 9:26.
Ora, quelli sono motivi documentari adeguati sebbene non numerosi per la dottrina, su principi ebraici di interpretazione. Ebraica, in effetti, l'idea messianica non è in origine: essa è persiana-babilonese; [116] e l'idea di un Messia sofferente o risorgente potrebbe proprio essere provenuta da quel lato. Ma quella potrebbe aver ricevuto egualmente qualche accettazione ebraica. Possiamo vedere davvero bene che in Daniele “l'Unto” — cioè, “il Messia” e “il Cristo” si riferisce all'eroe maccabeo; ma che proprio come gli altri passi, su principi ebraici, si poteva applicare al Messia di ogni periodo; e la lettura Septuaginta del salmo 22:16: “Trafissero le mie mani e i miei piedi”, fu una specificazione della crocifissione. Non è impossibile che quella lettura fosse il risultato della reale crocifissione di Ciro, che era stato specificato come un “Cristo” in Isaia. Non abbiamo nulla da fare qui con un'interpretazione razionale: l'intera concezione della profezia è irrazionale; ma la costruzione di testi antichi come profezie fu una specialità ebraica.
Quando allora un razionalista teista dell'ultima generazione scrisse del Gesù evangelico: 
 Il suo essere un falegname, che risiedeva nel territorio della barbarica Galilea, e che soffrì la morte come un colpevole, non sono aspetti che il costruttore di un racconto immaginario farebbe di tutto per introdurre e associare al suo eroe, e perciò, probabilmente, noi abbiamo qui fatti reali a noi presentati, [117]
egli era di gran lunga fuori strada. Ogni cosa si sarebbe potuto predire di un Messia ebreo. Non solo era stato crocifisso il messianico Ciro: l'unto e trionfante Giuda Maccabeo, sotto i cui auspici il credo messianico era rivissuto in Israele nel secondo secolo A.E.C., era infine caduto in battaglia; e suo fratello Simone, che fu realmente considerato il Messia, fu ucciso da suo genero. [118]
Qui non si sostiene che l'idea messianica era stata connessa in origine col culto di Gesù; al contrario quel culto si presentò come un culto non-nazionale, sopravvivendo in parti di Palestina in connessione al credo in una divinità antica e nella pratica di un rito antico, in un'atmosfera religiosa diversa da quella del messianismo. La soluzione a cui ci troveremo condotti è che ad una certa fase l'idea messianica fu trapiantata sul culto; ed è probabile che questa fase fosse cominciata dopo la caduta di Gerusalemme, quando per la maggior parte degli ebrei fu sepolta la speranza di una riscossa maccabea. Allora accadde che l'idea di un Messia “dall'alto”, [119] rivestito di potere soprannaturale per porre fine alla scena terrestre, diventò il solo Messia plausibile; e qui la concezione di un Dio ucciso che, come tutti gli Dèi uccisi, risorgeva di nuovo, invitò lo sviluppo. I Gesuisti potevano ora fare un nuovo appello agli ebrei in generale su linee riconoscibilmente ebraiche. Essi erano naturalmente ostacolati, proprio come i sadducei furono ostacolati dai farisei, e vice versa. La dichiarazione nell'articolo Messia dell'Encyclopedia Biblica che è altamente improbabile cheGli ebrei” al tempo di Cristo credettero in un Messia sofferente ed espiatorio è futile. Nessuno mai avanzò una tesi simile. Ma “gli ebrei” avevano aggiunto parecchio al loro credo nel corso del tempo, e avrebbero potuto aggiungervi questo, se non fosse che il culto di Gesù diventò identificato con la propaganda gentile ed anti-ebraica.
In ogni caso l'idea sorse tra gli ebrei, e in modo abbastanza comprensibile. Il quadro derivato da Isaia fu un'esortazione permanente alla nascita di un culto il cui Dio-Eroe era stato ucciso. Era quel genere di culto messianico che i romani avrebbero lasciato indisturbato. Allo stesso tempo esso impegnò i devoti alla posizione che il Messia deve venire di nuovo, “nelle nubi, in gran gloria”, e la Chiesa cristiana fu veramente stabilita su quella concezione che bastò a sostenerla finché la Provvidenza terrena dello Stato venne alla riscossa. Alcuni dei suoi seguaci moderni non hanno esitato a vantarsi che l'attesa comune della fine imminente del mondo fornì alla Chiesa nascente un piedistallo non altrimenti ottenibile. Esso fu certamente una conditio sine qua non per il cristianesimo nella sua infanzia.
Quanto all'elemento del “falegname”, abbiamo visto [120] non solo che è mitico, ma che solo la teoria mitica può spiegarlo.

§ 9. La Tomba nella Roccia

Nel primo vangelo (27, 57 seq.) noi abbiamo una versione relativamente semplice della storia di Giuseppe di Arimatea, un ricco discepolo di Gesù, che ottiene il cadavere del crocifisso, lo avvolge in puro lino, e lo depone  “nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia”. In Marco e Luca noi abbiamo resoconti visibilmente elaborati, in cui, comunque, mentre la tomba nella roccia è specificata, non è descritta come “appartenente” a Giuseppe, sebbene è rappresentata come inutilizzata fino ad allora. Questo racconto punta davvero direttamente al rito mitraico in cui l'immagine di pietra del Dio morto, dopo che vi si piange sopra secondo il rituale, è deposta in una tomba, la quale, dato che Mitra è “il Dio nascente dalla roccia”, sarebbe naturalmente di pietra — una materia semplice in un culto i cui riti principali furono sempre eseguiti in una grotta. [121] Dettagli così gettati in prominenza speciale, mentre in sé stessi storicamente insignificanti, possono essere compresi solo come motivati miticamente. Così degno di nota è il parallelo mitraico che il Padre cristiano che irosamente lo ricorda esclama, Habet ergo diabolus Christos suos — “il diavolo dunque ha i suoi Cristi”. Nel mitraismo la tomba nella roccia, che è un elemento in un rituale di morte e resurrezione, è del tutto motivato miticamente: nel racconto evangelico, considerato storicamente, l'elemento è privo di significato.
Ovvia com'è l'inferenza mitologica, essa viene incontro all'asserzione che attorno a Gerusalemme “il suolo era così scarso che ognuno fu sepolto in una tomba nella roccia”. [122] Questa critica di colpo sconfigge sé stessa. Se ognuno fosse sepolto in una tomba nella roccia, qual era il punto del dettaglio enfatizzato nei vangeli, che sono così svuotati dei dettagli di una natura veramente biografica? Ovviamente, tombe nella roccia erano la specialità dei ricchi; e Giuseppe d'Arimatea è descritto in tutti i sinottici come un uomo di levatura sociale. È il motivo della storia niente di meglio del desiderio di ricordare che Gesù fu seppellito riccamente?
“Resti di queste tombe rimangono”, urla il critico: “furono esse tutte mitraiche?”. L'argomento quindi eluso è che non ci fosse nessuna vera tomba. Se ci fu una cosa che gli antichi Gesuisti, sulla teoria biografica, si sarebbero potuto supporre che preservassero, fu il luogo del sepolcro del loro Signore; tuttavia nulla sopravvive se non per ammissione comune una tradizione falsa. A Gerusalemme, come lo si è posto, vi sono mostrate “due Sion, due aree del Tempio, due Betanie, due Getsemani, due o più Calvari, tre Santi Sepolcri, parecchie Bethesda”. [123]
È tutto mito. “Non c'è nessun singolo sito esistente nella Città Santa che è menzionato in connessione con la storia cristiana prima dell'anno 326 E.C., quando la madre di Costantino adorò le due impronte di Cristo sul Monte degli Ulivi”. [124] Non le fu mostrato nient'altro. [125] La posizione dei siti tradizionali del Calvario e del Santo Sepolcro, nel mezzo del quartiere settentrionale di Gerusalemme, sembra aver dato origine a sospetti davvero presto”. [126] Potrebbe ben essere. Io ho conosciuto un viaggiatore moderno che, al vedere i cosiddetti siti, di colpo realizzò di essere sulla scena, se di qualcosa, di un rituale antico, non di eventi come quelli che sono narrati nei vangeli. Il Golgota tradizionale dista solo cinquanta o sessanta iarde dal Sepolcro; [127] e nelle vicinanze c'è il “Monte Moria”, su cui è ricordato che Abramo ha cercato di sacrificare Isacco.
Il colonnello Conder, che accetta senza apprensione tutti e quattro i racconti evangelici, e tenta di combinarli, ammette che la “Tomba del Giardino” scelto dal generale Gordon, nel Calvario selezionato di recente, è impossibile, essendo probabilmente un'opera del dodicesimo secolo; [128] e per la propria parte, mentre incline a stare a guardare il nuovo Golgota, ammette che “noi dobbiamo ancora dire di nostro Signore come fu detto di Mosè, 'Nessun uomo conosce il suo sepolcro fino a questo giorno'.” [129] Placidamente egli conclude che “è bene che noi non dovremmo conoscere”. [130] Ma che cosa fa la teoria biografica di questa conclusione? La sua assunzione fondamentale è quella di Renan, che la personalità di Gesù fu così carismatica da far immaginare ai suoi discepoli la sua resurrezione. In un dettaglio elaborato e contradditorio noi abbiamo le leggende di ciò; e tuttavia troviamo che ogni traccia di conoscenza parimenti del luogo della crocifissione e della tomba era svanita dalla comunità cristiana che si presume essere sorta immediatamente dopo la sua ascensione. La teoria collassa ad un semplice tocco, qui come ad ogni altro punto. C'è non più un vero Sepolcro di Gesù di quanto c'è un vero Sepolcro di Mitra; e la millanteria che offre la soluzione che a Gerusalemme ognuno era seppellito in una tomba nella roccia è un mero chiudere gli occhi al monumentale fatto del mito.
Il critico è per tutto il tempo impegnato lui stesso alla negazione che ci fosse qualche tomba. Professando di seguire la suggestione [131] del signor Loisy secondo la quale Gesù fu gettato in “qualche fossa comune”, che nelle sue mani diventa “la fossa comune riservata per malfattori crocifissi”, egli afferma [132] che “le parole attribuite  a Paolo in Atti 13:29, favoriscono certamente l'opinione di Abbé”. Esse certamente non la favoriscono. Il testo in questione recita:
Dopo aver compiuto tutto quanto era stato scritto di lui, essi lo deposero dall'albero e lo misero in una tomba


La parola greca è μνημεῖον — quella utilizzata nella storia evangelica. Non c'è così alcun supporto di sorta o per la suggestione di “una fossa comune” oppure per l'asserzione circa “la fossa comune riservata per malfattori crocifissi” — un'invenzione totalmente ingiustificata. Il secondo “essi” della frase è indefinito: esso potrebbe significare o gli ebrei della frase precedente oppure un altro “essi”: ma ad ogni modo si postula espressamente una tomba. Tuttavia dopo questa perversione deliberata del documento, che naturalmente egli non cita, il critico procede (pag. 302) ad asserire che “la tradizione autentica di Gesù che è stato gettato dai suoi nemici nella fossa comune riservata ai malfattori  . . . sopravvisse tra gli ebrei”; e che la storia della tomba fu inventata come “la maniera più efficace di soddisfare” la dichiarazione immaginata. Un simile dilettante inventore di mito è naturalmente risentito dei test mitologici!

§ 10. La Resurrezione

Se un Messia sofferente fu discutibile per gli ebrei, la sua resurrezione dopo la morte fu una cosa ovvia. La teoria biografica, per cui la grandezza della personalità del Fondatore condusse i suoi discepoli a credere che egli deve risorgere di nuovo, è storicamente tanto ingiustificabile quanto ogni parte del caso biografico. La morte e resurrezione del Dio-Salvatore fu un aspetto eccezionale di tutti i culti più popolari del vicino Oriente; Osiride, Eracle, Dioniso, Attis, Adone, Mitra, tutti morirono per risorgere di nuovo; e un rituale di sepoltura, lamento, resurrezione, e festeggiamento era comune a parecchi. Da ogni punto di vista questi rituali furono stabiliti in altri culti contemporanei; ed è questo il fatto che in questa inchiesta fa valere la pena di dare uno sguardo a un mito che ora è abbandonato da tutti, salvo i tradizionalmente ortodossi.
Sull'assunzione acritica che niente se non puro ebraismo poteva esistere nell'ebraismo all'età degli Erodi, la nozione di un Dio-Eroe che muore e risorge fu impossibile tra gli ebrei salvo come risultato di una fase di una nuova fede costruttiva. Quella semplice posizione negativa ignora non solo la diffusione della fede nell'immortalità tra gli ebrei (tutti i farisei vi credevano) prima dell'era cristiana, ma gli speciali credi ebraici nella “traslazione” di Mosè ed Elia, nella storia di Saul, nella strega di Endor, e nello spirito di Samuele. Lo stesso credo che l'Elia risorto doveva essere il precursore del Messia fu un impulso al credo che il Messia stesso sarebbe potuto giungere dopo una resurrezione.
Ma è praticamente certo che una resurrezione liturgica fu o dovette essere praticata in culti contemporanei che un tempo avevano effettuato un sacrificio annuale del rappresentante del Dio, idealizzato nel mito come la morte del Dio stesso. E al suo tempo la sopravvivenza di una pratica analoga è stata notata in India. All'insediamento dei Ragià di Kendujhar era anticamente il costume del Ragià l'uccisione di una vittima: di recente c'è una finta uccisione, dopodiché la finta vittima scomparve. “Egli non deve essere visto per tre giorni; poi si presenta al Ragià come riportato miracolosamente alla vita”. [133]
 

NOTE





[1Jesus, di William Renton. Pubblicato dall'autore, Keswick, 1879.

[2] Ripubblicato da R.P.A. 1907.


[3The Mythical Interpretation of the Gospels, 1916.


[4] Ad esempio, egli prende per un'applicazione su Gesù (pag. 377) una considerazione applicata espressamente e solamente al mito di Eracle.


[5] Opera citata, pag. 10.


[6] Seconda Lehen Jesu, § 91 (3te Aufl. pag. 569).


[7]  Si vedano i riferimenti in Drews, The Witnesses to the Historicity of Jesus, traduzione inglese, pag. 23.


[8] Come citato, pag. 572.


[9] Jesus and Israel, traduzione inglese, pag. 8, 9, 29.


[10] Putnams, 1912. Io non avevo incontrato questo lavoro quando scelsi il mio titolo, The Historical Jesus, altrimenti avrei dovuto scegliere un altro.


[11] Opera citata, pag. 335-353.


[12] Williams e Norgate, 1895.

[13] Opera citata, pag. 420.


[14] Id. pag. 17, ecc.


[15] The Historic Jesus, pag. 7.


[16] In questa connessione egli avanza la teoria — derivata dal celebrato Signor Chamberlain — che Gesù non fosse un ebreo ma un “amorrita”.

[17] Historical Jesus, capitoli 17 e 19.


[18] Historical Jesus, 199. Su questo confronta The Four Gospels as Historical Records, capitoli 6-13.


[19] Canon Cheetham, Conferenze Hulseane su The Mysteries, 1897, pag. 115.


[20] “L'idea primitiva del pasto sacrificale, precisamente, che è mediante una partecipazione nel sangue del dio che lo spirito del dio penetra nel suo adoratore.” — Prof. Jevons, Introduction to the History of Religion, 1896, pag. 291. “Originariamente la morte del dio non era nient'altro che la morte della vittima teantropica.” — Robertson Smith, Religion of the Semites, 1889, pag. 394.


[21] Jésus et la tradition évangélique, 1910, pag. 106.


[22] Historical Jesus, 202-203.


[23] Loisy, pag. 171.

[24] Si vedano i riferimenti in Historical Jesus, 171; altri in G. B. 9, 420 n. Un caso schiacciante per la lettura “Gesù (il ) Barabba” è stabilito da E. B. Nicholson, The Gospel according to the Hebrews, 1879, pag. 141-142.


[25] Mr. Lester traduce “Figlio di un Maestro”, ma questa (adottata da Brandt) è una lettura evasiva. Egli pensa che la storia, anche se vera, non ha alcuna connessione con la condanna di Gesù.


[26] Confronta Nicholson, come citato, pag. 142.


[27] G.B. 9, 418; P.C. 146.


[28] G.B. 9, 419.

[29Id. 4, capitolo 6; P.C. 124.


[30] P.C. 152, 64; G.B. 4 (Parte 3, The Dying God), 170 seq.


[31] P.C. 161. Confronta Turner, Samoa, 1884, 274-275; G.B. 4, capitolo 6


[32] P.C. 137, 161, 186; G.B. 4 (Parte 3), 166. 


[33]  Macrobio, Saturnalia, 1, 7. Confronta Varrone, citato da Lattanzio, Div. Inst. 1, 21.





[34] G.B. 4, 14 seq., 46 seq., 10, 1 seq.

[35]  Confronta View of the Religion of the Hindoos di Ward, quinta edizione 1863, pag. 92.

[36] Si veda P.C. 105 seq. quanto ai vari motivi del sacrificio umano.

[37] Livio, 8, 9, 10; Lafcadio Hearn, Japan, 166; P.C., 138.

[38] Confronta Kalisch, Comm. on Leviticus, 1867, 1, 366; P.C. 121.

[39] Robertson Smith, Semites, 391; F. B. Jevons, Introd. to Hist. of Religion, pag. 274-293.

[40] P.C. 363.

[41] Id. 108 seq.

[42] Confronta G.B. Parte 3, The Dying God (vol. 4), 166 n., 214 seq.; P.C. 116-117, 140.

[43] P.C. 364-368.

[44]  Confronta Kalisch, come citato; G.B., come alla fine citato; Salmo 106, ecc.

[45] P.C. 158 seq. Ebrei, 9:7, 25, suggerisce un significato criptico per il sacrificio di espiazione.

[46] Per quanto riguarda i sacramenti ebraici segreti, si veda P.C. 168 seq.

[47] P.C. 166. Io non trovo che il signor R. T. Herford tratta di questa materia nel suo prezioso lavoro su Christianity in Talmud and Midrash, 1903.

[48] Si veda di seguito, pag. 104, quanto alle antiche forme ricavabili della propaganda della crocifissione.

[49] Il signor Joseph McCabe (Sources of Gospel Morality, pag. 21) argomenta contro la teoria mitica che i primi rabbini non misero mai in discussione la storicità di Gesù. Ma è estremamente probabile che gli antichi rabbini utilizzarono l'argomento di Barabba prima che la storia evangelica fosse fabbricata. In un'epoca sprovvista di una letteratura storica e di un metodo o una pratica critici, era sufficiente volgersi di spalle.

[50] C.M. 352, § 21, e riferimenti. Una chiara deduzione “biografica” sarebbe che il tradito Gesù fosse stato un personaggio oscuro, non conosciuto pubblicamente. Questa conclusione, comunque, non è mai derivata.

[51] View of the Religion of the Hindoos di Ward, quinta edizione, 1863, pag. 91.

[52] Confronta il Prof. Drews, The Witnesses to the Historicity of Jesus, traduzione inglese, pag. 54 seq., per la teoria di Niemojewski che Pilato = la costellazione di Orione, pilatus, il portatore di giavellotto. Questa teoria non è approvata da Drews.

[53] P.O. 137.

[54] G.B. 9, 412 seq.

[55] G.B. 9, 415, nota.

[56] Giustino Martire, Dialogo con Trifone, capitolo 40.

[57] G.B. 9, 357 seq.

[58] P.C. 146 ; G.B. 9, 359.

[59] Seconda Lehen Jesu, § 83.

[60] Die evang. Geschichte, pag. 156.

[61] G.B. Parte 3 (vol. 4), 113-114.

[62] “Sopra un asino e [perfino in R.V.] sopra un puledro, il piccolo dell'asina,” Zaccaria 9:9. Io dovrei spiegare che nel negare che queste “tautologie” fossero normali nell'Antico Testamento io avevo in vista passi narrativi.

[63] C.M. 338-341.


[64] Genesi, 49:11.

[65] The Historical Christ, pag. 22.

[66] Si veda pag. 19, nota, riferimento a M. Durkheim. M. Durkheim è uno dei più grandi antropologi; egli non è affatto un miticista.

[67] C. M. 340.

[68] Id. 341.

[69] Id. 218, nota.

[70] Opera citata, pag. 14.

[71] Id. pag. 76.

[72] Si veda il suo Myth, Magic, and Morals, seconda edizione, pag. 302.

[73] Commentario al Vangelo di Giovanni 10, 16, citato da Strauss. Si veda la sua prima Life of Jesus, Parte 2,capitolo 7, § 88, per le vedute dei commentatori sull'episodio.

[74] G.B. 9, 417.

[75] Cultes, mythes, et religions, 1, 338.

[76] In Giovanni, al sommo sacerdote si fa realmente lamentare da un punto di vista ebraico, allo scopo di rafforzare la conclusione cristiana.

[77] Jésus et la tradition, pag. 76.

[78] Vi potrebbe essere coinvolta, di nuovo, una reminiscenza della crocifissione dell'ultimo indipendente re degli ebrei, Antigono, da parte di Marco Antonio. C.M. 364.

[79] C.M. 365.

[80]  P.C. 130 seq., 363. Confronta Robertson Smith, Religion of the Semites, pag. 391; Greenidge, Roman Public Life, pag. 55, che cita Plinio, H.N. 18, 3, 12.

[81] Apology and Acts of Apollonius, ecc., edito da F. C. Conybeare, 1894, pag. 270. Qui il dottor Conybeare appare momentaneamente come un teorico del mito.

[82] Id. pag. 258.

[83] P.C. 115.

[84] Il Mito di Cristo, traduzione inglese, pag. 65-68.

[85] Confronta Cheyne, Introd. to Isaiah, 1895, pag. 304-305, quanto alla teoria di Ewald che Geremia potrebbe essere stato inteso.

[86] Così si deve stimare se egli sia “il” Deutero-Isaia oppure uno scrittore di cantici la cui opera è stata incorporata. Confronta Cheyne, come citato, e il suo articolo Isaiah in Encyc. Bib.

[87] I termini “Crististi” e “Gesuisti” sono utilizzati, difficilmente c'è bisogno di dirlo, per amore di precisione. Il termine “Cristiani antichi” spesso veicolerebbe un'idea diversa e fuorviante. C'erano Gesuisti e Crististi prima che sorse il movimento “cristiano”. Il dottor Conybeare definisce “gergali” questi termini (Histor. Christ. pag. 94). Nella riga successiva egli illustra la delicatezza del suo personale gusto accademico per i termini “tag-rag e bobtail”. Un gergo simile abbonda nel suo libro, e ricorre questa frase particolare (pag. 183).

[88] È interessante notare che nel Vangelo di Pietro uno dei malfattori è rappresentato mentre parla agli ebrei in difesa di Gesù, al che essi spezzano le sue gambe per vendetta.

[89] Esodo 12:46; Numeri 11:12. Confronta il salmo 34:20.

[90] P.C. 113, 155


[91] Granum turis in poculo vini, ut alienetur mens ejus. Talmud, trattato Sanhedrin.

[92] Aceto nel Codex alessandrino.

[93] C.M. 367.

[94] Giovanni 11:50.

[95] Si veda l'intera questione discussa nel dettaglio in Strauss, Parte 3, capitolo 4, § 134.

[96] Zaccaria 12:10.

[97] P.C. 125-126.

[98] Salmo 22:18. La citazione in Matteo 27:35 (omessa in R.V.) è un'interpolazione posteriore, trovata nel Codex Sangallensis.

[99] C.M. 380.


[100] C.M. 364.

[101] C.M. 369 seq. ; P.C. 150 seq.

[102] P.C. 319.

[103] P.C. 151, 368, nota.

[104] P.C. 113, sopra. L'ipotesi precedente in relazione al sacrificio del Meriah è un errore. Il signor  H. G. Wood mi informa che egli ha appreso dalle autorità del Museo a Madras che l'apparente traversa cruciforme fu realmente una proiezione, che rappresenta la testa di un elefante, al cui tronco  era legata la vittima.

[105] P.C. Appendice A.

[106] C.M. 376.

[107] P.C. 196.

[108] Galati 3:1.

[109] Galati 6:17.


[110] De Dea Syria, 59.

[111] C.M. 373.

[112] P.C. 371.

[113] P.C. 157.

[114] C.M. 375.

[115] Id. 377.

[116] P.C. 166. Confronta Drews, Mito di Cristo, 42.

[117] Giudice T. L. Strange, Contributions, ecc., 1881 : “Il Ritratto e la Missione di Gesù”, pag. 6.

[118] Confronta Charles, Introd. to The Testaments of the Twelve Patriarchs, 1908, pag. 16, per quanto riguarda Giovanni Ircano.

[119] Confronta Charles, The Apocalypse of Baruch, 1896, pag. 62-53, nota. Il Messia, nella vista ivi discussa, doveva essere stato “nascosto” — un altro spunto per gli evangelisti.

[120] Historical Jesus 153 seq.

[121] P.C. 304-306, 316-318; C.M. 331 e nota.

[122] Conybeare, Historical Christ, pag. 19.

[123] Col. Conder, The City of Jerusalem, 1909, pag. 3, citando Rix.

[124] Id. pag. 9.

[125] Id. pag. 10; Eusebio, Vita di Costantino, 3, 42.

[126] Conder, pag. 13.

[127] Walter Menzies, Notes of a Holiday Excursion, 1897, pag. 89.

[128] Opera citata, pag. 154-155.

[129] Id. pag. 156.

[130] Id. pag. 140.

[131] “II est à supposer”, sono parole del signor Loisy. Jésus et la trad. évang., pag. 107.

[132] Myth, Magic, and Morals, seconda edizione, pag. 297.

[133] G.B. 4, 66. Confronta 154.



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