sabato 3 ottobre 2015

Del perchè il “bugiardo per Cristo” J. Pischedda non vive nel nostro universo, ma in un “universo Cattolico”

Tutto questo significa che l'affermazione che la nascita del cristianesimo causò la caduta dell'Impero romano è un mito. Era il contrario: la caduta dell'Impero Romano causò il trionfo del cristianesimo. Il suo successo fu un sintomo di un'epoca decadente di ansia e dispotismo. La figura (vedi fig. 1) mostra il tasso massimo di crescita conforme ai dati conosciuti. Nota come il cristianesimo è praticamente insignificante (perfino al suo culmine, appena una piccola percentuale della popolazione era cristiana) finchè una guerra civile cinquantennale iniziò a distruggere il sistema sociale (a partire dagli anni 230 EC), seguita da una depressione economica catastrofica (negi anni 270 EC). Tutto questo sopravvenne oltre una generazione prima che Costantino, il primo imperatore cristiano, prese il potere con la forza.
(Richard Carrier, Christianity'success was not incredible, in The End of Christianity, mia libera traduzione)

Con la legalizzazione del cristianesimo, i cristiani si trasformarono — nelle parole dello storico Hal Drake — da agnelli in leoni. La loro violenza fu legittimata dal fatto che loro erano cristiani e in una guerra guidata-dai-martiri contro Satana. Non c'era, per alcuni, nessuna differenza tra morire da martiri sotto Decio e morire nel tentativo di distruggere un tempio pagano. Nelle parole del monaco del quinto secolo Scenute, “Non c'è crimine per coloro che hanno Cristo.”
(Candida Moss, The Myth of Persecution: How Early Christians Invented a Story of Martyrdom, pag. 141, mia libera traduzione)

L'apologeta cattolico Jerim Pischedda persevera nel suo congenito vizio di spacciare larvatamente per Storia reale quella che è solo mera apologetica cristiana delle peggiori.
Prova ne è il suo ultimo articolo, fatto passare per accademico da un'improvvisata quanto improbabile “peer-review” verosimilmente composta da soli cristiani (vedi per tutti l'ortodosso Valerio Polidori di apologetica fama) sotto mentite spoglie di studiosi imparziali e obiettivi.

Mi riferisco a questo suo articolo.

Tanto per cominciare, già nel primo paragrafo rischia di alimentare un gravissimo e imperdonabile errore di approccio all'intera materia proprio nell'incipit del suo articolo, quando sembra assumere come schema di partenza il vizio chiaramente anacronistico di discriminare tra l'aspetto religioso e quello non “meramente politico” della relazione tra romani e cristiani, inpresa condannata già in partenza all'insuccesso:
Per molto tempo la cristianizzazione dell’impero romano, ovvero la storia dei rapporti tra l’impero e i cristiani, è stata letta semplicemente come storia del rapporto tra stato e chiesa, quindi essenzialmente come storia delle persecuzioni, evidenziando così l’aspetto meramente politico e giudiziario della questione e tralasciando invece l’aspetto dello scontro/incontro tra diverse religiosità e concezioni del mondo in una società, quella antica e poi tardo antica, che si trovava ad affrontare profondi cambiamenti politici, sociali, economici, religiosi e quindi di mentalità, della qual cosa le persecuzioni sono semplicemente uno dei portati più evidenti.

Però quelle parole d'esordio sembrano velatamente ambigue: Pischedda sta assumendo (erroneamente) che esisteva già nell'antichità una separazione tra politica e religione (da qui il classico semplicistico dilemma: erano giusti i romani o erano innocenti le vittime?) perfino quando vorrebbe bilanciare l'enfasi sull'aspetto religioso per correggere l'eccessiva enfasi data finora a quello politico, oppure vuole viceversa confutare ab novo la stessa rigida divisione tra aspetto religioso e aspetto politico?
Non so se si sia perfino posto il problema — anzi, a giudicare da recise affermazioni quali “il nome christiani ha per le autorità romane che lo hanno coniato una valenza sostanzialmente politica e quindi negativa” tutto nell'articolo indurrebbe man mano a pensare che lui si trascina ancora dietro come forma mentis di fondo la superata anacronistica proiezione della divisione moderna tra politica e religione nel mondo antico, non essendosene in definitiva mai del tutto liberato. 

Questo suo errore clamoroso rappresenta perciò la pistola fumante che mi fa rendere conto che l'autore di questo sedicente articolo “accademico” ha addirittura accennato al “recente” libro di Candida Moss sul tema con tanto di titolo, SENZA NEPPURE DEGNARSI DI LEGGERLO. E neppure se ne sono accorti i suoi sedicenti “scientifici” esaminatori, prova evidente che Lorenzo Noli e Valerio Polidori sono perfino più ignoranti di lui sulla stessa materia in esame! Ma d'altro canto: cosa mai potevo aspettarmi da così plateali folli apologeti cristiani?

L'avesse veramente letto il libro della prof. Moss, infatti, Pischedda avrebbe capito che il suo intero approccio alle fonti è totalmente sbagliato alla radice:
È semplicemente anacronistico dividere le antiche motivazioni in religiose e politiche. Erano inestricate insieme. Per noi, lo stato è — in teoria — esclusivamente politico e non dovrebbe interferire in questioni di fede personale, religione, o Dio. In realtà religione e politica sono completamente inestricate tra loro, ma noi idealizziamo la separazione tra chiesa e stato e la libertà degli individui di praticare le loro tradizioni religiose. Per gli antichi romani lo stato era sia politico che religioso, e ancor più importante, il cristianesimo suonava altamente politicizzato. Quel che significa questa differenza tra vedute moderne e antiche di politica e religione è che noi tendiamo a equivocare ciò che stava accadendo nel mondo antico.
(pag.102-103, mia libera traduzione e mia enfasi)

Candida Moss mette in guardia da quel classico pregiudizio culturale (di matrice apologetica protestante: quindi per una volta il cattolico Pischedda ne dovrebbe essere esente) che cerca di ridurre l'antica religiosità romana a mero atto di culto esteriore, un pregiudizio di origine protestante nella sua funzione implicita di condanna e biasimo dell'esteriorità considerata intrinseca al culto cattolico/ortodosso, visto in qualche modo erede, soprattutto nella ridicola liturgia, nel culto delle reliquie e dei santi, di certi aspetti del paganesimo greco-romano e in generale mediterraneo.
Una questione fondamentale, quando si tratta della nostra valutazione del trattamento romano dei cristiani, è la misura in cui i Romani  presero di mira i cristiani per le loro convinzioni. Era l'aderenza al culto imperiale romana una questione religiosa oppure una questione politica? Se si trattava di una questione politica, allora possiamo capire perché i Romani avrebbero insistito sul fatto che i cristiani ne erano coinvolti. Se si trattava di una questione religiosa, allora potremmo essere più inclini a simpatizzare con i cristiani.
Nel mondo antico la religione era, in un certo senso, dappertutto. Tutti gli aspetti della vita sociale, legale, professionale e morale di un individuo erano governati da principi religiosi. Se gli antichi romani volevano tenere i soldi in banca, li avrebbero depositati in un tempio per la custodia; se due imprenditori volevano eseguire una transazione economica, avrebbero fatto un giuramento religioso; reclute del servizio militare prestavano un giuramento di fedeltà; e candidati al governo e alla politica dovevano prima diventare pontefici (o sacerdoti) in particolari organizzazioni religiose. È difficile, quindi, parlare di pratiche che non erano religiose.
In passato si è sostenuto che il culto imperiale romano era solo un'organizzazione politica. È certamente vero che il culto imperiale serviva a funzioni politiche e sociali. Ma il solo fatto che il culto imperiale fu intessuto di stabilità politica e conformismo sociale non significa che esso e le pratiche tradizionali greche e romane religiose non avessero alcun contenuto o significato religioso. In passato gli studiosi hanno descritto le religioni tradizionali (o "il paganesimo") come solo rituali. I pagani, si pensava, badavano solo ai meri rituali;  in realtà non credevano veramente negli dèi ai quali sacrificavano. I cristiani, invece, credevano davvero nelle idee che professavano.
Questa immagine della fede e del rituale nel mondo antico non rappresenta proprio per nulla il mondo antico. Si è sviluppata sulla scia della Riforma Protestante durante le controversie tra protestanti e cattolici. Durante questo periodo i protestanti enfatizzavano la fede come il nucleo di ciò che significa essere cristiani. Questo concetto è incapsulato nello slogan di Lutero sola fide, "per la sola fede." Quando i primi teologi protestanti guardavano indietro alla chiesa primitiva e al loro rapporto con essa, si identificavano con i primi seguaci di Gesù.
Paragonarono il loro rapporto con la Chiesa cattolica romana al rapporto della chiesa primitiva col paganesimo. In questo confronto i cattolici erano i romani, e proprio come i protestanti pensavano che il cattolicesimo era gravato da vuoti rituali e idolatria e privo di fede, così anche i moderni pensavano che i Greci e i Romani erano solo impegnati a badare ai meri esteriori rituali. Erano solo antichi cattolici: automi senza cervello intenzionati a fare un rapido buck off di rituali senza senso.
Più di recente, gli studiosi si sono resi conto che lo stereotipo della religione romana come superficiale — l'equivalente religioso del lavarsi i denti — non è corretto. Noi chiaramente non sappiamo cosa stava balenando nella testa delle persone, ma non c'è motivo di supporre che i Romani non erano profondamente e veramente impegnati nelle loro tradizioni religiose.

(pag. 102, mia libera tradizione)

Nonostante la sua evidente origine protestante, il cattolico Pischedda sembra forse indulgere più di una volta (perchè?) in questa (apologetica ma consolidata) caratterizzazione negativa del politeismo tradizionale romano come arido e spoglio di sincera spiritualità interiore quando scrive:
Le trasformazioni e le crisi dell’impero nel III secolo, la sempre maggiore varietà di proposte religiose in ambito pagano, il deciso superamento del politeismo, le trasformazioni del platonismo, che tendeva sempre più a configurarsi come una religione, la crisi del senso di razionalità di matrice stoica anche presso le classi intellettuali romane, nonché un’attenzione sempre maggiore alle esigenze spirituali del singolo e quindi l’imporsi di quello che viene chiamato “l’uomo interiore” (contrapposto all’uomo “civico” dell’antichità classica), assieme al sostanziale fallimento delle misure repressive anticristiane, anche della Grande persecuzione dioclezianea, portarono agli editti di tolleranza del secondo decennio del IV secolo, nei quali si legittimava la religione cristiana e se ne ammetteva il culto accanto agli altri.
(mia enfasi)
Oppure quando ammicca alla pretesa equazione “maggiore estraneità” = “maggiore spiritualità” in espressioni apologetiche come questa:
La pretesa di estraneità dei seguaci di Cristo si radicava nella ferma convinzione dell'esistenza di una realtà altra a cui aspirare e che anzi rappresenta la vera realtà, così che già Paolo nella lettera ai Filippesi può ricordare loro che "la nostra cittadinanza è invece nei cieli" (Fil. 3,20).
(mia enfasi)
Oppure ancora quando sembra “protestantizzarsi” di brutto laddove scrive:
I romani dunque guardavano, e guarderanno sempre, ai cristiani come a una factio, una fazione, qualcosa che ha natura essenzialmente politica e quindi possibilmente sediziosa, pericolosa per l’ordine costituito e il bene dell’impero, non riuscendone a cogliere (oppure non essendone interessati) il carattere intrinsecamente spirituale e interiore proprio a causa della distanza tra la concezione civica di religiosità presso i romani, per i quali la religio era il culto pubblico e cittadino agli dei, e l’impostazione intimistica della fede professata invece dai cristiani.
(mia enfasi)

Anche un Martin Lutero (o un Giovanni Calvino) avrebbe potuto benissimo dire che i cattolici non riuscivano a cogliere “il carattere intrinsecamente spirituale e interiore” della Riforma dal momento che il cattolicesimo per lui si era ridotto al “culto pubblico e cittadino” dei santi cattolici e delle reliquie, tutto il contrario dell'“impostazione intimistica della fede professata invece dai cristiani” protestanti. 

Ma nella misura in cui Pischedda disprezza arbitrariamente la presunta aridità spirituale del paganesimo dietro espressioni ambigue quali “superamento del politeismo” oppure enfatizzando la presunta assenza tra i pagani di una “ferma convinzione dell'esistenza di una realtà altra” oppure di una “impostazione intimistica della fede professata invece dai cristiani” (quasi che i neoplatonici Celso o Ipazia fossero carenti di qualsiasi idea di trascendenza per il solo fatto di essere pagani), io per puro senso di opposizione al becero anti-paganesimo di Pischedda (che diventa “protestante” per giunta solo in quest'occasione) sono decisamente incline ad accettare la vulgata protestante che vuole il cattolicesimo stesso intrinsecamente compromesso colla presunta aridità spirituale pagana.

Vale la pena perciò insistere, contro questa facile riduzione del paganesimo a mera esteriorità e assenza di spiritualità che vede paradossalmente complici e alleati (nell'opera di genuino revisionismo di stampo apologetico) il cattolico Pischedda e la peggiore retorica protestante (paradossalmente anti-cattolica: perciò anti-Pischedda!) e contro l'anacronistica separazione tra politica e religione proiettata irrazionalmente dal folle apologeta Pischedda nel mondo antico, riprendendo direttamente le parole di Candida Moss:
Inoltre, non dobbiamo farci scoraggiare dal fatto che la religione abbia elementi politici, economici e sociali. È facile caratterizzare come mercenarie le antiche pratiche religiose che comportavano l'acquisto degli animali da sacrificare, ingrassare la palma di un sacerdote o sacerdotessa locale per l'accesso alla profezia, o implorare ad una divinità il successo nel mondo degli affari, della politica, o della guerra. Ma la mescolanza di religione in tutti gli aspetti della vita era molto comune nel mondo antico.
Tutti—Ebrei, pagani e cristiani parimenti—, pensavano che la religione permeava ogni parte della vita di una persona. Questo stato di cose non vuol dire che la religione è insincera, non più che pregare Dio per guarire un parente malato è una forma di sfruttamento divino.

(pag. 103, mia libera traduzione e mia enfasi)

L'autore è talmente privo di sano spirito analitico (un vizio comune a parecchi letterati) che non riesce nemmeno a sintetizzare nel minor numero possibile di righe cos'avrebbe in definitiva dimostrato con questo sedicente articolo “scientifico”. Col risultato che ho dovuto faticare non poco per identificare, se non l'originalità della tesi, almeno un'originalità di interpretazione, o anche solo la parvenza di tale.

Quello che impressiona (negativamente) intanto, è la tendenza costante dell'autore a tener conto di ipotesi che sono sfacciatamente apologetiche in natura (e a ignorare, viceversa, altre ipotesi che sono non solo serie, ma incrinano fortemente la fiducia nelle conclusioni dell'articolo) perfino quando lui stesso non le approva.

Ad esempio, quando dice:
I dati elaborati tenendo conto delle fonti a disposizione hanno fornito una cifra che varia da 3.000 a circa 18.000 vittime, seppure, data la frammentarietà delle fonti in nostro possesso, è assai probabilmente un cifra per difetto.

Se l'autore ritiene che si tratta “assai probabilmente” di una cifra per difetto nell'intervallo [3.000, 18.000], allora per quale motivo si scomoda a fare menzione della stessa cifra per eccesso? Come dicevo, l'impressione è che voglia in qualche modo ammiccare anche alla possibilità —e chissà? Magari anche alla probabilità — che fossero “circa 18.000” (sic) le vittime cristiane, aprendo così al potenziale riconoscimento delle peggiori letture apologetiche (che in un articolo che si pretende “scientifico” non dovrebbero avere a priori il minimo spazio di cittadinanza). E conoscendo da passate letture la famigerata fama apologetica di questo vanitoso autore di ostinata fede cattolica, il mio chiaramente è più di un sospetto.

Sospetto che viene puntualmente confermato col secondo esempio, laddove nell'articolo si fa riepilogo delle “tre teorie generali” sull'origine giuridica delle persecuzioni, capaci in egual misura, a detta dell'autore, “di produrre dati e argomentazioni a supporto” :

1) il cristianesimo non perseguito come tale, perciò perseguito totalmente entro le leggi vigenti senza necessità di ulteriori leggi ad hoc
2) una speciale legge ad hoc contro i cristiani: il senatoconsulto del 35 EC (sic)
3) il cristianesimo perseguito solo al di fuori delle ordinarie vie processuali (quando cioè ai singoli governatori era riservata speciale carta bianca su come agire coi cristiani, ogni caso contingente di persecuzione riflettendo perciò la personale neutralità o ostilità del particolare governatore o magistrato romano interessato)

Ora, anche se io personalmente propendo per la prima teoria (che fa giustizia anche di ostilità reciproche intra-cristiane, come accennato in seguito), non apprezzo per niente la scelta di Pischedda di far figurare l'ipotesi 2 —dalla natura squallidamente apologetica al 100% — tra le ipotesi 1 e 3, quasi che avesse davvero pari dignità scientifica e pari statuto quanto a capacità, come dichiarato dall'autore, “di produrre dati e argomentazioni a supporto”.

Per dirla tutta, io accuso a priori, senza neppure tante cautele di sorta, per il solo fatto di aver avuto il coraggio (o meglio, la sfacciataggine) di insinuare l'ipotesi 2, i signori “Volterra, Cecchelli, Sordi, Ramelli e in tempi ancora più recenti ... Barzanò e forse Saggioro e Sperandio” di essere nè più né meno che folli apologeti cristiani della peggior specie, bugiardi per Cristo senza alcun diritto di pontificare sulla questione. Punto.

L'idea che il senato, per pura opposizione all'“antisemita” Seiano (sic) braccio destro di Tiberio, decretasse espressamente un senatoconsulto contro i cristiani nel 35 EC (sic) appena dopo che magari il governatore della Giudea Pilato (sic) avesse trattenuto per una volta la sua brutale ferocia (sic) contro i giudei volendo anzi risparmiare un ipotetico Gesù storico (sic) alla morte sulla croce—ma invano (sic)— perchè nel frattempo lo stesso Seiano (sic) si sarebbe voluto mostrare più tollerante coi giudei costringendo il suo cliente (sic) Pilato ad agire di conseguenza (sic), è non solo assurda per il numero gratuito ed elevato delle più astruse e ridicole delle assunzioni possibili che si possano fare, ma invero inquietante perchè corrisponde precisamente a quella versione apologetica della Storia da Richard Carrier definita (e condannata) come TRIONFALISTICA.
In definitiva, il problema di fondo è come affermato da Rudolf Bultmann nel 1941: “il Gesù Cristo, che è il Figlio di Dio, un essere divino preesistente, è al stesso tempo una certa persona storica, Gesù di Nazaret”, che rende la cui estrapolazione un compito complicato. Questo è il problema di fondo della storicità: non abbiamo nessuna fonte (nessuna di sorta) su quest'ultimo Gesù. Abbiamo solo il primo. Dal quale noi dobbiamo “estrarre” quest'ultimo mediante qualche dispositivo. Che è risultato in due categorie generali della teoria: quelli che sostengono che l'equazione tra i due è vera (Gesù di Nazaret davvero è il figlio di Dio preesistente), i cui avvocati io chiamo i trionfalisti, e quelli che ritengono che questo cosmico Gesù era un leggendario sviluppo, dal semplice uomo (Gesù di Nazaret) al mito più favoloso (che lo stesso Gesù è anche il preesistente Figlio di Dio), i cui sostenitori io chiamo riduttivisti.
I miticisti, naturalmente, cercano di spiegare il fatto stesso (dell'equazione di queste due persone) invertendo l'ordine di causalità, proponendo che c'era un leggendario sviluppo dal mito originale (di un preesistente figlio di Dio) all'uomo più terreno (Gesù di Nazaret). Ma in ogni caso, sia per i miticisti che i riduttivisti, la domanda fondamentale è: “Com'è successo?”

(OHJ, pag. 26, mia libera traduzione, enfasi originale)

Ma se allora l'ipotesi di un senatoconsulto espressamente anticristiano nel 35 EC è solamente possibile se il Gesù della Storia non solo è esistito ma coincide addirittura strictu sensu con il “preesistente figlio di Dio”, allora per quale motivo il folle apologeta cattolico Jerim Bogdanic Pischedda ci tiene a darle lustro “scientifico” facendola figurare pomposamente in mezzo ad altre due ipotesi decisamente più credibili e razionali? Non so per quale cazzo di fottuto motivo lo ha fatto (eccome che lo so: solo un folle apologeta cristiano poteva fare qualcosa del genere!) ma di certo, agendo così, non ha agito da vero storico. E perchè su questo punto Pischedda non ha agito da vero storico lo spiega efficacemente un vero serio e competente storico:
Di conseguenza, si può dimostrare che tutte le teorie trionfalistiche hanno evanescenti piccole probabilità a priori. Inoltre accadono anche di fare un pessimo lavoro di spiegare l'evidenza.
Quindi, nessuna è degna di qualsiasi considerazione di uno storico obiettivo. Forse tale ipotesi può ancora essere razionalmente mantenuta su un'evidenza diversa da quella storica, ma ciò non è di alcuna rilevanza per gli storici, che hanno il compito di determinare solo ciò che supporta l'evidenza storica.

(OHJ, pag. 30, mia libera traduzione, mia enfasi)

Vedo qualcosa di intellettualmente perverso nell'uso che Pischedda fa di Tertulliano allorchè si ostina a dire che il retore latino “di fatto offre riscontri per tutte e tre le teorie, facendo sì che appaiano vere allo stesso tempo più ipotesi”, magari anche le più apologetiche come l'ipotesi 2 di sopra, che ancora Pischedda fa figurare (sic) come credibile in tutto rispetto al pari delle altre. L'assenza di evidenza che non siano le vaghe chiacchiere del folle apologeta cristiano Tertulliano permette a Pischedda di vedere l'“evidenza” che lui desidera vedere.
Per questo mi mantengo scettico quando Pischedda che la prima lettera di Pietro sarebbe “uno scritto canonico della fine del I secolo” (anche Richard Carrier la considera tale e perfino genuina, ma per motivi che l'apologeta in questione di certo non approverebbe) incurante di chi la colloca a secondo secolo inoltrato.
Come fa poi a dire che la Lettera a Diogneto sarebbe “probabilmente della seconda metà del II secolo”, quando non è affatto probabile che risale precisamente a quel periodo [1]?


Ma poi, dove sta scritto che si dovrebbe credere per forza a tutto quello che scrive Tertulliano? Il folle apologeta che accusò spudoratamente senza il minimo briciolo di prove Marcione di aver “circonciso” Luca (quando in realtà era vero proprio il contrario)?

Illuminanti, per quanto riguarda ogni racconto dato da cristiani intorno a presunte persecuzioni anticristiane (di ogni tempo), sono le parole di Candida Moss, che potrei facilmente impugnare contro lo stesso Pischedda:
Nella storia del cristianesimo il martirio dei dodici apostoli è stato un importante argomento a favore della verità del cristianesimo. Dopo la morte di Gesù, i suoi discepoli si laurearono allo status di apostoli. Cominciarono in pochi—evangelizzando la Giudea e le zone a nord della Galilea—, ma a poco a poco tracimarono attraverso l'Impero romano,  esplorando territori insidiosi e inospitali.
Secondo diverse leggende, tutti gli originari apostoli andarono incontro a morte prematura per mano di partiti ostili. Le raffigurazioni della loro morte adornano le pareti delle chiese e le opere d'arte dei musei di tutto il mondo.
La volontà degli apostoli ad accettare la morte per il loro Salvatore è stato un punto chiave nella moderna apologetica cristiana. Molto è in gioco nel martirio dei seguaci di Gesù. Dopo tutto, i Dodici erano coloro che conobbero personalmente Gesù, che lo seguirono in giro per l'antica Palestina, testimoniarono la sua risurrezione, e diffusero i suoi insegnamenti dopo la sua morte.

Presumibilmente essi non solo sapevano se la risurrezione fosse stata una farsa; sarebbero stati loro a fabbricare l'idea.  Perché questo gruppo di uomini ha rischiato la tortura e la morte se Gesù non fosse veramente risorto dai morti? Sicuramente i loro martiri sono la prova della veridicità del cristianesimo e della verità degli eventi descritti nel Nuovo Testamento.
Questo argomento è più convincente per i cristiani che per i non cristiani. Dopo tutto, le persone muoiono per un sacco di motivi, e nel mondo antico questi comprendevano il paese, la città, la verginità, la religione, i parenti, e —nel caso di Ifigenia—un tempo propizio per la navigazione. Questo non rende automaticamente corrette le loro azioni o giuste le loro cause. Ciò che rende questo particolare argomento così potente per i cristiani, però, è che furono gli apostoli ad essere stati testimoni della risurrezione e ascensione di Gesù. Anche se non possiamo essere d'accordo con la decisione degli apostoli di morire, potremmo ancora trovarci ad ammettere che non sarebbero stati disposti a morire se non avessero visto veramente qualcosa.

(pag. 80, mia libera traduzione, enfasi originale)

Si rende dunque necessaria, stimolati dalla Moss, una vera e propria cautelativa “ermeneutica del sospetto” non solo sulle antiche fonti cristiane a proposito di presunte persecuzioni anticristiane, ma anche sullo stesso articolo del cristiano (cattolico) Pischedda, a cui, come s'è visto sopra, non sembra affatto estranea la forte tentazione di lasciare aperta la porta, ad ogni occasione, alla più irrazionale lettura apologetica di turno.  

È solamente all'inizio di pagina 5 (sic) che l'autore trapela cosa intende precisamente mettere in luce:
Le testimonianze giunte sino a noi, troppo numerose e concordi per poter essere dismesse come semplice invenzione vittimistica e apologetica, inducono a ritenere che gradualmente, a partire dagli inizi del II secolo, ovvero dall'epoca di Traiano, si sia iniziato a delineare un vero e proprio reato di cristianesimo nel giudizio delle autorità romane, non espresso formalmente in una legge precisa e generale ma piuttosto come prodotto dell'avversione nei confronti dei cristiani e dell'uso consuetudinario avallato di fatto dai vari imperatori, il tutto probabilmente basato, per analogia, su leggi tendenti a limitare l'adesione dei cittadini di Roma a culti stranieri, soprattutto se contrari all'ordine sociale.

Sembra evidente a me che l'autore voglia proporre una veduta di compromesso tra l'ipotesi 1 e l'ipotesi 3 (ammiccando apologeticamente di tanto in tanto, nel tentativo, alla sua sciagurata, anti-scientifica e anti-storica ipotesi 2, magari facendola rientrare sottobanco ben mimetizzata e “rifatta”): nonostante l'assenza di decreti ufficiali “ad Christianos”, nonostante la sporadicità delle persecuzioni, nonostante i differenti capricci del governatore e/o magistrato di turno, nonostante tutti gli altri fattori da considerare primi tra tutti l'inaffidabilità delle stesse fonti cristiane e la proverbiale ignoranza pagana su tale culto (per non dire sul suo presunto fondatore), ecc., il cristianesimo per se sarebbe stato secondo Pischedda, almeno da un certo punto in poi, “nel centro del mirino” pagano e romano. Illegale de facto agli occhi dei romani, se non in forma ufficiale, in virtù della sua intima natura fondamentalmente aliena al mondo greco-romano. E come tale percepito dalla maggior parte dei singoli governatori. Perfino a meno di espliciti senatoconsulti o decreti imperiali. Questo sembra essere propenso a dimostrare Jerim Pischedda in questo articolo. Soltanto, provo un pò del rammarico misto a disappunto, nella veste del critico (o se il termine suona troppo pomposo o immodesto, in quella di un privato lettore), perchè è una tesi che non è espressa esplicitamente dall'autore se non a malapena (di certo non nell'incipit dell'articolo)—colpa la congenita riluttanza dell'autore ad essere un pochettino più analitico—, per cui sono stato costretto mio malgrado a doverla dedurre quasi “a forza” tra le righe.

L'impressione generale è che questa tesi sembra voler costituire a priori un'evidente apologia in particolare contro i proponenti dell'ipotesi 1, secondo i quali il cristianesimo fu perseguito nei limiti della legalità esistente, tanto era insignificante. All'apologeta in questione questo fatto non andrebbe a genio, dal momento che verrebbe ad essere eclissata la presunta originalità dell'identità cristiana dietro banali fatti di ordine pubblico. Mentre invece la realtà storica, nelle speranze di Pischedda, dovrebbe cercare di approssimare le parole di Atti degli Apostoli, laddove quella tendenziosa propaganda proto-cattolica anti-marcionita riporta la presunta accusa scagliata contro le presunte vittime:
Questi uomini gettano il disordine nella nostra città; sono Giudei e predicano usanze che a noi Romani non è lecito accogliere né praticare.
(Atti 16:20-21)
Posso davvero concordare quando Pischedda scrive:
Non vi è dubbio che il cristianesimo praticamente sin dall'inizio venga percepito come una devianza, prima dall'ebraismo, la sua matrice culturale originaria, alla quale tuttavia rimane legato per lungo tempo, poi dal mondo greco-romano.
Ma non per le parole di Tacito alle quali si appella l'autore dell'articolo, le quali erano probabilmente riferite invece ai crestiani del riottoso Cresto nominato da Svetonio (come dimostrato da Richard Carrier).

Piuttosto, io vedo conferma di questo nella probabile fonte ebraica risalente alla metà del II secolo utilizzata dal pagano Celso nel suo “Discorso Vero”:
Alcuni, dunque, Egiziani di stirpe, si ribellarono contro gli Egiziani e, lasciato l'Egitto e giunti in Palestina, hanno fissato la loro dimora nella regione ora chiamata Giudea. Gli Ebrei, che erano Egiziani, hanno tratto la loro origine da una rivolta: allo stesso mdo molti altri ancora, che erano Ebrei, ai tempi di Gesù si sono ribellati contro la comunità ebraica e si sono posti al seguito di Gesù. Una rivolta, quindi, è stato un tempo l'origine della formazione della comunità ebraica e una rivolta è stata, in seguito, l'origine dell'esistenza dei cristiani. Che se tutto il genere umano fosse disposto ad essere cristiano, questi non lo vorrebbero più. All'inizio erano in pochi ed avevano una sola opinione; disseminatisi fino a diventare moltitudine, ecco che a loro volta si dividono e si separano e ciascuno vuole avere la sua propria setta, perchè questo fin dal principio essi cercavano. Divisi ancora, dunque, a causa della moltitudine, si confutano a vicenda mantenendo comune, per così dire, una sola cosa, se pur la mantengono: il nome. Questo solo almeno si vergognano di abbandonare, mentre per tutto il resto chi ha assunto una posizione, chi un'altra. La loro società invero tanto più sorprende quanto più si dimostra basata su nessun valido presupposto. O meglio, valido presupposto è la ribellione e il profitto che da questa proviene e il timore degli estranei. Tutto ciò conferma la loro fede.
(Origene, Contra Celsum, 3:6-10, 12, 14, mia enfasi)

Dov trae origine questo senso intimo di ribellione?
Non nel fatto che la predicazione di “Cristo crocifisso” sarebbe suonata sinistra e sediziosa alle orecchie di ogni governatore romano, come spera il Pischedda (ancora una volta: separando la politica dalla religione), bensì nel tratto comune ad ogni monoteismo, il suo più intimo e malcelato più perverso desiderio: l'agognata distruzione, prima o poi, di tutti i rivali dell'unico Dio.

Devo al grande studioso Stevan L. Davies la sottolineatura di questo aspetto:
Che cosa provocò l'irruzione dello stile religioso di una particolare insignificante regione così da sopraggiungere a dominare il mondo romano? Non era qualche insieme di dottrine attribuite a Gesù, e neppure l'idea che Gesù fosse risorto dalla tomba, esso era la Pentestoste, 27 Maggio, 33 E.C. L'esplosiva diffusione del cristianesimo, basata sulla nuova possibilità per ciascuno di ogni dove di esperire lo Spirito Santo di Yahweh, portò alla rapida dispersione delle comunità cristiane per tutto l'Impero romano. Con l'ampia dispersione delle comunità cristiane sopraggiunse la dispersione di ciò che adottarono come loro santa scrittura, la Bibbia Ebraica. La Bibbia Ebraica, scritta per diffondere e difendere il monoteismo rafforzato dalla politica di Giosia, emerge sulla fondazione del “libro della legge di Yahweh per mano di Mosè” che richiede la distruzione di tutti i rivali dei sacerdoti di Yahweh di Gerusalemme.
La diffusione del cristianesimo, provocata dall'esperienza di possessione spirituale per tutto l'Impero romano trasferì con esso la diffusione della Bibbia Ebraica, intesa a parlare profeticamente di Cristo Gesù e intesa a definire il popolo eletto di Dio come quello di fede cristiana (Galati 3:6-9) e così via. Dopo l'adozione di Costantino della religione cristiana, le ingiunzioni bibliche di eliminare tutti i culti tranne il culto di Yahweh a Gerusalemme vennero ad essere comprese come ingiunzioni ad eliminare tutti i culti tranne quello della chiesa cristiana cattolica. E, un pò più tardi, erano capite come ingiunzioni per sostituire tutte le religioni politeistiche con l'Islam. Quelle ingiunzioni dominano ancora i conflitti occidentali politici e militari nel ventunesimo secolo, e l'opera di Giosia nel 627 A.E.C. circa sta ancora per essere realizzata nel mondo islamico da quel che i media americani chiamano “Jihadis”.

(Afterworld: The Two Most Importants Events in Western History, in Spirit Possession and the Origin of Christianity, pag. 316-317, mia libera traduzione)
L'importanza di un nuovo tipo di monoteismo, un monoteismo non più relegato ai suoi legittimi proprietari ebrei ma esportato dai predicatori di Cristo Gesù tra i pagani assieme al congenito odio monoteista per gli idoli pagani (attenuato in seconda fase solo dall'odio che alcuni cristiani presero nei confronti dello stesso dio degli ebrei) è enfatizzato giustamente da Candida Moss.
I cristiani avevano ereditato il loro forte senso del monoteismo e la condanna degli idoli dal giudaismo. Nelle storie del martirio i cristiani spesso citano o alludono al libro biblico di Daniele, in cui Daniele afferma che egli non sacrificherà agli idoli (ad esempio, 3,18). Durante i primi cinquant'anni dopo la morte di Gesù, i seguaci di Gesù avevano beneficiato di questo sistema. Erano una piccola organizzazione relativamente anonima, e sono stati considerati dall'amministrazione come ebrei. Le autorità ebraiche e i capi della sinagoga avevano trovato un modo per negoziare un ruolo per se stessi nel culto imperiale che né offendeva la loro sensibilità religiosa né causava problemi coi Romani, ma i cristiani non lo trovarono. Come i cristiani divennero più visibili e identificabili come un gruppo distinto dagli ebrei, questo diventò più problematico. Agli occhi dello stato, loro stavano passando da un'antica religione con tradizioni specifiche che formavano la loro partecipazione nel culto imperiale ad una nuova superstizione in rapida diffusione.
Per i romani, la partecipazione al culto imperiale era qualcosa che legava assieme l'Impero. Proprio come il pegno di fedeltà, si trattava di un rito comunitario che solidificava i legami sociali tra gli individui a livello locale e regioni e gruppi disparati a livello imperiale. In tempi di instabilità politica o sociale, il culto imperiale divenne particolarmente importante come una forma di stabilizzazione del flusso e riflusso di potenziale disordine.
I cristiani, come è ormai chiaro, non avrebbero partecipato al culto imperiale, e per i Romani, questo stato di cose era pericoloso. Da una prospettiva antica, la presenza di un gruppo religioso non conforme in ogni comunità era una minaccia per quella comunità.
Lo sviluppo umano era una faccenda delicata, e la religione era un modo in cui la salute, il successo politico, l'indipendenza, la buona vendemmia, il bel tempo, e tutti gli aspetti della vita quotidiana venivano gestiti. I cristiani minacciavano tutto questo. Minacciavano di interrompere la pax deorum (“la pace degli dei”) e, così facendo, arrecavano la distruzione su tutti. Per i romani, la non partecipazione cristiana nel culto imperiale era minacciosa. La loro ostinazione non era solo irrispettosa e iconoclasta; poteva potenzialmente far cadere l'impero.

(pag. 104, mia libera traduzione e mia enfasi)

Via via che scorgo l'“evidenza” che Pischedda intende portare a supporto della sua tesi, noto che l'enfasi è sempre e comunque sulla diffidenza pagana verso la diversità dei cristiani, non dicendo mai nulla, mai una parola, neppure una singola riga, sulle diversità TRA i cristiani.

Perchè c'erano cristiani e cristiani. Così Celso:
E non si creda che io non sappia che tra loro alcuni ammettono di avere lo stesso dio degli Ebrei, altri un dio diverso al quale quello si oppone e dal quale è venuto il figlio. Anzi so benissimo dell'esistenza di una terza categoria di persone che chiamano alcuni Cristiani col nome di psichici e gli altri col nome di pneumatici.
Vi sono poi alcuni che professano di essere Gnostici, altri che, pur accogliendo Gesù, desiderano vivere ancora secondo la legge ebraica, come la massa degli Ebrei, e altri sono poi Sibillisti. Conosco anche dei Simoniani, i quali, venerando Elena o Eleno come loro maestro, son detti Eleniani; ci sono i Marcelliani, seguaci di Marcellina, e gli Arpocraziani, seguaci di Salòme, ed altri ancora seguaci di Mariamme ed altri di Marta. I Marcioniti poi riconoscono il loro capo in Marcione. Altri ancora ne conosco: e chi si è trovato come suo capo un maestro o un demone e chi un altro, brancolando ed aggirandosi tristemente in una gran tenebra ancor più nefanda ed impura di quella dei devoti di Antinoo in Egitto.
[2] A vicenda costoro si scagliano le ingiurie più orribili, dicibili ed indicibili, né potrebbero rassegnarsi alla concordia a nessun patto, poiché si odiano l'un l'altro senza remissione. Così chiamano Circi e «astuti mestatori» gli aberranti. Altri son chiamati «marchio dell'orecchio», altri «enigmi», altri ancora «scandali»; alcuni «Sirene danzanti» e «seduttrici che sigillano le orecchie con la cera e che trasformano in bestie con la testa di porco chi dà loro retta». E da tutti questi, che tanto son disuniti e che tanto turpemente si accusano nelle loro rivalità, sentirai dire: «Il mondo è stato crocifisso per me ed io per il mondo...». E poi i Cristiani esperti nelle scritture sostengono di averne una conoscenza superiore a quella degli Ebrei!

(Origene, Contra Celsum, 5:61-65, mia enfasi)
I nicolaiti, ad esempio, non si facevano un problema a nascondere la loro fede quando occorreva, beccandosi per questo le invettive dell'allucinato autore dell'Apocalisse ma in compenso salvando la pelle. Eppure Pischedda scrive: “Era pertanto impossibile per un cristiano sacrificare agli dei e sperare nella salvezza accordata dal Dio cristiano”. I cristiani valentiniani erano chiamati tali non perchè è esistito uno storico Valentino, ma al contrario perchè si gloriavano di “valere” di più rispetto agli altri cristiani giudaizzanti, specie quando non si facevano problema di mangiare carne offerta agli idoli, incuranti del saggio consiglio di “Paolo” a loro rivolto:
Ma non tutti hanno la conoscenza (γνῶσις); alcuni, fino ad ora abituati agli idoli, mangiano le carni come se fossero sacrificate agli idoli, e così la loro coscienza, debole com’è, resta contaminata. Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio: se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa; se ne mangiamo, non ne abbiamo un vantaggio. Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza (γνῶσιν), stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello.
(1 Corinzi 8:7-13)
Eppure, secondo i dogmatici schemi mentali di Pischedda (che non vive nel nostro universo, ma in un universo “Cattolico”), non sarebbero mai potuti esistere cristiani che avrebbero mangiato carne offerta agli idoli! Contro la stessa testimonianza di “Paolo”!
E l'ironia vuole che Pischedda citi proprio “Paolo” per difendere le sue insensate pretese:
Già Paolo infatti ritiene gli idoli non sono oggetti inanimati ma anche un collegamento con il mondo dei demoni, così che l'idolatria è un'espressione del male cosmico.
Pischedda dappertutto vede i “cristiani” come un blocco monolitico, “ovviamente” proto-cattolico, invisibile eppure presente. Perfino quando, a detta di Stevan L. Davies, la comunità ebraica dietro il documento noto come Le Odi di Salomone, non era affatto cristiana, eppure era incentrata attorno alla possessione spirituale di un “Cristo” sofferente per nulla inteso per l'ipotetico “Gesù di Nazaret”.
Temi principali che sono vitali alla religione cristiana sono assenti nelle Odi di Salomone. Grant cita una conversazione con il suo amico Arthur Darby Nock: “Il professor Nock mi ha indicato in questa connessione, che noi possiamo probabilmente concludere che il Cristo delle Odi di Salomone non fu veramente nato, non visse veramente, non fu veramente crocifisso, non morì veramente.”
(pag. 249, mia libera traduzione)

Nessuna parola da parte di Pischedda neppure di questi pre-cristiani adoratori di un “Cristo” celeste. Neppure quando secondo Davies erano gli stessi pre-cristiani perseguitati da Paolo (alla cui storicità Davies crede) prima di convertirsi al cristianesimo:
Secondo la testimonianza oculare di Paolo esistevano chiese perseguitate che si estendevano da Gerusalemme per la Giudea e Galilea almeno fino a Damasco e forse eventualmente in Arabia, dove Paolo viaggiò immediatamente dopo la sua esperienza di conversione. Data la cornice temporale, così piccola come un anno (33 EC) fino a non più di cinque (dal 30 EC fino al 35 EC) è impossibile che la religione di Gesù di Nazaret il Salvatore crocifisso e risorto si avviò a cominciare, poi espandere, poi diffondersi come una rete di comunità ecclesiastiche da Gerusalemme e Giudea oltre la Samaria e attraverso la Galilea e via via fino a Damasco mentre è coinvolta in azioni così malvagie da suscitare persecuzione, e poi soffrire la conseguente intensa e distruttiva persecuzione di cui narra Paolo. Io penso che è probabile che la nostra ipotesi che Paolo perseguita una rete di chiese cristiane fondate attraverso la missione di Gesù di Nazaret e della sua immediata famiglia (Giacomo, Maria, ecc.) e discepoli (Pietro, Giovanni, ecc.) è sbagliata. Invece, c'era una rete di comunità orientate all'ebraismo delle Odi di Salomone che esisteva ben prima del 33 EC, estendendosi almeno da Gerusalemme fino a Damasco.
...
La discontinuità tra il Gesù storico come è stato costruito dagli studiosi per tutto il secolo scorso e la forma di religione predicata dall'apostolo Paolo è così soverchiante che alcuni concludono che non ci fu per nulla nessun Gesù storico. Alcuni altri credono che Paolo inventò il cristianesimo che predicò ab novo oppure, come direbbe lui, per divina rivelazione, ma Paolo ci racconta di essersi unito ad un gruppo di comunità che stavano predicando la religione che lui stesso cominciò a predicare, e dal momento che la religione che Paolo predica è una religione focalizzata largamente sull'esperienza trasformazionale dello Spirito di Dio/Cristo/Figlio non è difficile sostenere che le chiese che prima perseguitò e poi avvicinò erano anch'esse focalizzate largamente sull'esperienza trasformazionale dello Spirito di Dio/Cristo/Figlio, come era la religione ebraica delle Odi di Salomone.

(pag. 273, 275, mia libera traduzione)

Nessuna parola neppure dell'eventuale ostilità che si sarebbero beccati cristiani come Paolo quando indugiavano un pò più del dovuto nel loro classico comportamento mistico-allucinatorio.

Quando leggo questi sedicenti articoli “accademici” di Pischedda, non posso fare a meno di sospettare che il suo autore sia rimasto suo malgrado fermo al tendenzioso paradigma del folle apologeta Ireneo, con il cristianesimo proto-cattolico quello originario e tutte le eresie sue successive deviazioni, magari concedendo solo al loro abominevole padre—il mostruoso doppio di “Paolo”, ovvero Simon Mago—il privilegio (o la condanna?) di essere contemporaneo dei primi “veri” 12 apostoli.

Beccandosi meritoriamente quest'altra critica da parte della Moss:
L'affermazione che i cristiani e solo i cristiani sono martirizzati ha le sue radici nei giorni più antichi della chiesa. Fu un punto di orgoglio tra antichi maestri e scrittori cristiani. Giustino Martire, un maestro cristiano del II secolo che insegnò e morì a Roma, scrisse nella sua difesa del cristianesimo che nel suo tempo solo i cristiani sono stati perseguitati per il loro nome, “Cristiano”; che gli eretici non erano perseguitati; e che gli unici che gli ebrei da sempre perseguitavano erano i cristiani.
La dichiarazione di Giustino è leggermente sfumata e ha chiari obiettivi retorici—lui aggredisce i suoi avversari intellettuali e gli ebrei con un solo colpo—, ma le sue affermazioni sono state brandite da generazioni di cristiani dall'antichità fino ai nostri giorni. Ogni cristiano moderno affermerà che il vero martirio è unico al cristianesimo e serve come dimostrazione dell'autenticità e della verità del messaggio cristiano.
Questo punto di vista non riguarda solo i credenti; molti studiosi sostengono qualcosa di simile. La maggioranza degli studiosi biblici e i primi storici della chiesa primitiva riconoscono che i cristiani utilizzavano le antiche storie usati della morte eroica per sviluppare la loro comprensione del martirio, ma allo stesso tempo sostengono che il martirio era peculiare al cristianesimo.

(pag. 17, mia libera traduzione e mia enfasi)
Pischedda deve ficcarsi nella sua zucca di apologeta che non non c'è mai stato un solo cristianesimo e nemmeno mai ci sarà. Piuttosto, una varietà di gruppi cristiani gareggiavano tra loro nei primi anni. Una forma di cristianesimo alla fine arrivò a dominare in diverse regioni del mondo antico, ma solo dopo un periodo di lotta. Anche se diventò la base di quello che sarebbe stato chiamato pomposamente il cristianesimo cattolico, prima del IV secolo il suo trionfo finale non era per nulla assicurato, e quindi è meglio chiamarlo “proto-cattolicesimo” nel periodo precedente Costantino.

I folli apologeti cristiani devono accettare la diversità e non cercare di privilegiare ogni volta il cavallo proto-cattolico nella corsa per la supremazia, che è solo uno tra gli altri cavalli concorrenti in gara. Perchè c'erano molti cavalli nella gara quando cominciò, e altri ancora si aggiunsero più tardi alla medesima. I folli apologeti cattolici devono ammettere che i primi cristiani erano seriamente in disaccordo su aspetti fondamentali della fede. Questa congenita diversità —per cui i primi cristiani erano come tanti mostruosi zombie assolutamente refrattari a venir perfino ricondotti ad un unica origine del morbo, talmente erano diversi e apparentemente “alieni” gli uni agli altri— è così evidente che sarebbe da folli—e precisamente da folli apologeti cristiani—non accettare fino in fondo.

E comincio a sospettare che Pischedda sia uno di quei folli.


Trascurando del tutto l'esistenza di questi cristianesimi “altri” (e delle reazioni negative che anch'essi provocarono nel mondo romano), Pischedda preferisce affidarsi sempre e solo alle sue fonti cristiane predilette, il folle apologeta Tertulliano in primis, esponenti di una chimerica quanto tendenziosa e propagandistica Traditio.

A quel punto, dopo l'iniziale interesse, io comincio a stancarmi (e un pò a disgustarmi) di continuare la lettura di questo polpettone apologetico di Pischedda, come tutti i piatti dal sapore promettente che entusiasmano al primo boccone e tendono a diventare, dopo troppe porzioni identiche, stucchevoli e indigesti. 

Il solito, costante, monotono leit motiv oramai apologetico di Pischedda si riduce ad uno solo:
Ciò che i romani non riuscivano a capire era che il cristianesimo aveva interiorizzato la pratica cultuale subordinandola alla fede personale in Cristo, quindi all'adesione completa all'opera misericordiosa della salvezza compiuta con il sacrificio della croce.
Detta così, alla Pischedda-&-apologetica maniera, sembrerebbe che l'incomprensione fosse TUTTA ed ESCLUSIVAMENTE dei romani. Erano loro gli ignoranti. Erano loro che “non riuscivano a capire”. Crederò al Pischedda soltanto quando lui avrà il coraggio intellettuale, se è davvero onesto, di presentarmi un solo esempio —uno!—, di cristiani che secondo lui non avevano capito un cazzo al contrario dei romani. E perfino allora sarò deluso, perchè gli unici esempi che Pischedda porterebbe, perfino in quell'ipotetico caso, saranno cristiani puntualmente “eretici”, lui solo, da buon cattolico, possedendo la Verità.

Eppure mi basta scoprire ed evidenziare un unico, illuminante contro-esempio a tutta la stomachevole retorica apologetica che l'articolo di Pischedda pretende di far bere ai suoi sprovveduti lettori, polverizzandola dalle fondamenta.

CHI erano i cristiani letteralmente ansiosi di farsi ammazzare dai romani, guadagnando così il paradiso all'istante stesso della morte? Guardacaso, proprio i cristiani che avrebbero formato la Chiesa alla quale si gloria follemente di appartenere lo stesso Jerim Pischedda. I proto-cattolici (o proto-ortodossi che dir si voglia: preferisco il termine “proto-cattolici” perchè sembra che per la moda di oggi i cattolici vogliano farsi belli passando per protestanti rispetto a quei dementi oscurantisti dei cristiani ortodossi orientali).

Così scrive la magnifica Candida Moss:
... c'è evidenza davvero piccola di una persecuzione dei cristiani anteriore al 250.
Possiamo immaginare i modi in cui i cristiani si ritrovarono nelle aule dei tribunali, ma questo scenario deve essere pesato contro l'evidenza di governatori docili e amichevoli proconsoli. Nella sua lettera al governatore Scapula, il proconsole d'Africa nel 212, Tertulliano fa notare che molti governatori erano clementi coi cristiani accusati, incoraggiandoli a ritrattare e addirittura respingendo le accuse mosse contro di loro. In un famoso episodio dell'Asia Minore intorno al 185, una folla di cristiani marciò alla volta della casa di C. Arrio Antonino, il governatore della provincia d'Asia, e chiese di essere condannata a morte. Il governatore, senza dubbio irritato dall'interruzione, mandò via i cristiani, dicendo loro che se volevano morire, avevano dirupi da cui scaraventarsi e corde con cui impiccarsi. Se lui avesse voluto seguire le linee guida della corrispondenza tra Plinio e Traiano, avrebbe potuto condannare a morte i cristiani, e tuttavia questo particolare amministratore non si preoccupò di intentare processi. Non tutti gli amministratori romani erano interessati ai cristiani; molti volevano solo vederli andare via.
La storia ci potrebbe indurre a credere che il martirio era diffuso e molti cristiani stavano morendo, ma questo è qualcosa di un esempio isolato. Non ci sono testimonianze di incidenti come questo in altre fonti, sia in Asia Minore o altrove, fino alla fine del IV secolo. Inoltre, questa non è una storia su cristiani che muoiono. Quello che la storia descrive sono migliaia di cristiani desiderosi di morire, ma in realtà rispediti a casa delusi. È facile immaginare perché i cristiani, avendo sentito parlare della morte di Gesù nei vangeli e le storie dei roghi e le voci sulla morte degli apostoli, considerarono desiderabile una morte come quella di Gesù. Vedremo più avanti in questo libro quanto era vantaggioso il martirio per i cristiani. La cosa interessante, però, è che i romani non li stavano affatto obbligando. Qui abbiamo dei cristiani che letteralmente chiedono a gran voce di morire, e loro sono stati rimandati a casa vivi e vegeti. Secondo la storia, non furono nemmeno torturati o incarcerati.
Se, come la leggenda vorrebbe farci credere, i romani stavano a perseguitare costantemente e continuamente  i cristiani, allora perché questo particolare governatore ha permesso ai cristiani di andarsene liberi? Non solo lui non stava perseguitando i cristiani; egli in realtà si stava rifiutando di perseguitarli. Il mito del martirio sostiene che i cristiani erano costantemente perseguitati e uccisi in gran numero. Eppure qui, nell'unico esempio dei primi tre secoli dopo la morte di Gesù, in cui un folto gruppo di cristiani potrebbero essere stati perseguitati, troviamo esattamente la situazione opposta. Invece di romani che perseguitano i cristiani, i cristiani sono volenterosi di morire. E invece di essere cristiani interrogati, torturati e giustiziati, sono licenziati senza essere degnati di un secondo sguardo.
In questo periodo prima del regno dell'imperatore Decio, i cristiani erano ampiamente detestati. Nel prossimo capitolo esploreremo perché i romani disprezzavano i cristiani. La cosa importante da notare per noi per ora è che prima del 250 non c'era alcuna legislazione in vigore che richiedeva una qualche azione dai cristiani tale da poterli condannare a morire. Anche la corrispondenza tra Plinio e Traiano fornì delle linee guida solo per Plinio, non per tutto l'impero. Non abbiamo notizie di soldati che raccoglievano cristiani, e l'evidenza che noi abbiamo suggerisce che i Romani erano fortemente contrari a questo tipo di specifica presa di mira. Il clima era ostile, ma non vi era alcuna persecuzione attiva.

(pag. 85-86, mia libera traduzione e mai enfasi)

Visto? Queste parole chiarissime di Candida Moss sembrano smontare l'intero fasullo teorema edificato goffamente da Pischedda sulla scorta di due inaffidabili testimoni: Tacito (sic) e Tertulliano (notoriamente inaffidabile quanto lo stesso Pischedda nel riportare la verità storica).
Rivelando, per chi avrà il coraggio di leggere il resto del suo articolo (in parallelo col libro della Moss), che il re è nudo. Che Pischedda è dalla testa ai piedi un banale, folle apologeta cristiano.

Come fa Pischedda a datare il suo precursore Aristide di Atene “tra il 124 e il 140 d.C.” quando la sua Apologia tradisce la sua inautenticità fin dal fatto che è indirizzata all'imperatore Adriano, quasi che l'imperatore in persona (sic) dovesse degnarsi di offrire un'audienza o un minimo scorcio d'attenzione a quella piccolissima, minuscola setta ancora in fase nascente per tutto il II secolo, di cui c'è evidenza prossima a zero fino a ben oltre la metà del secondo secolo.

Io penso che gli apologeti cristiani successivi erano molto propensi a sfruttare l'infelice fama degli imperatori meno amati (come Nerone e Domiziano) per attribuire loro persecuzioni inesistenti di cristiani parimenti inesistenti. Come non pensare a Sulpicio Severo, probabile autore del frammento 2 di Tacito e degli abbellimenti relativi? Per converso, erano davvero imbarazzati quando a perseguitare veramente i cristiani furono imperatori rinomati come Marco Aurelio.
A proposito di quest'ultimo, si guardi come Candida Moss smaschera il folle apologeta Eusebio:
Ironicamente, Eusebio voleva preservare la reputazione di alcuni buoni imperatori. All'inizio della sua Storia della Chiesa usò il nome di "Antonino Vero" per Marco Aurelio perché poteva essere più facilmente confuso col co-imperatore Lucio Vero. Marco Aurelio era ben considerato nel IV secolo, e Eusebio voleva deviarne la colpa sul suo meno notevole co-imperatore. Si veda H. A. Drake, Constantine and the Bishops: The Politics of Intolerance (Baltimore: Johns Hopkins Univ. Press, 2000), 386–87.
(pag. 171, mia libera traduzione e mia enfasi)
Pischedda assume a priori che l'oggetto universale di culto dei cristiani del II secolo fosse “un sedizioso predicatore ebreo giustiziato dalle autorità romane” eppure lo stesso Celso scrive:
E venga pure il secondo coro: chiederò loro donde provengano e chi sia l'autore delle loro tradizioni.
Non ne potranno indicare nessuno, poichè essi derivano da lì e da nessuna altra origine traggono il loro maestro e capocoro: eppure si sono distaccati dagli Ebrei. Ora non sto a citare le confutazioni che circa il loro maestro si possono muovere contro di essi, ma lo si assuma pure quale vero angelo [
ὡς ἀληθῶς ἄγγελος]. Ebbene, costui è venuto sulla Terra come primo e solo oppure anche altri prima di lui sono venuti? Se rispondessero che fu il solo, sarebbero convinti di contradditorie menzogne, perchè sostengono che anche altri spesso sono venuti e una volta sessanta o settanta tutti insieme.
(Origene, Contra Celsum, 5:33, 52, mia enfasi)

Pardon?? Ho sentito bene? Come “vero angelo”? Ma Gesù non era conosciuto prevalentemente come “un sedizioso predicatore ebreo giustiziato dalle autorità romane” ? Non ci ha rassicurato lo stesso Pischedda che il suffisso latino –ianus “nel primo secolo d.C. non viene mai usato per indicare i fedeli e i seguaci di un Dio, ma, come già detto, soprattutto per classificare le persone come partigiani di un leader militare o politico o comunque personaggi in qualche modo pubblici” (sottolineatura originale) ? Eppure Celso (o la sua fonte ebraica) ci sta dicendo che i cristiani assumevano il loro fondatore come un “vero angelo”. Che perciò è solo lui, il non-cristiano Celso, in quanto non-cristiano, a “ridurre” Gesù ad un mero uomo come qualsiasi altro.

Sembra un'apparente contraddizione. Se il termine “Christiani” sembra essere stato coniato dai pagani per riferirsi ai “partigiani di un leader militare o politico o comunque personaggi in qualche modo pubblici”, perchè allora l'identità che Celso deve dare a Gesù, assumendo gratuitamente per un attimo le loro credenze al riguardo—o come noi diremmo oggi: “per puro amore di discussione”—, è quella di un “vero angelo”?

Pischedda vorrebbe dimostrare che i cristiani, prima del 250 EC, erano perseguitati in quanto cristiani, “presi di mira” (in inglese, “targeting”) per se. Tuttavia Pischedda deve affrontare un grosso problema: l'unica vera evidenza che può riuscire a elencare (e che elenca per buona parte del suo articolo) è solo evidenza di una generale ostilità pagana ed ebraica verso il nuovo culto. Da nessuna parte il nostro apologeta trova l'evidenza che vorrebbe trovare: evidenza di specifici decreti scritti anticristiani anteriori al 250, tantomeno evidenza di persecuzioni fisiche mirate.

La reazione di Pischedda di fronte all'assenza di evidenza delle fonti necessarie per fare il suo caso (sentenze romane anticristiane) è ambivalente. A momenti il suo carattere impulsivo rischia di fargli commettere la grave fallacia logica del possibiliter ergo probabiliter, nel punto in cui scrive:
Nella ricostruzione dei rapporti tra mondo romano e cristiani le fonti usate sono per lo più cristiane, questo perché purtroppo molte fonti pagane dirette non sono giunte sino a noi per illuminare la questione.
(mia enfasi)

Oppure ancora dove scrive:
Purtroppo non ci è giunta neppure la raccolta di leggi, decreti e rescritti contro i cristiani assemblata, da quanto riferisce Lattanzio (Div. Inst. V,11,19), da Domizio Ulpiano, insigne giurista degli inizi del III secolo e mentore dell'imperatore Alessandro Severo. Tale raccolta rappresentava forse una sorta di manuale di diritto penale unificato a cui fare riferimento nelle procedure contro cristiani e che Tertulliano potrebbe aver avuto di fronte al momento della stesura del suo Apologeticum. La perdita di tale opera è per noi un grave danno poiché forse avrebbe potuto fare chiarezza sulla legislazione imperiale riguardante i cristiani.
(mia enfasi)

Quel “purtroppo” gettato lì due volte come apparente consolazione (a tutto discapito dell'imparzialità a cui dovrebbe attenersi di regola l'autore) ha la funzione di rassicurare il lettore che non esiste e non va contemplata invece l'altra possibilità, ossia che decreti ad hoc anticristiani non erano mai esistiti per i primi due secoli e mezzo dell'Era Comune. Quindi non ci sarebbe nessuna perdita di cui lamentarsi, in quel caso, nessun “purtroppo”. Ma lungi dall'apologeta quell'idea!

Pischedda non è soddisfatto di sollevare soltanto la pallida, astratta possibilità di decreti anticristianiscritti anteriori al 250, ancor più non è soddisfatto dal momento che lui stesso sembra riconoscerlo nella sua “soluzione” di ripiego, ovvero dimostrare comunque l'esistenza di...
...un vero e proprio reato di cristianesimo nel giudizio delle autorità romane, non espresso formalmente in una legge precisa e generale ma piuttosto come prodotto dell'avversione nei confronti dei cristiani...
(mia enfasi)

Ricapitolando:

1) Pischedda vorrebbe dimostrare che i romani ammazzavano i cristiani in quanto cristiani già prima del 250 EC e non (o non solamente) per altri equivoci, ostilità o incomprensioni di sorta;
2) tuttavia Pischedda trova solo evidenza, anteriore al 250, di ostilità, equivoci e incomprensioni nelle relazioni tra cristiani e pagani, ma non evidenza di qualcosa che possa corroborare davvero la sua tesi preferita.

Come supera questo empasse Jerim Pischedda? Con la tipica mossa di ogni folle apologeta cristiano che si rispetti, il cui identikit è descritto perfettamente da Richard Carrier nei seguenti termini, allorchè si rivolse così ad un folle apologeta che gli contestava l'uso del termine “evemerizzazione”:
Non esiste nessun utilizzo “mainstream” del termine che esclude magicamente dèi storicizzati come Romolo e Osiride. Quello è qualcosa che tu stai proprio escogitando dal nulla, in base ad una convenzione linguistica che non esiste, mediante la scelta selettiva di quali usi della parola guardare e quali ignorare. Un tale anacronistico e ultra-fastidioso utilizzo del linguaggio è una comune tattica apologetica cristiana, con gioca con le parole nel tentativo di negare le cose che loro non desiderano che siano vere, che io denuncio in OHJ (ad esempio, iper-definire il concetto di messia così il messianismo non esisteva prima del cristianesimo; iper-definire la resurrezione così la resurrezione non esisteva al di fuori dell'ebraismo; e così via).

Non c'è nessun'utilità in quella tattica. La semantica non può cambiare la realtà. E tu hai bisogno di condurre con la realtà. Non ti rovellare invano sulle definizioni.
Nota che la medesima tattica apologetica è impiegata da Jerim Pischedda, tradendo la sua vera natura di bugiardo per Cristo. L'ipotesi che i romani avessero bene in mente chi fossero i cristiani con tanto di leggi scritte ad hoc contro di loro, un'ipotesi sostenuta da quell'incapace apologeta cattolica di Marta Sordi e che è stata sbattuta fuori dall'accademia attraverso la porta principale (docet Candida Moss), il Pischedda cerca strenuamente di farla rientrare sottobanco dalla finestra: leggi scritte non esistevano, d'accordo, però esistevano leggi non scritte contro i cristiani.
...un vero e proprio reato di cristianesimo nel giudizio delle autorità romane, non espresso formalmente in una legge precisa e generale ma piuttosto come prodotto dell'avversione nei confronti dei cristiani...
(mia enfasi)
E quale prova dell'esistenza di queste presunti leggi non scritte porta di grazia Jerim Pischedda?

Nientemeno che appellandosi al nomen christianum:
...la scelta inusuale del suffisso latino –ianus, che come abbiamo visto denota appartenenza, ma soprattutto è usato con nomi di persone (o, più raramente, relativi titoli): tale suffisso, e questo mi sembra assai importante, nel primo secolo d.C. non viene mai usato per indicare i fedeli e i seguaci di un Dio, ma, come già detto, soprattutto per classificare le persone come partigiani di un leader militare o politico o comunque personaggi in qualche modo pubblici.
(sottolineatura originale, mio grassetto)

Il Pischedda sta insinuando che l'amministratore romano del I secolo che per primo coniò il termine “Christianus” per indicare un seguace di Cristo usò deliberatamente il suffisso -ianus perchè già avrebbe saputo identificare in un non meglio imprecisato “leader militare o politico” il Christus di cui il “Christianus” si proclama seguace. Se fosse vero qualcosa del genere, allora Svetonio, che parla di
“afflicti suppliciis Christiani, genus hominum superstitionis novae ac maleficae”
sarebbe stato un romano storicista: cioè, per il solo fatto che designava i “Christiani” con tale suffisso, già avrebbe assunto a priori che il “Christus” di cui i cristiani erano seguaci fosse un uomo in carne e ossa vissuto di recente sulla Terra.

Ho fatto la stessa domanda al dr. Carrier, per vedere se mi conferma il fatto che il suffisso -ianus fosse usato nel I secolo solo per indicare seguaci di un uomo, come vorrebbe Pischedda.

Ecco la sua risposta:
È divertente. Il suffisso -ianus (in latino e greco), significa qualsiasi denominazione “di”, quindi Macedonianus, “di Macedonia”, quindi Christianus, “di Cristo”. Non importa quale sia il nome proprio (luogo, persona, dio). Se provieni da o segui loro, il suffisso si applica. Così  dei e angeli contano.

Quindi la presunta evidenza che “il nome christiani ha per le autorità romane che lo hanno coniato una valenza sostanzialmente politica e quindi negativa”, evidenza che Pischedda vorrebbe derivare dal solo nome “Christiani” a cagione del suo suffisso -iani, evapora del tutto come neve al sole. Quei “Christiani” potevano con eguale probabilità essere chiamati così perchè adoravano Cristo come a un dio, anzi meglio, come ad un arcangelo celeste mai sceso sulla Terra esperito unicamente mediante visioni e rivelazioni. E a questa lettura sembra portare maggiore credibilità lo stesso Plinio il Giovane il quale, nel 110 EC, osservò che:
[i cristiani] erano soliti di buon mattino in un giorno assegnato di riunirsi e dire un carme a Cristo come a un Dio

Ecco la meschina e deplorevole tattica apologetica alla quale si è ridotto questo demente folle apologeta Jerim Pischedda: iper-definire tendenziosamente il termine “Christiani” così che non possono esistere “Chrestiani” all'infuori dei seguaci di Gesù detto Cristo (inteso come uomo), così che non può esistere alcun “Chresto” (sic!) che non sia il Cristo dei cristiani inteso come uomo. La stessa bastarda e tendenziosa tattica apologetica imbonitrice di chi sostiene, come quell'idiota di Marta Sordi, che gli dèi che muoiono e risorgono non contavano Cristo tra loro perchè la resurrezione è concetto esclusivamente cristiano, oppure di chi sostiene che non potevano esserci Messia morenti prima di Cristo perchè l'idea del Messia morente nascerebbe solo col cristianesimo, oppure ancora che Osiride o Romolo non furono “evemerizzati” sulla Terra perchè la definizione di evemerizzazione non si applicherebbe a quelle particolari divinità, ecc.

Vale la pena ricordare le parole di Richard Carrier al folle apologeta cristiano Pischedda:
Un tale anacronistico e ultra-fastidioso utilizzo del linguaggio è una comune tattica apologetica cristiana, con gioca con le parole nel tentativo di negare le cose che loro non desiderano che siano vere, che io denuncio in OHJ (ad esempio, iper-definire il concetto di messia così il messianismo non esisteva prima del cristianesimo; iper-definire la resurrezione così la resurrezione non esisteva al di fuori dell'ebraismo; e così via).

Non c'è nessun'utilità in quella tattica. La semantica non può cambiare la realtà. E tu hai bisogno di condurre con la realtà.

Jerim Bogdanic Pischedda è reo di distorcere la semantica al solo scopo di distorcere la realtà. Nemmeno un errore, ma un'autentica mossa di imbonitore in nome di Cristo. 

In aggiunta, Candida Moss si spinge anche più oltre nella confutazione dell'iper-definizione del termine “Christiani” attuata a scopi apologetici da Pischedda dal momento che lei nega apertamente la stessa possibilità che un romano del I secolo fosse perfino capace di coniare il termine “Christiani” per riferirsi ai cristiani in quanto tali:
Secondo lo storico romano Tacito, il popolo di Roma incolpò Nerone dell'incendio, e Nerone, a sua volta, scaricò la responsabilità sui cristiani. Tacito spiega che “Nerone addossò la colpa e inflisse le più squisite torture su coloro che erano odiati per i loro abomini.” I cristiani furono arrestati e interrogati per ottenere informazioni su altri nella città- Alla fine “un'immensa moltitudine” fu accusata e condannata a morte in tutti i tipi di modi straordinari. Nerone ideò forme di morte particolarmente crudeli per i cristiani.  Li aveva fatti rivestire di pelli di animali e gettati in pasto a bestie feroci per esserne dilaniati; essi erano immersi nel catrame e bruciati vivi come torce per illuminare il cielo di notte.
Nelle biografie romane degli imperatori, Nerone è ben noto per la sua tempra e crudeltà, ma questo non significa che questa storia sia completamente credibile.
Noi abbiamo bisogno di esercitare qualche cautela quando si viene a trattare Tacito. Gli Annali di Tacito sono datati al 115–20,  almeno cinquant'anni dopo gli eventi che descrive. Il suo utilizzo del termine “Cristiano” è in qualche modo anacronistico. È altamente improbabile che, quando accadde il Grande Incendio, qualcuno potesse riconoscere i seguaci di Gesù come un gruppo distinto e separato. 
Gli stessi seguaci di Gesù non sembrano aver cominciato ad usare il nome  “Cristiano” fino a, nel caso più presto possibile, giusto la fine del primo secolo. Se i seguaci di Gesù non erano neppure identificati come cristiani, è altamente improbabile che i cristiani fossero ben noti e disprezzati abbastanza al punto da Nerone poterli selezionare come capro espiatorio.  Sembra più probabile che la discussione di Tacito degli eventi di Roma attorno al tempo dell'incendio rifletta la sua personale situazione intorno al 115. Tacito è evidenza della crescente animosità popolare verso i cristiani nel secondo secolo, ma egli non fornisce evidenza della loro persecuzione nel primo.

(pag. 82, mia libera traduzione, mia enfasi)

Se i “Christiani” menzionati da Tacito erano davvero nelle intenzioni di Tacito i cristiani di Gesù Cristo, allora questo fatto è evidenza, per la Moss, che Tacito prese quell'informazione dai cristiani del suo tempo, visto che nessun romano del I secolo, tantomeno il popolo dell'Urbe sotto Nerone, era oggettivamente capace di distinguere i cristiani dagli ebrei.

Ma questo mi riconferma ancor di più in quello che io stesso avevo già appreso dall'articolo di Richard Carrier, ossia che l'unico più probabile candidato al ruolo di “un leader militare o politico” o comunque di un personaggio in qualche modo
pubblico” in grado di ispirare ai romani dell'Urbe il nome di “Chrestiani” al tempo del Grande Incendio di Roma—a maggior ragione dal momento che lo stesso Tacito scrive che “vulgus Chrestianos appellabat, “il popolo chiamava crestiani” e non invece “vulgus Chrestianos appellat, “il popolo chiama crestiani”—non poteva che essere il famigerato riottoso “Cresto” citato da Svetonio.

Se infatti il popolo romano sotto Nerone nel 64 EC già riusciva a identificare i “Chrestiani” dell'Urbe dagli altri ebrei (non avendo per giunta neppure gli strumenti per poterlo fare nell'ipotesi che quei perseguitati fossero i seguaci di Cristo), è impossibile che Tacito si sentisse in dovere di rispiegare al medesimo popolo dell'Urbe, sorprendentemente già dimentico della loro identità dopo soli cinquant'anni dall'Incendio, chi fossero quei “Chrestiani” affidandosi al mero sentito dire su un certo “Gesù Cristo” predicato solo allora distintamente dai cristiani del suo stesso giorno (nel 115 EC).

Come pure è impossibile che non solo il popolo dell'Urbe fosse al giorno di Tacito improvvisamente dimentico dell'identità di quei “Chrestiani” (che soli cinquant'anni prima riusciva benissimo magicamente a denunciare), ma che ne fosse sostanzialmente ignorante perfino quel Plinio il Giovane nipote addirittura di quel Plinio il Vecchio autore di un resoconto dello stesso Grande Incendio di Roma!
Plinio dice che non ha mai partecipato a processi di cristiani prima di allora, e non è sicuro su come sia meglio procedere. Il fatto che Plinio deve fare indagini su questo indica che, prima di allora, non c'erano misure in atto per il trattamento dei cristiani. È chiaro, quindi, che i cristiani non erano l'antico equivalente romano di nemici dello stato. Nessun governatore moderno avrebbe bisogno di scrivere al Dipartimento di Homeland Security per chiedere quello che dovrebbe essere fatto circa una presunta cellula di al-Qaeda nel suo stato. Plinio non avrebbe dovuto scrivere a Traiano se i cristiani fossero in cima alla lista delle preoccupazioni romane. La sua lettera dimostra una mancanza di familiarità con i cristiani e su come trattarli. Plinio è incerto sull'opportunità di condannare tutti i cristiani ugualmente senza distinzione di età e scadenza e se i cristiani devono essere condannati come una materia di fatto o se abiurare la loro fede poteva far guadagnare loro la grazia.
La causa dell'improvviso interesse di Plinio sembra essere economico. Nella sua lettera si lamenta che molte persone sono state attratte al cristianesimo e “il contagio di questa superstizione si è diffusa non solo alle città, ma anche nei villaggi e fattorie”, con il risultato che i templi erano già abbandonati e nessuno stava acquistando animali per il sacrificio. Non vi è alcuna speciale qualità nella lettera di Plinio su questo punto; lui scrive con lo stesso senso di urgenza che vediamo nella sua corrispondenza sui fatiscenti bagni di Prusa e sulla necessità di una squadra di pompieri a Nicomedia. Ma, visto quanto tempo Plinio dedica nella sua corrispondenza al finanziamento dei progetti di costruzione, è soltanto naturale che egli sia preoccupato della perdita di entrate e dell'impatto sull'economia locale. Plinio non era chiaramente a conoscenza delle dottrine e delle pratiche dei cristiani, ma aveva sentito delle voci. Aveva due schiave che erano anche diaconesse torturate e aveva deciso che il Cristianesimo non era nient'altro che una sciocca “superstizione”. Il termine “superstizione” era dispregiativo nel mondo antico, come lo è oggi, ma questo non significa che Plinio odiava il cristianesimo.
Cosa dimostra è che Plinio non pensava del cristianesimo come di una vera e propria religione (religio). Lui non prese abbastanza sul serio il cristianesimo per mettere in discussione le sue dottrine.
(pag.83, mia libera traduzione)

Candida Moss sta dicendo che Plinio il Giovane non sapeva nulla di nessuna persecuzione di cristiani prima di allora. Era la prima volta che Plinio ebbe a che fare con questa minuscola e sparuta setta.

E se non lo conosceva lui (che sapeva tutto del Grande Incendio di Roma avendone saputo direttamente dal suo parente Plinio il Vecchio), come potevano conoscerla il “vulgus” dell'Urbe al tempo del Grande Incendio di Roma?

L'avevano conosciuta forse i pagani di Antiochia, coniando loro per primi il nome “Cristiani”?

I tendenziosi e propagandistici Atti degli Apostoli così recitano:
..ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani (Atti 11,26)
Ma Richard Pervo, una vera e propria autorità in materia di Atti, è scettico al riguardo, come fa notare il dr. Carrier: e non solo lui, ma ormai tutto il consensus dubita di Atti degli Apostoli come un intero.

Se infatti, com'è la prevedibile obiezione di Pischedda a questa mia conclusione, un pagano avrebbe “inevitabilmente, per il fenomeno dell’itacismo, ... trasformato “Christos” in “Chrestos”, allora come mai Tacito avrebbe scritto “Christus” e non “Chrestus” nel tentativo di spiegare il nome dei “Chrestiani” per la prima volta, per giunta?
Se ci fosse stato davvero il fenomeno dell'itacismo sempre e dovunque, perchè allora Svetonio “chiaramente scrisse che i tumulti erano istigati dallo stesso Cresto (impulsore Chresto significa “a causa dell'impulsor Cresto”, un impulsor essendo un uomo che istiga qualcosa, non la ragione per istigarla) e quindi non si può sostenere ragionevolmente che questo significasse Gesù, che non era né vivo e neppure a Roma in nessun tempo sotto Claudio” [3] ?


Al contrario è altrettanto inevitabile, se non di più, in virtù della stessa possibilità sollevata da Pischedda intorno a uno dei possibili usi del suffisso -ianus, che il “Chresto” riferito da Svetonio sia lo stesso probabile ispiratore contemporaneamente e del nome e della cattiva fama associata all'unanimità da Tacito (e dal suo “vulgus”) ai Chrestiani, per via del suo essere il “leader militare o politico” o comunque il personaggio pubblico che provocò particolari tumulti tra gli ebrei nella città di Roma sotto Claudio.

 Svetonio parla anche di “Christiani”, apparentemente con la i e non la e, in termini assai negativi:
“afflicti suppliciis Christiani, genus hominum superstitionis novae ac maleficae”

“punizioni erano inflitte ai Cristiani, una genia di uomini dediti ad una superstizione nuova e malefica”

Erano quei “Christiani” diversi dai “Chrestiani” ai quali allude Tacito?

Difficile dirlo, dal momento che esiste seria evidenza testuale che quella breve frase di Svetonio è stata parimenti interpolata almeno parzialmente da una successiva mano cristiana. Così il dr. Carrier nella nota 112 di pagina 349 di On The Historicity Of Jesus:
Stephen Dando-Collins, The Great Fire of Rome: The Fall of the Emperor Nero and his City (Cambridge, MA: Da Capo Press, 2010), pag. 6. A cui si potrebbe aggiungere anche che la lingua della riga come l'abbiamo non è in stile svetoniano e riflette un idioma latino che sorse dopo il tempo di Svetonio, secondo K.R. Bradley, 'Suetonius, Nero 16.2: ''afflicti suppliciis Christiani'", Classical Review 22. 1 (Marzo 1972), pp. 9-10; e sebbene Bradley sostiene che ciò significa che il testo fu corrotto mediante correzione e dovrebbe essere restaurato per allinearlo con il riassunto di Orosio e lo stile conosciuto di Svetonio, quella non è la sola spiegazione disponibile della stessa evidenza.
(mia libera traduzione)

Mentre l'interpretazione di Stephen Dando-Collins [4] non sia affatto da sottovalutare (nonostante lo stesso Pischedda ostentò del insensato disprezzo nei suoi confronti perchè a suo dire si tratta solo di un “romanziere”) tuttavia ho letto l'articolo accademico di Bradley circa gli “afflicti Christiani” di Svetonio e suona veramente autorevole. 
Ne riporto la conclusione liberamente tradotta:

Quindi, sulla base del normale utilizzo svetoniano della frase supplicio adficere e l'apparizione della frase presso la fase rilevante di un'opera più tarda che può esser vista seguire strettamente il linguaggio svetoniano, potrebbe essere sicuro considerare la lettura corretta di Nero 16.2 come affecti suppliciis Christiani.

 Dunque, in base all'analisi di Bradley, sembra essere un puro e semplice fatto che la mano dell'interpolatore modificò la riga di Svetonio suiChristiani cambiando almeno
affecti” in “afflicti”. Chi avrebbe il coraggio di dimostrare che i cristiani furono perseguitati come tali nel I secolo solo basandosi su questa minuscola riga di Svetonio, per giunta intaccata almeno in una parola molto probabilmente da un interpolatore cristiano successivo? [5]
Carrier ne conclude che allora è altrettanto probabile dubitare dell'intera riga come interpolazione cristiana, oppure ritenere che anche in quella riga il termine originario fosse “Chrestiani” e non “Christiani”: in tal caso non è affatto rimossa la possibilità che anche quei
“Christiani” di Nero 16.2 siano ancora sempre i riottosi ebrei di Cresto (e non i seguaci di Gesù detto Cristo). Ma c'è di più: visto che l'altro possibile uso del suffisso -ianus è per indicare i seguaci di un dio o di un angelo, allora può anche valere con eguale probabilità questa possibilità sollevata da Richard Carrier:
Svetonio poteva altrettanto facilmente aver confuso un rapporto che Cristo come un arcangelo rivelatorio 'istigò' i tumulti. Oppure se un 'un credo in' oppure 'una predicazione di' Cristo avesse fatto così (perfino se basato-sul-vangelo), questo, anche, sarebbe interamente compatibile col miticismo minimale e perciò non una conferma di storicità.
(OHJ, p. 348-349, mia libera traduzione, enfasi originale)
La nota 110 nella stessa pagina riporta l'articolo accademico che per prima ha sollevato questa concreta possibilità storica dietro la frase di Svetonio:

Per la suggestione che Cristo come una deità (e non un attore storico realmente presente) ispirò quei tumulti si veda la recensione di Edouard Will di Helga Botermann, Das Judenedikt des Kaisers Claudius: Romischer Staat und Christiani im 1. Jahrhundert, in Gnomon 71 (1999), pp. 610-16.

Dunque il ridicolo di Pischedda si infittisce ancor più quando vado a scoprire dove l'apologeta ha derivato probabilmente la sua lettura del suffisso -ianus come possibile indizio (che nelle mani di Pischedda diventa probabile in virtù della fallacia del possibiliter ergo probabiliter) della consapevolezza romana del presunto fondatore umano della setta: proprio dallo stesso articolo citato da Richard Carrier!


Peccato che il folle apologeta cristiano Pischedda abbia il solo torto di non aver riassunto appieno l'intera opinione di quell'articolo. L'avesse fatto, avrebbe letto:
Da qui la vecchia disputa, ben analizzata da Botermann, circa l'identità del nome Cresto. Sappiamo che per alcuni sarebbe stato qualche agitatore ebreo di origine servile, secondo il suo nome, per altri Gesù, il cui titolo messianico Christos sarebbe stato inteso come un nome di persona. L'alternativa grafica (non è fonetica) Christos/Chrestos non importa, l'ortografia Chrestos, Chrestiani si svolge in greco e latino al tardo periodo. Noi naturalmente, a causa del periodo, abbiamo contestato questa seconda interpretazione, se impulsor significa agitatore pubblico che può causare misure repressive e di polizia, dobbiamo supporre la presenza di Gesù a Roma nel 49, ciò di cui dobbiamo offrire varie spiegazioni (un errore di Svetonio o della sua fonte, un'impostura di un falso messia, voci sulla presenza di Gesù risorto). A questa obiezione, Botermann ha una risposta, che ha il suo peso (101): quando relativo a un Deus oppure al nome di una divinità, impulsor può designare la divinità “inspiratrice” di un atto, e dà cinque esempi forniti da Thesaurus (di Plauto durante il basso impero), a cui si aggiunge il nostro Svetonio. Egli avrebbe considerato il suo Cresto un'entità divina venerata da alcuni ebrei? Sarebbe possibile prendere in considerazione la sentenza in cui Plinio (anziano protettore di Svetonio) evoca i cristiani della sua provincia cantare inni di lode Christo quasi deo (10,96,4). Se si accettano le ragioni di Botermann, secondo le quali Svetonio avrebbe detto che Claudio espulse da Roma gli ebrei (quei particolari ebrei) che si muovevano sotto l'ispirazione, o per conto di Cresto = Christos (= quasi deus? ), comprendiamo meglio perché Paolo andando a Corinto, andò direttamente a trasferirsi con le vittime di questa deportazione.
...

Se la frase di Svetonio rende correttamente (?) i termini dell'Editto del 49 e se impulsore Chresto designa davvero Gesù, ne risulterebbe, secondo Bottermann, che il termine Chrestiani/Christiani non era in uso nel linguaggio amministrativo romano in tale data. Se andò così (ma si è sicuri?), quindi questo nome quando è apparso? La questione non è nuova.
...
 
A quella interpretazione teologica del versetto [di Svetonio], Bottermann preferisce quella che lei chiama l'interpretazione politica (147 sgg.). Questo è in realtà il vecchio problema di determinare il senso di christianous. Tutti sanno che pseristianos è soltanto la trascrizione greca del latino Christianus, il cui suffisso designa i partigiani, i clienti o seguaci di un personaggio, ossia Christus. Anche se prima attestata nella sua forma greca, la parola non può essere stata inventata dai Romani. Ma il vero problema riguarda chrematizein. Dopo altri, Bottermann ricorda che questo verbo non è sinonimo di kaleisthai o onomazesthai, come suggerisce il nome ha un carattere formale o amministrativo, che ben si sarebbe adattato alla preoccupazione di qualche autorità romana di distinguere, tra gli ebrei, quelli che sostengono Christos. Ma chrematizein può anche avere un senso attivo-riflessivo secondo il quale un uomo o un gruppo uomo designa sé stesso. Così Ac. 11, 26, può avere due significati: o “era ad Antiochia che i discepoli erano designati con il nome di Christianoi”; oppure “era ad Antiochia che i discepoli per la prima volta presero il nome di Christianoi”- Com'è avvenuto, tuttavia, che gli abitanti di Antiochia di lingua greca hanno loro stessi scelto un nome latino, si potrebbe al massimo assumere l'originaria rivendicazione di un nome che era stato loro assegnato dai Romani - che ci dà la data di una delle due tappe di questa innovazione (se prendiamo la condanna a una parentesi nella storia).
Botermann propone un'ipotesi fattibile e interessante circa la data dell'invenzione romana di Christiani. Questo avvenne durante la prigionia di Paolo a Cesarea, tra il 57 e 59,... (mia libera traduzione e mia enfasi)
Visto? Tutto ciò va a conferma dell'analisi di Richard Carrier, smentendo una volta per tutte il gigantesco castello di carte montato su da Pischedda sul solo nomen christianum:

Il suffisso -ianus poteva essere usato nel I secolo dai romani per indicare seguaci di un dio (o di un “quasi deo” com'era Cristo stesso, in quanto celeste ipostasi divina, rispetto allo stesso Dio degli ebrei), oppure di un uomo in carne e ossa (com'erano probabilmente i “Chrestiani” di Tacito rispetto all'“impulsore Chresto” svetoniano). Pischedda ha riportato semplicemente un'affermazione falsa, al solo scopo di iper-definire tendenziosamente la parola
“Christiani” così da usarla come sedicente prova della sua tesi che i cristiani erano perseguitati già nel I secolo come tali. Fosse stato veramente onesto, Pischedda avrebbe dovuto riportare nell'articolo esplicitamente anche la possibilità alternativa che “Christiani” nel I secolo indicava già i seguaci di una deità, agli occhi dei romani, senza (ancora) nessuna conoscenza di un ipotetico “sedizioso predicatore ebreo giustiziato dalle autorità romane” all'origine di tale superstizione (e perciò senza alcuna possibilità di buttarla in politica, pace Pischedda).

Se il nomen christianum, neppure in virtù del suo suffisso -ianus, non offre affatto evidenza nè sicura garanzia del fatto che i romani avessero coniato la parola “Christiani” perchè avvertivano una minaccia politica da parte di questa minuscola setta ebraica, allora viene a cadere la possibilità per Pischedda di dimostrare l'esistenza di un vero e proprio reato di cristianesimo nel giudizio delle autorità romane anteriore al 250 EC.

In conclusione, io posso qualificare Jerim Bogdanic Pischedda come un bugiardo per Cristo in virtù delle 7 seguenti ragioni:

1) aver anche solo tentato, nel suo approccio al problema, una goffa separazione anacronistica rispetto ai tempi tra politica e religione, contro Candida Moss su quel punto.

2) ostentare un malcelato disprezzo assolutamente deplorevole verso la religiosità pagana, sminuendone apposta la profondità dimenticandosi perfino di notare la somiglianza (denunciata per prima dai protestanti) tra certa pomposa liturgia cattolica e quell'“esteriore” ritualismo pagano da lui tanto deprecato.

3) non aver per nulla considerato perchè i cristiani eretici erano invisi ai pagani, rischiando di vedere come un assoluto blocco monolitico l'esistenza di cristiani monoteisti (laddove i marcioniti, ad esempio, erano dualisti eppure ancora invisi ai pagani).

4) aver a più riprese ammiccato alle più strampallate ipotesi apologetiche della peggior Marta Sordi intorno a ridicoli senatoconsulti anticristiani già nel I secolo: ipotesi già espulsa fuori a pedate dall'accademia e che Pischedda tenta invano di far rientrare dalla finestra inventandosi l'ipotesi ancor più inverificabile (perchè infalsificabile a priori) di sedicenti “leggi non scritte” anticristiane già prima del 250 EC.

5) aver trovato una ridicola “evidenza” di tali sedicenti “leggi non scritte” anticristiane pre-250 EC nella coniazione romana del termine “Christiani” alla luce del fatto più preteso che reale che l'utilizzo del suffisso -ianus nel I secolo sia per se indizio di storicità (contro il fatto evidenziato dal dr Carrier che il suffisso -ianus poteva essere con pari probabilità relativo ad un luogo, ad una persona oppure ad un angelo; contro il fatto che appena a ridosso del I secolo Plinio il Giovane riconosceva i cristiani dal fatto che adoravano Cristo “come un dio”, “quasi deo”,[6] senza ancora riferirgli alcun attributo umano; contro il fatto evidenziato dalla Ross che nessun romano del I secolo aveva oggettivamente i mezzi per distinguere i cristiani dagli ebrei, ancor meno di chiamare i primi col termine “Christiani”).

6) aver spesso e volentieri spacciato nel suo articolo l'evidenza storica di generica “ostilità” pagana anticristiana per evidenza storica di vere e proprie persecuzioni fisiche (non da ultimo scambiando i “Chrestiani” menzionati da Tacito per reali cristiani di Cristo, contro la maggiore probabilità che fossero invece i riottosi seguaci del “impulsore Chresto” citato da Svetonio), senza mai considerare seria la possibilità che non ci furono affatto decreti anticristiani (scritti o non scritti) prima del 250 EC.

7) aver attinto probabilmente la mera possibilità della coniazione romana (per di più spacciandola come probabile, e non solo possibile) del termine “Christiani” da un articolo accademico citato da Richard Carrier in OHJ, senza fare menzione del fatto che lo stesso articolo illustra e considera la concreta possibilità che il termine “Christiani” venisse usato “per indicare i fedeli e i seguaci di un Dio”, come l'evidenza in Plinio in Giovane e in Svetonio (se quel “Chresto” fosse in realtà la deità “Cristo” motivo di tumulto tra gli ebrei di Roma: ricordiamo che per Paolo “Cristo crocifisso” era motivo di “scandalo tra i Giudei” oltre che di “follia” per i pagani) suggerisce. Chiamasi fallacia del cherry-picking.


Come giudicare un uomo, ammesso che si possa chiamarlo tale (e non sto citando quell'impostura chiamata “Testionium Flavianum”), che si macchia di così tanti errori alcuni dei quali perfino deliberatamente?

Un folle apologeta, nel migliore dei casi. Un bugiardo, nel peggiore dei casi.

Ma pur sempre: un bugiardo per Cristo.

E almeno da quel punto di vista, per avermi permesso di applicare efficacemente su di esso una genuina ermeneutica del sospetto smascherando a dovere laddove presenti malcelate seconde agende e doppi fini, l'articolo del folle apologeta cattolico Jerim Bogdanic Pischedda fa didattica.

Perchè rivela per l'ennesima volta come agli occhi dei cristiani, Gesù rappresenta l'uomo ideale, il modello perfetto. Perfino nelle persecuzioni reali o immaginate. Ma cristiani del genere non si sono mai realmente interessati ad un Gesù storico neppure nel tentativo di imitarne la sofferenza sotto persecuzione. Perchè l'idea in sè stessa di imitare Gesù si è sempre rivelata una pia illusione. In realtà, i teologi e gli apologeti di tutte le epoche, e Pischedda non fa eccezione, hanno sempre avuto un vero “Gesù” di fronte ai loro occhi, che poi identificano semplicemente col
Gesù storico.

NOTE: 
[1]
Sebbene nessuno ha fornito un argomento conclusivo a favore di una precisa datazione di Diogneto, la maggior parte degli studiosi concorda che è un'opera dalla metà fino a tardo secondo secolo - la maggioranza di quelli favorendo una datazione al tardo secondo secolo.
(Bryan C. Hollon, Is the Epistle to Diognetus an apology? A Rhetorical Analysis, pag. 144, nota 10, mia libera traduzione e mia enfasi)
[2] Pischedda non crede ovviamente alle accuse mosse contro i cristiani di magia, incendio, cannibalismo, promiscuità sessuale, infanticidio e incesto, riducendoli fin troppo sbrigativamente a cliché e stereotipi peraltro ben consolidati nella stigmatizzazione dei gruppi minoritari percepiti come devianti o fastidiosi. Eppure ci sarebbe reale evidenza che alcuni cristiani del II secolo praticavano veramente un certo libertinismo sessuale dai tratti manifestamente antisociali, inevitabilmente attirante su di sé ostilità dal contesto circostante.

Perfino se non si vuole seguire il prof Robert Price nell'identificazione di Paolo con Simon Mago, è comunque un fatto che chi nelle lettere attribuite a “Paolo” cercava di esortare ad una rigida etica sessuale e matrimoniale (vedi 1 Corinzi 7) affrontò—prima o poi—un uditorio minacciato da cristiani libertini. Questi cristiani sono riflessi nella descrizione che Price associa a quello che per lui è il Paolo storico: 

Paolo sarebbe stato, come Simone, un radicale predicatore itinerante che girava tra comunità di seguaci, forse circoli clandestini di ammiratori all'interno di sinagoghe o chiese. Da gnostico, avrebbe insegnato radicalismo sessuale, che potrebbe equivalere o a totale celibato oppure a libertinismo—oppure a entrambi! Stranamente, una volta che si abolisce il matrimonio convenzionale, come illustra la storia del settarismo, la sessualità perde l'autorità di una normativa o perfino una definizione. La legge religiosa estende una gabbia  di ordine su un comportamento altrimenti grezzo, “profano”, rendendolo sacro nella misura in cui la legge è obbedita. In questo modo, le azioni assumono un significato. Ma se la legge è rimossa, la condotta decade nella profanità, cioè, nell'assenza di significato, anomie. E quello è ciò che accade nel gnosticismo antinomistico, che ripudia la legge come l'imposizione di false Potenze. A volte, “liberi” da norme, come nel film Suddendly Last Summer, si comincia perfino a percepire la libertà sessuale simile al celibato. In modo simile, la concentrazione gnostica sul sè piuttosto che alla superficie fece languire le relazioni convenzionali sociali ed economiche. Al pari di tutte le sette nuove e radicali, i seguaci di Paolo si sarebbero sentiti in misura crescente alienati da una società mondiale piena di tentazione all'incredulità e all'assimilazione, compreso in particolare la totale incapacità di parenti non redenti a comprendere la propria nuova salvezza. Un gruppo del genere non ha futuro in un mondo che rifiuta di accomodarlo. Che è il motivo perchè così spesso propendono verso l'orientamento apocalittico, sperando a razzo direttamente alla fine dell'ordine presente e dividere le pecore dalle capre una volta per tutte.
Tutto questo deve esser suonato accettabile nella misura  in cui fu auspicato da individui che avevano poco da perdere ad ogni modo ed erano già alienati da una maturità socialmente regolata oppure che si immaginavano un'elité di stranieri in una terra straniera. Alcuni dei proseliti—sempre alla ricerca di nuovi modi di superiorità sui rivali—potevano aver trovato affascinante la predicazione gnostica. Alcuni membri della classe dominante certamente lo fecero, come testimoniano i circoli jet-set nei quali Flavio Giuseppe dice che si muoveva Simone il Mago. Ma essenzialmente era una visione del mondo per i lupi solitari, tranne nella misura in cui tali gruppi erano proprio società di reciproca ammirazione. Erano il genere di gruppo che l'antropologo Mary Douglas descrive come una comunità in possesso di caratteristiche di “sbarre alte, gruppo debole”. Questo significa che si doveva superare un alto ostacolo per parteciparvi, come la padronanza di complessità gnostiche e il sottoporsi a iniziazioni; ma una volta dentro, i membri erano essenzialmente culti di un unico-uomo con poco uso reale per gli altri. Erano come singole auto parcheggiate nello stesso garage.
Le sette radicali hanno un'abitudine di rapida evoluzione: stabilizzandosi, perdendo zelo, e cominciando a riassimilare norme convenzionali di società che prima avevano lasciato alle spalle. Questo accade perchè l'energia langue e si cercano o si creano nuovi legami familiari. Si comincia ad abbisognare di una morale per definire una famiglia, un gruppo, e una condotta sociale. Si ha bisogno di teorizzare patti di compromesso e piani B. Quando la setta comincia a darsi una forma in una chiesa, gli originari lupi solitari a circuito chiuso trovano di avere meno da dire a gruppi del genere. Come spiega Stevan L. Davies, gli apostoli itineranti trovarono le loro dottrine individualiste in misura crescente inapplicabili alla vita sociale in una comunità. Il loro ricorso a “lascia perdere beni e parenti” per dare i beni ai poveri, ecc., cominciò a cadere su orecchie sorde. I loro precedenti ardenti parrochiani sono ritornati al mondo reale, e la religione che lasciarono alle spalle non suona più così corrotta e mondana. “Tutti quei appassionati che solevano dipingersi il volto, si sono riuniti alla razza umana. Alcune cose non cambieranno mai.” Sono simili ad hippy che crescono e assumono il tipo di mestieri corporativi che criticavano dei loro genitori.
La mia teoria è che questo è proprio il punto in cui il simonianesimo potrebbe essere diventato Marcionismo. Marcione rappresenta la seconda fase, l'addomesticamento del simonianesimo. Strano a dirsi, ma Marcione io penso segna il primo passo di ritorno al mainstream, la prima mossa verso il nascente Cattolicesimo. C'era una volta un tempo quando era sufficiente la spontanea profezia, ma ora la rimpiazza un canone di scritti autorevoli. Le stesse lettere canoniche furono emendate e aggiornate. I testi che ereditiamo sono pieni di indizi di declino spirituale, la perdita del primo amore e fervore. Troviamo perfino nelle lettere paoline l'idea che i credenti ora stanno godendo meramente le “caparre dello Spirito”, “i primi futti dello Spirito”. Ciò rappresenta una disillusione, un declino da un periodo di iniziale entusiasmo settario. Quando scopriamo ciò nelle epistole, non dovremmo considerarle come il personale tentativo di Paolo di attenua il fanatismo (come avrebbe pensato Ernst Käsemann) ma piuttosto un pezzo di Marcionismo che annacqua il Paolinismo (lo gnosticismo simoniano).  È come il trasferimento buddista della speranza di liberazione dal presente verso un futuro avvento del Maytrea quando una salvezza vivente, presente sembrerà nuovamente possibile. Una volta gli Gnostici proibivano il matrimonio, ora almeno il sesso tra sposi già sposati; ora Marcione lo permetterà, a malincuore. Il divorzio soleva essere discutibile, ma Marcione lo proibisce poichè tollera il matrimonio.

(The Amazing Colossal Apostle, pag. 221-223, mia libera traduzione)

Sono la vivida rappresentazione data da Price di quei primi cristiani condannati poi come “eretici” da quella che diventerà la “Grande Chiesa” cattolica, tracce della loro (ingente) presenza essendo riflessi nelle stesse lettere di “Paolo” (perfino se autentiche), laddove si parla di vangeli e Gesù rivali,


ma anche nella foga apologetica dei cosiddetti “Padri della Chiesa” nel corso delle loro abituali invettive contro gli “gnostici”.

Anche quei cristiani “eretici” e “libertini”, come descritti da Price, sono, per usare le parole di Pischedda, potenziali rappresentanti di un cristianesimo percepito dai pagani “come qualcosa di estraneo alla propria mentalità e ai propri costumi, qualcosa di radicalmente diverso e irriducibile al proprio sistema valoriale: ne percepiscono la spinta eversiva al di là dell'effettiva moralità dei suoi membri e delle ripetute dichiarazioni di lealtà nei confronti dell'impero e dell'imperatore.”

Eppure Pischedda non dice una parola dell'accusa di immoralità che cristiani “libertini” del genere si sarebbero sicuramente procurati, con tanto di conseguente e fin troppo ovvia persecuzione.


 [3] OHJ, pag. 348, mia libera traduzione. 


[4]
...Fu quest'intera sezione del testo degli Annali un falso, come credono alcuni? Oppure la persona responsabile dell'interpolazione cambiò meramente una parola qui e aggiunse una frase là per distorcere l'originale di Tacito, per scopi di propaganda religiosa? Che cosa se, per esempio, il testo originale avesse descritto quelli arrestati e condannati a morte per aver appiccato l'incendio come seguaci della dea egiziana Iside, e non come cristiani? In quell'esempio, tutto ciò che l'interpolatore doveva fare era sostituire “Egiziani”, come erano noti i seguaci di Iside, con la parola “Cristiani”.
Il culto di Iside figurava tra i culti più popolari seguiti a Roma da cittadini non romani durante il primo secolo. I primi altari a Iside apparvero sul Capitolino presto nel primo secolo AEC. Distrutto dal Senato nel 58 AEC, furono presto sostituiti da un tempio a Iside, l'Iseum, che fu abbattuto su ordine del Senato otto anni dopo. Il cosiddetto Primo Triumvirato, Ottaviano, Antonio, e Lepido, avevano eretto un nuovo tempio ad Iside e al suo consorte Osiride nel 43 AEC—l'Iseum Campense—sul Campo Marzio, sui colli settentrionali di Roma. Altri vasti Isea, o templi dedicati a Iside, infine sarebbero edificati a Roma—uno sul Colle Capitolino e un'altro in Regio III, con templi più piccoli sui colli Celio, Aventino ed Esquilino.
Iside, che era vista come una divinità premurosa aperta sia agli uomini che alle donne, a ricchi e boveri, e che prometteva vita eterna e assistenza ai mali terreni dei suoi seguaci, presto ebbe migliaia di seguaci tra tutte le classi di Roma, ma in particolare tra le classi inferiori. Il culto di Iside comportava certi misteri, che gli isidiani non avevano il permesso di rivelare ai noncredenti. C'erano perfino un numero di somiglianze tra il culto di Iside e la più tarda fede cristiana, non da ultimo l'iniziazione mediante l'acqua battesimale, la fede nella resurrezione, e l'adorazione di una santa madre col bambino—Iside e Horus. Statue più tarde della Vergine Maria che allatta Gesù Cristo bambino porta una impressionante rassomiglianza con le più antiche statue di Iside che allatta suo figlio Horus, che potrebbero benissimo averle ispirate.
Per il 64 EC, il culto di Iside era stato favorito o sfavorito a Roma per un secolo. Nel 21 AEC, l'efficiente braccio destro di Augusto, Marco Agrippa, proibì la pratica dei riti del culto di Iside entro un miglio di distanza da Roma. Negli anni 18—19, durante i primi anni del regno el successivo imperatore, Tiberio, quattromila “Egiziani” ed ebrei, tutti quanti liberti di età militare (dai 18 ai 46), furono raccolti a Roma e spediti a reprimere briganti sull'isola di Sardegna.
Agli Egiziani e gli ebrei rimasti nella capitale, compresi coloro che tenevano la cittadinanza romana, fu ordinato o di abbandonare la loro fede oppure di abbandonare l'Italia ad una data fissata. In aggiunta, racconta Svetonio, Tiberio forzò “tutti i cittadini che abbracciavano quelle fedi superstiziose a bruciare i loro paramenti religiosi e altri accessori”. Quei sacerdoti di Iside che mancarono di rinunciare alla loro fede furono crocifissi, su ordine di Tiberio. Secondo l'autore Filone Giudeo, un anziano ebreo del primo secolo ad Alessandria, questa persecuzione pre-cristiana degli ebrei fu condotta dal prefetto pretoriano di Tiberio, Seiano, li quale nutriva, nelle parole di Filone, un “odio, e disegni ostili, contro la nazione ebraica”. Tiberio, nel frattempo, si racconta che avesse scaraventato di persona una statua di Iside nel fiume Tevere.

Sotto l'imperatore successivo, Gaio—Caligola, come lo conosciamo—sia gli Egiziani che gli ebrei tornarono a Roma, e Iside fu adottata ufficialmente nel pantheon romano. Caligola dedicò perfino il suo nuovo palazzo sul Colle Palatino alla dea, chiamandola Aula Isiaca, o Aula di Iside. Ma il suo successore Claudio espulse tutti i seguaci di Iside da Roma per, secondo Svetonio, “creare tumulti”. Gli ebrei furono separatamente espulsi dalla città da Claudio per “tumulti” simili. Sotto Nerone, non solo il culto di Iside fu permesso a Roma, ma l'imperatore aggiunse anche parecchie festività isidiane al calendario ufficiale. Nerone stava attraversando un periodo in cui lui era ossessionato da tutte le cose egiziane, ed è stato suggerito che il suo interesse ad Iside sopraggiunse tramite l'influenza di Cheremone, in precedenza bibliotecario presso il Serapeo, il tempio di Serapide, ad Alessandria. Di questo Stoico egiziano si narra che fu per breve tempo tutore di Nerone quand'era ragazzo.
È stato suggerito anche che una volta che Nerone diventò imperatore, Apollonio di Tiana, uno dei clienti di Nerone che, guidato dai sacerdoti egiziani, predicava di essere egli stesso un maestro inviato dal cielo e un seguace di Iside, influenzò le credenze di Nerone.  Numerosi studiosi credono che Nerone, turbato dalla colpa per aver provocato la morte di sua madre nel 59 EC, cominciò una ricerca di spiritualità che lo vide, almeno per qualche tempo, abbracciare personalmente il culto di Iside, la dea madre. Mentre il suo interesse all'Egitto e ai costumi egiziani non era svanito per il 64 EC, Nerone sembra avesse abbandonato Iside nella sua inquieta ricerca di sollievo spirituale.
Alcune leggende cristiane suggeriscono addirittura che Nerone consultò l'apostolo Paolo mentre l'evangelista era a Roma, e che la liberta amante di Nerone Atte e il suo coppiere ufficiale al Palatium furono convertiti al cristianesimo da Paolo. Fu tramite l'influenza di questa coppia, così la leggenda, che l'imperatore consultò Paolo. Il credo tradizionale che Atte fosse cristiana, o di certo la sua moderna perpetuazione, deriva dal romanzo del 1895 Quo vadis? del autore polacco vincitore del Premio Nobel Heynryk Sienkiewicz, che rese cristiana il personaggio di Atte. Parte dell'attrazione della fede di Paolo per Nerone apparentemente era la fede in una madre santa e una nascita verginale—una fede condivisa dal cristianesimo, il culto di Iside, ed altre religioni orientali—ma questo è contraddetto dal fatto che la Vergine Maria non è mai caratterizzata nelle dottrine di Paolo.
Tacito chiarisce che nonostante ogni atto benevolente da Nerone immediatamente successivo al Grande Incendio, che gli recò grande popolarità a breve termine presso il pubblico, lui non poteva superare il potere della diceria che dilagò per la città perfino più velocemente delle fiamme che divorarono tutto: che lui aveva provocato l'incendio. Era nella natura di Nerone, un ventiseienne dominato da altri per tutta la sua giovane vita, tormentato da problemi di maggiore autostima, e afflitto da una imbarazzante campagna diffamatoria che gli attribuiva la colpa dell'incendio, trovare un capro espiatorio, per spostare la colpa dalle sue spalle.
Il culto di Iside, mentre al principio attrasse Nerone, era giunto a deluderlo. Alla fine, denigrò il culto davvero pubblicamente. Nel porre la colpa del Grande Incendio sulle spalle dei seguaci di Iside, poteva esser sicuro di aizzare il diffuso disprezzo pubblico per il culto. I seguaci di Iside erano generalmente disprezzati dagli altri romani, in particolare da quelli delle classi superiori. Il poeta Giovenale, per esempio, ridicolizzava i seguaci di Iside. Il suo contemporaneo, Plutarco, lo storico greco che officiava come sacerdote presso il Tempio di Apollo a Delfi per un periodo, considerava abominevole il culto di Iside. Svetonio, che scrive presto nel secondo secolo, descriveva il culto di Iside come “quella setta piuttosto discutibile”.
Una delle critiche che la maggior parte dei romani riservavano al culto era la sua adorazione di animali—il coccodrillo, l'ibis, e la scimmia dalla lunga coda tra loro. La stessa Iside era raffigurata con le corna di un toro sporgente dal suo capo, mentre il suo consorte maschio, Serapide, dio dell'oltretomba, era spesso rappresentato come un toro. Nel Navigium Isidis, la festività di Iside che avveniva il 5 Marzo, che diventò parte del calendario romano all'apertura della stagione mediterranea di navigazione ogni anno con la benedizione dei venti, un sacerdote con indosso la testa di cane di Anubi, il dio egiziano della morte, prendeva parte nella processione ufficiale che apriva le festività. Quei dèi animali erano odiosi ai romani abituati ad adorare divinità che assumevano sembianze umane, mentre la partecipazione al culto era considerata vergognosa.
Dell'altra evidenza suggerisce l'identità di quelli che erano condannati su ordine di Nerone dopo il Grande Incendio. Si noti nuovamente quello che dice Annali su di loro:  “Ai condannati alla morte in più si infliggevano scherni. Coperti di pelli ferine li si faceva dilaniare dai cani.” Si consideri anche che i seguaci di Iside erano visti dai romani mentre adoravano animali, e che Anubi, il dio egiziano dei morti, aveva la testa di un cane. Di converso, i sacerdoti di Iside evitavano ogni contatto con prodotti animali, che erano considerati impuri, e indossavano vesti di lino e sandali fatti di papiro. Per tutte quelle ragioni, lo scherno a cui Tacito allude—con i condannati costretti ad indossare pelli di animale nel momento in cui venivato fatti a pezzi dai cani—suggerisce fortemente che quelle persone erano seguaci di Iside.
C'era un'altra connessione: come avrebbe saputo Nerone, il fuoco giocava un ruolo chiave nelle osservanze religiose relative ad Iside. Questo rese il rogo di parte dei prigionieri un altro scherno al culto, proprio come avrebbe reso credibile ai romani di quel tempo la connessione tra il culto di Iside e il Grande Incendio. Non è impossibile che i seguaci di Iside fossero invero colpevoli o di aver appiccato il fuoco, per “purificare” Roma, oppure di ravvivare eventualmente in seconda fase l'incendio nei giardini emiliani.
La prima parte del famoso passo di Tacito, come lui lo scrisse, potrebbe aver originariamente recitato qualcosa del genere: “Nerone allora per far tacere queste voci fece passare per colpevoli e li sottomise a torture raffinate coloro che erano odiati per i loro abomini, seguaci del culto di Iside, chiamati Egiziani dal popolo, che avevano messo radice a Roma, dove da ogni parte affluiscono tutte le dottrine atroci e turpi e vi trovano seguaci.” 
Tutti gli indizi sono che il culto di Iside fu represso per un pò di anni successivi dopo il Grande Incendio, prima che uno dei primi tre dei quattro imperatori dell'anno tumultuoso 68-69 EC—Galba, Ottone, oppure Vitellio—permisero di nuovo il culto di Iside. Così riabilitato diventò il culto di Iside sotto gli imperatori Flavii che nel 71 EC, Vespasiano e suo figlio Tito trascorsero veramente una vigilia nell'Iseum sul Campo Marzio la notte precedente la celebrazione del loro congiunto trionfo per aver sedato la rivolta ebraica in Giudea.
Il secondo figlio di Vespasiano, Domiziano, ultimo dei tre imperatori Flavii, doveva la sua vita al proprio travestimento da sacerdote di Iside nel Dicembre del 69 EC. Poteva essersi rasato la testa come facevano i sacerdoti—si depilavano tutto il corpo ogni tre giorni—e aver indossato la loro semplice tunica di lino, per effettuare la sua fuga dall'incendiato complesso Capitolino, accompagnato da suo cugino Clemente, che si era a sua volta travestito. Potevano anche aver indossato la maschera a testa di cane di Anubi, com'era il caso quando un edile di nome Marco Volusio usò lo stesso travestimento, quello di un sacerdote di Iside, per sfuggire alle proscrizioni del Primo Triumvirato che seguirono all'assassinio di Giulio Cesare. La fuga di Domiziano sopravvenne quando uomini della guardia del corpo dell'imperatore Vitellio, la cosiddetta Guardia Germanica, stavano assediando il fratello di Vespasiano Sabino, i membri della sua famiglia, e i sostenitori sul Colle Capitolino.
Una volta asceso al trono, Domiziano si dichiarò l'incarnazione del consorte di Iside Serapide e incoraggiò attivamente e promosse il culto. Egli restaurò il Tempio di Iside sul Campo Marzio, che fu seriamente danneggiato nell'incendio dell'80 EC, e decorò numerosi altri templi ad Iside e Serapide, compreso quello sul Colle Capitolino. Domiziano è anche creduto di aver eretto un nuovo tempio ad Iside a Benevento, nell'88 EC.
Lo storico Tacito, un senatore durante il regno di Domiziano, disprezzava il crudele, vendicativo giovane imperatore e ogni cosa che lui rappresentava, ma si vergognò di sè stesso per acconsentire senza rimostranze al sanguinoso regno di Domiziano. Senza dubbio, come il suo contemporaneo e storico Svetonio, anche Tacito disprezzava il culto di Iside e non aveva alcuna esitazione nell'etichettarlo “odioso e vergognoso,” per nessun'altra ragione se non per il fatto che era stato adottato da Domiziano. In realtà, è dubbio che Tacito, un adepto chiaramente devoto agli dèi romani, avesse mai sentito granchè circa o il cristianesimo o Cristo, mentre egli avrebbe avuto per tutta la vita esposizione, e qualche conoscenza, al culto di Iside. Tutto questo rende molto più probabile che egli descriverebbe i seguaci di Iside come “odiosi e vergognosi,” ma non i cristiani.

(Stephen Dando-Collins, The Great Fire of Rome: The Fall of the Emperor Nero and His City, mia libera traduzione)

 [5]
L'analisi di Bradley già offre buona evidenza che si tratta di una riga modificata da mani cristiane (e quindi a priori non esente da sospetti di inautenticità).
Ma io sono ora persuaso da Stuart Waugh che quella riga è veramente una banalissima interpolazione cristiana in tutta la sua interezza. Anche se Stuart pensa, diversamente dal dr. Carrier (e devo ammettere, per buone ragioni), che l'intero Testimonium Taciteum costituisca un'interpolazione cristiana (e non solo la riga dove si fa menzione di “Christo”), tuttavia lo stesso Waugh offre indipendenti ragioni per rimuovere da Svetonio l'intera frase

afflicti suppliciis Christiani, genus hominum superstitionis novae ac maleficae;
in quanto pura interpolazione cristiana.

Stuart nota giustamente corrispondenze perfino letterali tra Annali 15:44 di Tacito e Vita di Nerone 6.16.2 di Svetonio.

Svetonio parla di “afflicti suppliciis Christiani”
laddove Tacito parla di “Christus ... upplicio adfectus erat”

Svetonio parla di “Christiani”
laddove Tacito menziona “Chrestianos”

Svetonio parla di “genus hominum”
laddove Tacito parla di “humani generis”

Svetonio parla di “superstitionis novae ac maleficae”
laddove Tacito parla di “exitiablilis superstitio”

“La dipendenza è ovvia”, nota candidamente Stuart.

E prosegue:

Ma esiste un'altra ragione perfino più irresistibile per rigettare la frase come un'interpolazione, in quanto essa spicca priva di un contesto. Non esiste da nessuna parte in Svetonio nella sua esigenza di chiaccherare un ulteriore menzione di cristiani, perfino in relazione all'incendio, dove lui è propenso ad accumulare rapidamente ogni genere di insulti e accuse su Nerone, ma nessun'accusa in relazione ai cristiani. Per di più perfino all'interno delle leggi riformate da Nerone, non esiste nessun obiettivo soddisfatto, nessun beneficio, solamente un elenco casuale, dopo una legge per ridurre le spese eccessive ai banchetti pubblici, e prima di quelle contro gli aurighi disonesti (tassisti dell'epoca), pantomime maleducate (praticamente prostitute di strada), falsificatori, volontà illegittime, limitazione delle spese legali, infine casi  relativi a tesorerie da ascoltare presso un pubblico di arbitri. È semplicemente bizzarro che in questa lista di riforme davvero sensibili e popolari delle vaghe punizioni a qualche oscura setta religiosa sarebbero di qualche interesse a Svetonio oppure ai suoi lettori. Ma ha senso per il gossip specificamente cristiano di periodi successivi.

Io concludo che il rapporto di Svetonio sulle riforme legali di Nerone che comprende vaghe punizioni ai Cristiani dev'essere rigettato come un'interpolazione sulla base dell'assenza di un contesto per il loro essere riportate, e anche sulla base della dipendenza letteraria dalle interpolazioni negli Annali di Tacito, che a sua volta è dipendente dall'opera di Sulpicio Severo come pure dalla confessione di fede lucana.

(mia traduzione)



 [6
Lo storicista Stevan L. Davies dà evidenza che esistevano già nella prima metà del I secolo ebrei adoratori di un Cristo celeste senza mai essere stati per questo a conoscenza di Gesù di Nazaret. Anch'essi dovrebbero perciò di diritto essere chiamati “messianisti” (in latino: “Christiani” ) perfino se non erano ancora stati cooptati dal cristianesimo nascente. Anche Celso aveva ammesso (vedi sopra) che, nei panni di un cristiano, avrebbe dovuto credere a Gesù come a un “vero angelo”. Questo smentisce in parte l'asserzione di Pischedda che il termine “Christiani” “non viene mai usato per indicare i fedeli e i seguaci di un Dio”, dal momento che a detta degli stessi cristiani investigati da Plinio il Giovane“tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come a un dio”. Vale la pena ricordare che l'espressione “quasi deo” andrebbe meglio tradotta “come a un dio” senza alcuna sfumatura ipotetico/dubitativa (come viene resa nelle tradizioni solite “come se fosse un dio”) per un semplice fatto statistico, come osserva giustamente Earl Doherty, citando Van Voorst:
 Sull'altro lato della medaglia, Van Voorst prosegue: Sherwin-White sottolinea che in Plinio "quasi è usato comunemente senza l'idea di supposizione," per significare semplicemente "come" (A. N. Sherwin-White, Fifty Letters of Pliny, p. 177).
Van Voorst qualifica questa ammissione, aggiungendo una nota alla sua nota:
Tuttavia,  Plinio può anche utilizzare quasi nel suo significato tipicamente ipotetico ("come se, come tuttavia"). Così, mentre "come se''  può implicare qui che il Cristo che i cristiani adorano era una volta un uomo, non dovremmo mettere troppo peso su questo.

(Jesus, Neither God Nor Man, pag. 638, mia libera traduzione)
Lo stesso Doherty ha dato un'ottima ragione per escludere a priori un'interpretazione storicista dei cristiani testimoniati da Plinio il Giovane:
Inoltre, l'affermazione che “Cristo come (se fosse) un dio” implicherebbe che “Cristo” era un uomo è smentita dal linguaggio stesso. Il termine “Cristo” di per sé non avrebbe eguagliato un essere umano conosciuto, e certamente non nella mente di un non cristiano.
Si potrebbe dire, “gli Egizi adoravano Alessandro come se fosse un dio”, dal momento che Alessandro era noto per essere un uomo storico. Ma il termine “Cristo” non avrebbe avuto tale significato necessario per Plinio, in quanto la sua lettera dimostra che sapeva poco della setta. Se avesse saputo abbastanza da voler intendere questo, e avesse voluto comunicare che un uomo fu adorato come un dio, avrebbe usato il suo nome al posto; le inchieste gli avrebbero certamente comunicato quel nome e quell'idea, e lui non avrebbe usato il termine confusionario “Cristo” con l'imperatore. Il fatto che lo fece indicherebbe che i cristiani non gli avevano procurato tali informazioni (che l'oggetto del loro culto era stato un uomo), e che lui stava perciò riferendosi al loro oggetto di culto come qualcosa di diverso da un uomo. Così, Plinio in realtà indica che i cristiani di Bitinia veneravano una figura interamente non-umana. In altre parole, egli offre evidenza che non non c'era un Gesù storico.

(pag. 639, mia libera traduzione, mia enfasi)

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