mercoledì 3 gennaio 2018

Sull'Evoluzione del Cristianesimo (XI) — I Vangeli

(prosegue da qui)


Capitolo XI

I VANGELI

1. La Natura del Vangelo Primitivo

La maggior parte dei critici sono ora dell'opinione che il vangelo di Marco sia il più antico e che quello di Matteo viene in seguito. La Scuola Radicale olandese, tuttavia, sostiene che quello di Matteo sia anteriore a quello di Marco — una visione che è stata promossa recentemente dal signor J. M. Robertson. Il fatto è che la questione della priorità di quei vangeli è una alla quale non si può dare nessuna risposta semplice. Ognuno di loro passò attraverso quel che potrebbero chiamarsi  diverse edizioni, e ad ogni riedizione qualcosa venne aggiunto. Come esempio del caso, supponiamo che sia pubblicato un libro, A, e poi qualche anno dopo un altro libro, B; e che dopo qualche altro anno compare una seconda edizione, rivista e ingrandita, di A (la si chiami A2). Allora in un certo senso A2 è più recente di B; ma in un altro senso è più antico, poiché la sua prima edizione fu pubblicata in precedenza. Hermann Raschke, in un lavoro molto competente, Die Werkstatt des Marcusevangelisten, ha provato che il vangelo di Marco, in una forma anteriore a quella attuale, fu il vangelo utilizzato dallo gnostico Marcione e che si tratta di un'opera gnostica e anti-ebraica. Da informazioni fornite da Epifanio e da altri antichi scrittori cristiani, come pure per ragioni critiche, Raschke ha riprodotto il testo di Marcione e ha mostrato che delle aggiunte gli furono successivamente fatte sotto l'influenza del vangelo di Matteo. Ad esempio, i versi 2 e 3 del primo capitolo sono copiati rispettivamente da Matteo 11:10 e 3:3. Ancora, il vangelo di Marcione non conteneva la storia della tentazione di Gesù nel deserto, ma in un'edizione successiva un suo breve cenno fu inserito nelle parole “quaranta giorni, tentato da Satana”, in 1:13. Un altro passo dove l'influenza di Matteo è evidente è quello composto dai versi da 11 a 13 nel capitolo 9, dove i discepoli chiedono la necessità della venuta di Elia prima del Messia e Gesù risponde che Elia è veramente venuto. Questo passo è stato inserito qui da Matteo 17:10-12. Poiché, dunque, il nostro Marco reca la prova dell'influenza di Matteo, esso deve essere in qualche senso più recente di Matteo.
D'altra parte, esiste una prova dello stesso tipo per dimostrare che il vangelo di Marcione, oppure qualche vangelo molto simile su cui quello si basava, è anteriore a Matteo. Matteo era un adepto di quella che si potrebbe chiamare la Chiesa cattolica, la quale teneva in onore speciale gli apostoli ebrei, Pietro, Giacomo e Giovanni, e accettò Paolo solo per motivi di politica. Il vangelo di Marco è gnostico e paolino e contiene una polemica diretta contro i tre  apostoli pilastri. I tre principali apostoli del vangelo non sono ritratti dei tre capi della Chiesa di Gerusalemme, ma figure simboliche, collocando le quali in una luce sfavorevole lo scrittore attacca continuamente la Chiesa Ebraica, che essi rappresentano. Questi attacchi sono ammorbiditi o neutralizzati dallo scrittore del vangelo di Matteo; e poiché l'attacco deve venire prima della difesa, il Marco originale deve venire prima di Matteo. Ad esempio, nel racconto della tempesta, Marco dice dei discepoli che
“furono presi da una gran paura”, ma Matteo dice solo che “gli uomini si meravigliarono” al miracolo. Dopo aver riferito l'episodio della camminata di Gesù sul mare, Marco dice dei discepoli: “Ed erano enormemente stupiti in se stessi, perché non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito”. Matteo omette questo e, come contraccolpo, pur di glorificare Pietro lo fa camminare sull'acqua per andare da Gesù e invece del passo sopra citato inserisce questo: “Allora gli altri rimasti nella barca s'inginocchiarono davanti a Gesù, esclamando: «Tu sei davvero il Figlio di Dio!»”. Forse si potrebbe pensare che la forma della storia di Matteo sia quella originale; ma questo è improbabile, perché se i discepoli avevano raggiunto a questo punto la convinzione che Gesù fosse il Figlio di Dio, non avrebbero potuto mostrare la mancanza di fiducia e di comprensione che essi continuavano successivamente a mostrare. Ad esempio, in Marco 8:14-21, quando i discepoli ragionavano tra loro per quanto riguarda il monito di Gesù di diffidare del lievito dei farisei, “dicendosi gli uni agli altri: «È perché non abbiamo pane»”, Gesù li rimprovera gravemente: “Perché state a discutere del non aver pane? Non riflettete e non capite ancora? Avete il cuore indurito?.......Quando io spezzai i cinque pani per i cinquemila, quante ceste piene di pezzi raccoglieste?» Essi dissero: «Dodici».......E diceva loro: «Non capite ancora?»” Questo rimprovero è notevolmente accorciato e mitigato in Matteo.
Ancora, nella scena di Cesarea, dove Gesù annuncia le sue imminenti sofferenze e morte, Marco dice:
“Allora Pietro lo prese in disparte, e si mise a rimproverarlo”; Matteo ripete quelle parole, ma per dare loro un significato diverso aggiunge: “dicendo: «Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai»”. L'obiettivo è chiaramente la rimozione dalla parola “rimprovero” il significato di rabbiosa rimostranza, e interpretarla piuttosto come un'espressione di dolore e di simpatia che rifiuta di contemplare l'incombenza della sofferenza su chi è amato. Negli esempi citati in precedenza, è ipotizzabile senza dubbio che non fosse Matteo che mitigò, ma Marco che ampliò e accentuò tale censura appena la trovò implicata nel documento di Matteo. Quella spiegazione, tuttavia, non si applica in questo caso, in quanto abbiamo qui un'aggiunta effettiva fatta da Matteo con l'obiettivo di eludere l'attacco di Marco. Ho già mostrato che, nel processo di fronte al Sinedrio e nella richiesta del popolo della crocifissione di Gesù, lo scrittore evangelico simboleggia il rifiuto degli ebrei in generale di ammettere l'idea di un Messia sofferente. Il motivo di questa scena a Cesarea è lo stesso. I tre apostoli sono ebrei, e come tali vengono offesi quando Gesù inizia a parlare con loro della sua sofferenza e morte: naturalmente si aspetterebbero un tipo molto diverso di Messia. In altre scene in cui i discepoli sono disprezzati è implicato un attacco alla concezione cattolica di Gesù. Il Gesù che Paolo predicava non era il Gesù che predicava Pietro. Il primo era astratto e spirituale, il secondo più chiaramente ebraico, concreto e materiale; e lo scrittore paolino del vangelo, nell'attribuire perdita di comprensione e durezza di cuore ai discepoli, rimprovera alla Chiesa cattolica, o alla Chiesa giudeo-cristiana, il fallimento a comprendere la concezione gnostica più spirituale della loro. Non si può dire che questa rappresentazione dei discepoli sia storica e condizionata dai fatti, perché in quasi ogni caso è legata ad una storia miracolosa; e se il miracolo viene rifiutato come non-storico, così deve esserlo anche la rappresentazione dei discepoli che vi è legata. Bisogna tuttavia ricordare che, come percepì il grande critico, Volkmar, non c'è niente di banale o privo di scopo nel vangelo di Marco. Le storie miracolose hanno il loro significato nascosto, e così lo ha il ritratto che l'artista ha derivato dei tre principali discepoli.
La domanda si presenta naturalmente: Se la rappresentazione dei discepoli coinvolti in quelli episodi dispiaceva a Matteo, perché egli non omise l'episodio completamente invece di accettarlo e poi tentare di mitigarne l'attacco, la qual cosa egli avrebbe potuto fare solo parzialmente e imperfettamente? Può esserci una sola risposta: Matteo li trovò nella sua fonte, che considerava autorevole, e non volle escluderli. Ora, Marco non era quella fonte, né lo era il Vangelo di Marcione. È generalmente convenuto che il vangelo di Matteo è fondato su precedenti vangeli, tra cui, forse, il Vangelo secondo gli Ebrei, che Harnack data tra il 65 e il 100 E.C. ed il Vangelo secondo Pietro. La data effettiva del Vangelo secondo gli Ebrei è probabilmente più vicina al 100 che al 65. Quel Vangelo stesso, naturalmente, derivò da un precedente, poiché tutti i vangeli risalgono ad un singolo Vangelo primitivo; e poiché esso fu scritto più in particolare per gli ebrei, e fu corrente nelle comunità giudeo-cristiane, ne consegue che gli episodi imbarazzanti per gli apostoli ebrei non erano le invenzioni del suo autore, ma che egli, come Matteo, li trovò nel precedente vangelo che lui utilizzò. Questa conclusione punta al fatto che il Vangelo primitivo, come il Vangelo di Marcione, fosse anti-ebraico e suggerisce inoltre che, come anche il Vangelo di Marcione, fosse una produzione gnostica. Questa conclusione è confermata così pienamente da ciò che sappiamo del Vangelo secondo gli Ebrei da elevarla ad una certezza completa. L'episodio del rinnegamento di Gesù da parte di Pietro fu inclusa nel Vangelo secondo gli Ebrei, un episodio così vergognoso per Pietro che nessun giudeo-cristiano avrebbe potuto inventarlo. Il motivo di ciò è lo stesso di quel che abbiamo già visto in azione. Il rinnegamento di Gesù da parte di Pietro simboleggia il rifiuto da parte dei giudeo-cristiani del Gesù che Paolo predicò. Da ciò consegue che il Vangelo primitivo deve essere stato paolino e gnostico.
Sarà senza dubbio obiettato da molti che l'episodio risiede nel vangelo perché si verificò veramente. Spero di provare che niente c'è nel vangelo perché accadde veramente. Abbiamo già avuto una buona quantità di prove che già puntano in questa direzione. Ora, per quanto riguarda la storia del rinnegamento di Pietro, in essa ci sono particolari molto sospetti e facilmente riconoscibili come tali da chiunque potesse leggerli per la prima volta con una mente esente da ogni pregiudizio. Ad esempio, è impossibile capire che cosa poteva star facendo una serva del Sommo Sacerdote durante la notte presso il fuoco tra le guardie e i soldati. È anche molto strano che a questa ragazza dovesse capitare di conoscere Pietro, che era rimasto solo da pochi giorni a Gerusalemme, mentre nessuno degli uomini, alcuni o la maggior parte dei quali avevano presumibilmente arrestato Gesù, ebbero qualche sospetto su di lui. Raschke osserva in proposito: “Chi non urta la sua testa contro certe cose non ha nessuna testa da urtare”. Dopo il primo rinnegamento, Pietro esce nel cortile e là incontra anche un'
altra domestica che lo riconosce! Poi quelli che erano presenti dissero a Pietro: “Tu sei un galileo”. Ora, Marco aveva un motivo per far dire a quelli uomini che Pietro era un galileo e non riteneva necessario spiegarlo. La spiegazione che essi lo sapessero dal suo accento non era nel Vangelo di Marcione ed è stata introdotta nel vangelo di Marco in questo punto da Matteo, il quale, senza capire oppure (che è forse più probabile) rifiutando il simbolismo sottostante la dichiarazione, e vedendo che se essa dovesse essere presa letteralmente avrebbe richiesto di venir spiegata, fornì la spiegazione che gli uomini sapevano che Pietro era un galileo dal suo accento. Inoltre, l'episodio nel suo complesso è legato indissolubilmente al processo notturno di fronte al sinedrio; e come tale non è mai avvenuto un processo, né può avuto luogo l'episodio del rinnegamento. Può essere spiegato solo come simbolismo con uno scopo. Deve essere penetrato nel Vangelo secondo gli Ebrei da un precedente vangelo; non direttamente dal primitivo, in quanto non conteneva la storia della Passione, ma da uno strettamente correlato ad esso. E quel precedente vangelo deve essere stato anti-ebraico.
Il vangelo usato da Giustino, nel 145 E.C., non era uno dei nostri vangeli canonici, ma uno precedente. Forse ne aveva più di uno, che potrebbero essere stati il Vangelo secondo gli Ebrei, oppure il Protoevangelium di Giacomo. Giustino cita dal suo vangelo l'emissione della voce dal cielo quando Gesù fu battezzato:
“Tu sei mio figlio; in questo giorno io ti ho generato”. Anche l'epistola agli Ebrei, che ha aspetti gnostici, cita questa lettura. Ora, questa forma di parole comporta una dottrina gnostica, e in quanto tale stava dispiacendo alla Chiesa cattolica successiva. Di conseguenza, fu alterata nei vangeli successivi nella forma che abbiamo ora: “Tu sei il mio Figlio prediletto; in te mi sono compiaciuto.” Epifanio cita il passo corrispondente dalla versione del Vangelo secondo gli Ebrei in uso tra gli Ebioniti del suo tempo: “Una voce fu ascoltata dal cielo dicendo: Tu sei il mio diletto Figlio; In te mi sono compiaciuto”; e ancora: “In questo giorno io ti ho generato”. Questa citazione indica una fase di transizione tra la forma originale e quella che abbiamo ora. Ci sono tuttavia prove che nel Vangelo originario questa espressione fosse di un carattere ancora più gnostico; Perché, secondo Girolamo, la versione del Vangelo secondo gli Ebrei in uso tra i Nazareni conteneva queste parole: “Discese e si posò su di lui tutta la fonte dello Spirito santo, e gli disse: Figlio mio......tu sei il mio figlio primogenito che regna per sempre”. Qui vediamo che non fu Dio, ma lo Spirito Santo che parlò a Gesù e lo chiamò “mio figlio”. Sappiamo che la dottrina gnostica fu che il Logos era figlio di Dio e della vergine Sofia e Sofia fu identificata dagli gnostici con lo Spirito Santo.
Riteniamo, dunque, man mano che risaliamo a fonti precedenti, che il Vangelo contenesse elementi anti-ebraici e gnostici che gradualmente vennero omessi o modificati. Ma il Vangelo di Marcione, che circolava tra gli gnostici, aveva preservato gran parte della sua natura originaria. La conclusione da trarre è che il Vangelo primitivo fu una produzione gnostica e che, anche se il nostro presente Marco è più tardo del nostro presente Matteo, il primo si colloca molto più vicino al Vangelo primitivo rispetto al secondo. Van Eysinga osserva che, prima di sentire una parola dai commentari degli scritti del Nuovo Testamento nei circoli cattolici, noi li troviamo già esistenti tra gli gnostici — un fatto che conferma la tesi che i primi scritti del Nuovo Testamento provennero da un circolo gnostico.

2. Simbolismo nel Vangelo

Il simbolismo come metodo artistico pervade l'antica letteratura ebraica e si trova sia nell'Antico Testamento che nel Nuovo. Si presenta frequentemente nei libri profetici e nelle Apocalisse. Una parte considerevole dell'Apocalisse di Giovanni è il simbolismo; il simbolismo di Daniele è già stato riferito. Non esiste un divario letterario tra l'Antico Testamento, se considerato completato dalle Apocalissi, e il Nuovo. I vangeli seguono da vicino le Apocalissi; certe idee sono comuni a entrambi, anche se nel vangelo hanno subito uno sviluppo. Non esiste anche alcuna interruzione nel metodo letterario; come c'è simbolismo nelle Apocalissi, così esso pervade anche i vangeli. Questo simbolismo presenta idee, dottrine e tendenze sotto forma di racconto. È ovviamente un canone di qualsiasi arte che un dispositivo tecnico non dovrebbe tradirsi. Sarebbe davvero una cattiva arte per il drammaturgo porre in scena qualcosa che potrebbe rompere l'illusione dello spettatore e ricordargli che le azioni e le emozioni che sta guardando sono solo contraffatte. Il simbolista deve osservare la stessa regola; ma proprio come lo spettatore di un dramma, anche se temporaneamente sotto un'illusione, è consapevole nella sua mente che quello che vede non è reale, così il lettore che possiede la chiave di un particolare tipo di idioma simbolico può comprenderlo mentre trae in qualche modo lo stesso genere di piacere dalla sua lettura come lo spettatore dalla visione di una scena. Il simbolismo in letteratura potrebbe però essere qualcosa di più di un metodo artistico; potrebbe essere impiegato in aggiunta affinché solo coloro che siano a conoscenza dell'idioma possano capirlo. Quel motivo fu operativo nel caso dei primi scrittori evangelici, e il metodo è visto al meglio nel vangelo di Marco. Lo scrittore di quel vangelo fu un maestro così consumato nel suo mestiere che fin dall'inizio del III secolo fino ad oggi davvero poche persone hanno percepito la vera natura del suo lavoro. Coloro per i quali esso fu scritto lo compresero, naturalmente.
L'amore degli gnostici per il simbolismo è stato menzionato in precedenza, anche il fatto che le loro comunità religiose costituivano una sorta di società segreta, in cui venivano ammessi nuovi membri solo dopo un periodo di iniziazione e a condizione di prestare un giuramento che non avrebbero divulgato i misteri. La loro più vicina analogia moderna sono i massoni; e, come questi ultimi hanno nelle loro logge diversi ordini oppure gradi, così li avevano gli gnostici nelle loro chiese o sinagoghe, e quelli che padroneggiavano tutti i misteri e raggiungevano il più alto grado di iniziazione furono chiamati
teleioi o perfetti. Troviamo riferimenti a questi costumi degli gnostici nelle porzioni gnostiche delle epistole paoline; per esempio: “Noi parliamo di sapienza fra i perfetti; “Parliamo della sapienza di Dio nascosta nel mistero, che Dio ha preordinato prima degli eoni per la nostra gloria”. Abbiamo constatato che il Vangelo primitivo fu un lavoro gnostico; e possiamo essere sicuri che, secondo le caratteristiche appena menzionate, quel lavoro sarebbe stato composto solo per l'uso degli iniziati, ed essere scritto in un idioma che solo loro potevano capire. Proprio come i maestri gnostici, secondo Paolo, pronunciavano la sapienza di Dio in un mistero, così anche loro avrebbero scritto la sapienza di Dio in un mistero.
L'attitudine mentale che portò i maestri ad esporre la loro dottrina in
“misteri”, anche se particolarmente caratteristica degli gnostici, è generalmente un'attitudine orientale. Abbiamo un'illustrazione di questo in 2 Esdra, dove lo scrittore dice: “L'Altissimo dette intelligenza ai cinque uomini, e.......Accadde che, quando si furono compiuti i quaranta giorni, l'Altissimo parlò dicendo: "I ventiquattro libri che hai scritto [riferendosi all'Antico Testamento] prima rendili pubblici, che li legga sia chi è degno sia chi è indegno; ma i settanta scritti da ultimo [i libri apocrifi] conservali, per consegnarli ai sapienti del tuo popolo”. Il vangelo seguì immediatamente i libri apocrifi e fu scritto nello stesso spirito, in un idioma intelligibile solo al sapiente, l'iniziato. È stato mostrato che lo gnosticismo era il figlio del pensiero che produsse la letteratura sapienziale, e in Ecclesiasticus leggiamo: “Chi si applica e medita la legge dell'Altissimo......indagherà il senso recondito dei proverbi e s'occuperà degli enigmi delle parabole”. Lo scrittore gnostico del Vangelo primitivo fu evidentemente dello stesso pensiero di Gesù, il figlio di Sirach. Il suo Vangelo è una parabola oscura per tutti fuorché per gli iniziati. In altre parole, è simbolismo.
Questa conclusione riguardo la natura del vangelo è confermata dai passi dei vangeli stessi, che sono stati un problema insolubile ai commentatori, ma il cui significato è abbastanza chiaro alla luce di quanto appena detto. Ad esempio, in Marco 4:11-12, troviamo:
“Egli disse loro: «A voi è dato di conoscere il mistero del regno di Dio; ma a quelli che sono di fuori, tutto viene esposto in parabole, [vale a dire, simbolismo] affinché:  "Vedendo, vedano sì, ma non discernano; udendo, odano sì, ma non comprendano; affinché non si convertano, e i peccati non siano loro perdonati"».”. Il significato di queste parole deve essere ovvio per chiunque non sia determinato a non capire. È inconcepibile che qualche maestro, specialmente uno che fosse  “amorevole” e “compassionevole”, avrebbe dovuto deridere i suoi ascoltatori e frustrare la propria opera parlando deliberatamente in modo tale che i suoi ascoltatori non riuscissero a capirlo. Tuttavia, se il vangelo dev'essere interpretato letteralmente, è così che Gesù agì.
Ad un certo momento o l'altro alcuni gnostici erano giunti alla conclusione che si dovesse rinunciare all'antica segretezza e all'antico esoterismo e che si dovesse veicolare la propaganda più apertamente; la qual cosa avrebbe comportato probabilmente la rinuncia del periodo di prova e di iniziazione per i convertiti. Altri disapprovarono questa politica; e gli echi della controversia che a questo punto emerse possono ancora essere ascoltati nel vangelo. Nei seguenti versi  sentiamo la voce degli innovatori:
“Si prende forse la lampada per metterla sotto il vaso o sotto il letto? Non la si prende invece per metterla sul candeliere? Poiché non vi è nulla che sia nascosto se non per essere manifestato; e nulla è stato tenuto segreto, se non per essere messo in luce. Se uno ha orecchi per udire oda.” L'ultima clausola è, ovviamente, una dichiarazione che qualcosa di importante è nascosto nelle parole precedenti, ma implica anche che ci fossero dei lettori capaci di capire cosa si intendeva. Ancora: “Non c'è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto. Pertanto ciò che avrete detto nelle tenebre, sarà udito in piena luce; e ciò che avrete detto all'orecchio nelle stanze più interne, sarà annunziato sui tetti.” Non c'è alcun senso in quelle parole prese letteralmente. Secondo la visione tradizionale di Gesù, se la dottrina doveva essere proclamata apertamente perché Gesù non avrebbe dovuto farlo lui stesso? Quei versi sono stati un grande enigma per i commentatori e nessuna loro spiegazione soddisfacente, diversa da quella sopra indicata, è mai stata data. I tradizionalisti sorvolano su quelle difficoltà e non le affronteranno direttamente. Io non accuso i critici di deliberata disonestà in questa materia. Senza dubbio essi in qualche modo sospettano inconsciamente che affrontare tali difficoltà richiederebbe un cambiamento di vista radicale che loro non sono disposti a fare. Nel verso seguente possiamo forse ascoltare la voce di coloro che si opposero alla nuova politica: “Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono”. Il professor W. B. Smith ritiene che la propaganda gnostica assunse la forma di una crociata contro il politeismo e l'idolatria e che ci fosse un pericolo da parte delle autorità pagane se questa venisse manifestata troppo apertamente; da qui la forma simbolica in cui fu formulata. C'è, in effetti, motivo di credere che la propaganda gnostica fosse diretta contro il politeismo. Gli gnostici avrebbero potuto sostenere di essere monoteisti; il loro Gesù era il Figlio di Dio, ma non Dio stesso o uguale a lui, nonostante incarnasse la sapienza e il potere di Dio. Tuttavia, penso che il simbolismo e l'esoterismo fossero naturali per gli gnostici, e non adottati come misura di precauzione. I difensori ufficiali dei culti antichi erano, e si proclamarono, monoteisti in filosofia.
È stato a lungo riconosciuto, anche dai critici ortodossi, che c'è simbolismo nel vangelo. Alcuni dei primi scrittori cristiani ne erano consapevoli. Per esempio, Girolamo sapeva che il miracolo della guarigione dell'uomo con la mano paralitica fosse un simbolo. Quest'uomo era nella sinagoga, e Gerolamo dice:
Fino all'avvento del Salvatore la mano era paralitica nella sinagoga dei Giudei e le opere di Dio non vi erano fatte. Dopo la Sua venuta sulla terra la mano destra venne restituita ai Giudei che credettero e fu rimessa in servizio”. La paralisi della mano dell'uomo nella sinagoga simboleggia la morte della lettera della Legge; quelli che erano sotto di essa erano, in senso figurativo, paralitici, e potevano essere sanati solo dallo Spirito Santo. Essendo questo il significato nascosto del racconto miracoloso, è appropriato ovviamente che si dovesse dire che il miracolo fu eseguito nel giorno di Sabato. Volkmar riconobbe la prevalenza del simbolismo nel vangelo, e così pure Schmiedel al nostro tempo. Quest'ultimo ammette che questo simbolismo è stato frainteso e trasformato in storia. Tuttavia, lui non porta la sua ammissione alla sua conclusione logica. In particolare, mentre è pronto ad ammettere che molte delle storie miracolose sono simbolismo, egli non ammetterà che gli episodi non-miracolosi siano della stessa natura. Ma vedendo che nella più antica letteratura cristiana Gesù è un essere divino, e che apparentemente gli scrittori non sanno alcun dettaglio della sua vita sulla terra come uomo; vedendo, anche, che non esiste alcuna prova dell'esistenza di Gesù al di fuori dei vangeli e che quelle opere sono, in ogni caso, in larga misura simboliche e dogmatiche e non storiche, un metodo storico realmente scientifico  non avrebbe cominciato dando per scontata l'umanità di Gesù e assumendo la verità di tutte le dichiarazioni nei vangeli che non sono ovviamente fittizie; ma, al contrario, inizierebbe verificando quelle dichiarazioni al fine di scoprire se siano letteralmente vere o meno. E poiché nel vangelo c'è così tanto riconosciuto simbolismo, una naturale ipotesi di lavoro  sarebbe che esso sia, nel complesso, simbolismo. Quest'ipotesi potrebbe allora essere verificata in una maniera critica. Questa verifica, infatti, è stata compiuta da W. B. Smith e da Hermann Raschke, con risultati che confermano l'ipotesi in misura davvero elevata.
È ammesso che il Vangelo primitivo non contenesse alcuna spiegazione della nascita o della giovinezza di Gesù, ma cominciò, come inizia il vangelo di Marco, con l'improvvisa apparizione di Gesù senza alcun antecedente terreno. Questo è ciò che dovremmo naturalmente aspettarci perché, per lo scrittore gnostico, Gesù, al di là se chiamato Cristo oppure il Logos, fu il Figlio di Dio e dello Spirito Santo e non aveva genitori terreni. Lo scrittore pensò  di Gesù proprio come lo scrittore della Lettera agli Ebrei, il quale lo paragona a Melchisedec, in quanto era
“senza padre, senza madre, senza discendenza, senza inizio né fine di vita”. Poiché, pertanto, Marco, dalla maniera con cui apre il suo vangelo, evidentemente intende escludere l'idea che Gesù avesse genitori terreni, l'una o due dichiarazioni in quel vangelo che Gesù aveva una madre e fratelli devono essere interpolazioni fabbricate in un tempo quando vangeli posteriori avevano prodotto racconti della nascita.
I teologi hanno asserito che è provato che Gesù  avesse avuto fratelli col riferimento a Giacomo nell'epistola ai Galati, 1:19, come
“fratello del Signore”. Girolamo, tuttavia, che scrisse nel IV secolo, commentando questo verso, dice: “Ora basti questo, che a causa del suo alto carattere e della sua incomparabile fede e straordinaria saggezza egli fu chiamato il fratello del Signore”. Girolamo, allora, fu dell'opinione che Giacomo non fosse il fratello naturale di Gesù. Girolamo, senza dubbio, aveva ragioni dogmatiche per enfatizzare il fatto che Gesù non avesse avuto fratelli o sorelle; tuttavia, il suo parere è probabilmente corretto. La questione è stata molto discussa e fin troppo spazio sarebbe richiesto per riprodurre qui gli argomenti contro l'interpretazione letterale della frase “Fratello del Signore”. Una o due considerazioni potrebbero bastare. I tre apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, negli Atti sono identici ai “pilastri apostoli” dell'epistola ai Galati. Inoltre, gli Atti degli Apostoli, 1:13, identificano quei tre apostoli coi tre discepoli principali dei vangeli. Ora, nel vangelo, si dice che Giacomo era stato il figlio di Zebedeo, e pertanto non era fratello di Gesù. Nessun fratello di Gesù figura in qualche modo prominente come un leader nell'antica tradizione cristiana, e né negli Atti né nelle epistole è mai usata la forma naturale, “fratello di Gesù”; ma i credenti in Cristo sono chiamati in molti punti fratelli di Cristo oppure del Signore in senso spirituale. Il termine “fratello del Signore”, come applicato a Giacomo, potrebbe essere meglio inteso come il titolo ufficiale dei capi della chiesa di Gerusalemme. Nell'ultimo capitolo si è dimostrato che il riferimento a fratelli e sorelle in Marco 6:3, è un'interpolazione.
Ora, in Marco 3:31-5, troviamo questo:
“Giunsero sua madre e i suoi fratelli; e, fermatisi fuori, lo mandarono a chiamare.
Una folla gli stava seduta intorno, quando gli fu detto: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle là fuori che ti cercano».
Egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?»
Girando lo sguardo su coloro che gli sedevano intorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli!
Chiunque avrà fatto la volontà di Dio, mi è fratello, sorella e madre»”.

Il primo di questi versi è stato senza dubbio introdotto da Matteo. Epifanio afferma che non si trovava nel Vangelo di Marcione. Ma mentre lo scrittore non poteva dare al suo Gesù una madre terrena, parlando nella sua persona, sarebbe abbastanza coerente con il suo metodo  introdurre un pezzo di simbolismo in cui la moltitudine è raffigurata mentre parla della madre di Gesù, allo scopo di veicolare una dottrina. D'altro canto, se prendessimo letteralmente l'episodio, esso implicherebbe che Gesù praticamente abbandonò sua madre e i suoi fratelli — una durezza che non è conforme al carattere attribuitogli da teologi liberali. Cosa, dunque, simboleggia qui la madre di Gesù? I primi scrittori cristiani, stando com'erano molto più vicini ai vangeli, compresero meglio il loro carattere dei commentatori moderni, e Tertulliano ha fornito una spiegazione molto soddisfacente del passo sopra citato. Egli afferma: “In un altro riferimento il tener lontano la madre comporta anche un simbolo della sinagoga, e nei fratelli sono simboleggiati gli ebrei”. La separazione del cristianesimo dall'ebraismo non aveva preso luogo da lungo tempo e quel che Marco intende dire col suo simbolismo è: la moltitudine potrebbe pensare che la Chiesa cristiana (che è il corpo di Cristo, e così rappresentato da Gesù) sia il figlio dell'ebraismo — della sinagoga; e gli ebrei potrebbero pretendere di essere in un senso particolare i figli di Dio, e quindi i fratelli del figlio di Dio; ma io vi dico che chiunque fa la volontà di Dio è figlio di Dio tanto quanto lo sono gli ebrei. La madre e i fratelli sono lasciati a stare fuori come un segno della separazione tra la Chiesa cristiana e gli ebrei; la moltitudine che si è seduta attorno a Gesù costituisce i membri della comunità cristiana. È abbastanza conforme a questa interpretazione il fatto che questo piccolo episodio segue immediatamente una controversia tra Gesù e gli scribi di Gerusalemme.
Ora, se dovessimo applicare a questo passo il semplice canone dei critici tradizionalisti, dovremmo ragionare che, dato che l'episodio è possibile e non, per loro, ovviamente fittizio, esso debba essere vero. Abbiamo visto, tuttavia, che esso non è letteralmente vero, ma simbolismo. L'investigatore scientifico riconoscerà qui una conferma della sua ipotesi di lavoro secondo cui il Vangelo nel suo complesso è simbolismo e non accetterà nulla di ciò che è letteralmente vero, sia esso possibile o no, finché non si sarà convinto che non può essere interpretato simbolicamente. Anzi, più di questo, quando la maggior parte del vangelo è stata provata di natura simbolica, la probabilità che anche la parte residua sia simbolica è elevata ad una misura davvero alta, perfino se al presente non potremmo essere in grado di interpretarla.
Passare attraverso tutto il vangelo di Marco e spiegarvi il simbolismo renderebbe questo libro troppo ingombrante. È possibile trattare solo un po' di casi. Nel considerare questa materia è necessario rammentare che l'antica propaganda  cristiana fu parzialmente diretta contro l'ebraismo e possiamo postulare con W. B. Smith che fu anche diretta contro il politeismo. Un altro punto importante da ricordare è che per gli antichi cristiani gli dèi pagani erano demoni. Questo fatto è indiscutibile; è chiaramente affermato dagli apologeti del secondo secolo e da Paolo in 1 Corinzi 10:20.
Gli adoratori di falsi dèi furono appellati figurativamente dai cristiani come posseduti da demoni — ovvero gli dèi nei quali credevano. La conversione al cristianesimo, pertanto, implicava l'espulsione di quei demoni. Questa idea è implicita nella seguente dichiarazione di Ireneo:
“Alcuni sconfiggono i demoni saldamente e veramente, perché spesso quelli purificati dagli spiriti malvagi credono e sono nella Chiesa”. La formula battesimale è, nella sua origine, una formula di esorcismo, come dice Carl Schmidt, nel suo lavoro su Gnostiscke Schriften in koptischer Sprache: “Questo ci ricorda fin troppo distintamente degli esorcismi che nei tempi antichi avevano un ruolo molto significativo nel Battesimo, in quanto tutti i candidati per esso erano considerati posseduti dai demoni”. Naturalmente, la gente credeva negli spiriti maligni in quei giorni, e del reale esorcismo veniva praticato; ma sufficiente è stato detto per provare che tra i cristiani la liberazione dei pagani dalla sottomissione alle divinità pagane fu descritta simbolicamente come l'espulsione dei demoni. Ancora una volta, il termine “impurità” è stato costantemente applicato dai profeti all'idolatria; e, come nella Legge Mosaica i lebbrosi erano considerati particolarmente impuri, la guarigione dei lebbrosi si sarebbe prestata molto facilmente allo scrittore evangelico come una metafora della guarigione dei pagani dall'impurità dell'idolatria. Schmiedel e altri commentatori hanno riconosciuto che la guarigione dei malati e il recupero della vista dai ciechi simboleggiano la guarigione non delle malattie fisiche ma morali e della cecità morale oppure religiosa.
Guerra è dichiarata contro il politeismo, colla guarigione dell'indemoniato di Gadara, quasi all'inizio del ministero di Gesù. Questo atto di guarigione viene eseguito subito dopo il primo attraversamento del mare, il quale sembra mostrare che lo scrittore avesse in mente le regioni lontane dalla Palestina che si affacciano sul Mar Mediterraneo, dove fiorì principalmente il politeismo. L'uomo posseduto rappresenta l'umanità, e la legione dei diavoli la moltitudine di falsi dèi a cui l'umanità fu in soggezione. Lo scrittore in questo episodio dichiara che l'umanità sarà liberata dal politeismo e dall'idolatria mediante la conoscenza del vero Dio recatagli da suo figlio Gesù. È stato sostenuto che la storia deve basarsi su un vero e proprio incidente a causa dei suoi dettagli. Ma Raschke ha mostrato che quelli si devono spiegare per mezzo dell'arte dello scrittore. L'incidente fu localizzato nella Decapoli perché le parole aramaiche,
“bayir asar”, che significano “nella Decapoli”, avrebbe significato anche, con un cambiamento quasi impercettibile di ortografia,  “posseduto da uno spirito impuro”; infatti, la stessa parola in aramaico significa “spirito” oppure “polis” (cioè “città”), a seconda se sia maschile o femminile. Deka è greco per “dieci”. La parola aramaica per “dieci” è “asar”, e quella per “incatenare” è “esar”. Le due parole sono difficilmente distinguibili nella pronuncia; da qui l'elemento che l'uomo fosse stato spesso legato con catene evidentemente derivava da Dekapolis, il nome della regione. Ci viene detto che l'uomo gridava giorno e notte e si feriva con pietre. Ora, l'antico nome ebraico del distretto era Argob, il suo villaggio principale Golan, e il distretto immediatamente a nord Maacha; ma la parola aramaica “maha” significa “colpire o tagliare”, “Argob” significa “la terra pietrosa” e “kolan” significa “colui che grida”. Nell'immediate vicinanze di Gadara risiede Auranite, di cui il nome aramaico fu Choran o Chora. Ora, “Gadhra” è aramaico per “la mandria”, e Chora suggerisce la parola greca choiros, “un maiale”. Da qui vediamo che tutti i dettagli della storia son derivati da nomi della regione stessa o di qualche luogo negli immediati dintorni. L'incidente è quindi simbolico nel suo insieme e artificiale nei suoi dettagli.
Dato che la storia evangelica nel suo complesso è simbolismo, la sua localizzazione non deve essere presa letteralmente. I viaggi di Gesù attraverso la Palestina devono essere intesi a simboleggiare la diffusione della Chiesa cristiana, oppure del culto di Gesù, nelle regioni del mondo civilizzato. Se ognuno potesse giungere abbastanza fresco alla lettura del vangelo, sicuramente sarebbe stato colpito dal sorprendente numero di demoni che apparentemente infestarono la Palestina. È innaturale che ce ne dovrebbero essere così tanti; e sembra molto strano che l'espulsione dei demoni dovrebbe esserci presentata come la funzione più importante di Gesù e dei primi missionari cristiani. Il fenomeno diventa ancora più straordinario quando osserviamo che, dopo che Gesù era entrato in Giudea sulla sua strada verso Gerusalemme, non incontrò un solo demoniaco, non un lebbroso, né folle di malati. Era la Giudea tanto più sana e più salutare del resto della Palestina, e non vi era nessun lebbroso? Questa circostanza è sconcertante per la visione tradizionale; ma quando abbiamo capito che i demoni nel vangelo simboleggiano le divinità pagane, la spiegazione è abbastanza semplice. Non c'era nessuna idolatria in Giudea. Ci potrebbero essere stati culti diversi dall'adorazione nazionale di Jahvè, ma quelli erano praticati segretamente e locali. L'accusa recata dai primi cristiani contro gli ebrei era che la loro religione fosse troppo formale, fin troppo una materia di cerimonie, di purificazioni esteriori e di osservanze: gli ebrei erano afflitti da cecità spirituale. Di conseguenza, mentre Gesù non incontra demoni in Giudea, poco dopo l'ingresso in quel paese incontra un ebreo cieco. Non si può dubitare che la cecità di Bartimeo simboleggia la cecità spirituale degli ebrei, che doveva essere curata dalla fede in Gesù. Così Gesù dice a questo ebreo:
“La tua fede ti ha salvato”.
Proprio come, dopo il primo attraversamento del Mare di Tiberiade, Gesù incontra con un uomo che rappresenta l'umanità pagana, possiamo aspettarci che, subito dopo il suo ingresso in Giudea, egli avrebbe incontrato un uomo che rappresenta gli ebrei. Tale è, infatti, il caso. Un giovane arriva correndo da Gesù e si inginocchia; è un ebreo rigoroso, perché ha mantenuto tutti i comandamenti fin dalla sua giovinezza. È detto aver avuto grandi beni. Quali erano quelli? La risposta è data in Romani 9:4-5: “Essi sono Israeliti e possiedono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi”. Quelli sono i grandi beni che furono il vanto dell'ebreo. Gesù dice al giovane che, per ereditare la vita eterna, deve condividere tutti quei beni con i poveri, cioè con i gentili: a meno che non voglia entrare nel regno con gli stessi termini dei gentili egli non vi può entrare. “Prendi la croce”, dice Gesù al giovane ebreo; ma per l'ebreo Cristo crocifisso era un ostacolo e così si rifiutò e se ne andò. È detto che Gesù avesse amato il giovane, che è molto naturale, poiché il cristianesimo era nato tra gli ebrei e fece a loro il suo primo appello; ma essi non avrebbero abbandonato i loro grandi beni, e si rifiutarono di “prendere la croce”. Molto probabilmente, come ha suggerito W. B. Smith, la dichiarzione che l'uomo fosse giovane e che Gesù lo amasse è un'eco di Osea 2:1: “Quando Israele era giovane, io lo amai”. Intesa letteralmente, la richiesta che il giovane dovesse vendere tutto ciò che aveva e donarlo al povero era irragionevole; non meno tale è l'affermazione che è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio. Inoltre, l'esclamazione dei discepoli, “E chi mai si può salvare?”, sarebbe piuttosto assurda e inutile. Dire “se nessun ricco può salvarsi, chi mai può esserlo?” sarebbe un'assoluta assurdità; ma per i discepoli ebrei dire “Se l'ebreo non può salvarsi, chi mai può esserlo?” sarebbe abbastanza naturale. Qui, allora, abbiamo un altro episodio che non è escluso dal canone della critica tradizionalista, ma che è ovviamente simbolico e non letterale.
Un altro episodio che è altrettanto possibile e su cui si è fatto affidamento per provare l'umanità e la natura amorevole di Gesù è quello della benedizione dei bambini. Ma quando osserviamo che quei piccoli erano
credenti (Matteo 18:6), cominciamo a sospettare qualche significato nascosto. La luce viene gettata su questa materia da alcuni passi del Talmud. “Il forestiero che diventa un proselita è come un piccolo che è nato”. “Un gentile che è convertito e lo schiavo che è libero, ecco! Egli è come un piccolo appena nato”. Sembra perciò che fosse naturale per lo cultura ebraica simboleggiare i convertiti come piccoli o bambini. Che anche gli evangelisti usassero questo simbolismo è dimostrato da Matteo 11:25: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”. È chiaro che la parola “piccoli” è usata simbolicamente in questo testo. La supposizione che il termine “piccoli” o “bambini piccoli” sia usato simbolicamente nel passo in esame per rappresentare i convertiti gentili al cristianesimo è confermato da Matteo 18:3: “Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.”. Qui un convertito è chiaramente allegorizzato come un bambino. L'episodio è un riflesso della controversia che sappiamo essere stata appassionata nella Chiesa antica per quanto riguarda l'ammissione dei convertiti gentili. Che cosa può intendere Matteo con `scandalizzare bambini´, se non la forzatura dei convertiti a sottomettersi alla circoncisione e ad altre istituzioni ebraiche? Perché i discepoli avrebbero rimproverato coloro che recavano bambini piccoli da Gesù? Tale comportamento sarebbe strano; ma diventa abbastanza intelligibile quando capiamo che i discepoli rappresentano i capi della Chiesa cristiana ebraica, la quale ebbe la controversia con Paolo riguardo alle condizioni di ammissione dei convertiti gentili. “Paulus” è una parola greca che significa “piccolo”, ed è molto probabile che il bambino messo in mezzo ai discepoli e preso da Gesù tra le sue braccia abbia lo scopo di simboleggiare l'apostolo Paolo.
Il Gesù puramente umano della critica moderna è una finzione creata da un malinteso della natura della narrazione evangelica. Nella prima letteratura cristiana al di fuori dei vangeli Gesù, come già detto, è un essere divino.
Dal punto di vista tradizionale della natura dei vangeli è molto difficile spiegare il silenzio degli scrittori del secondo secolo nei loro confronti. Prendiamo ad esempio l'epistola di Barnaba, che secondo la maggior parte dei critici è stata scritta da qualche parte intorno al 130 E.C.. In questa epistola non c'è alcun riferimento a nessun vangelo, né a nessun episodio della vita di Gesù. La Crocifissione è menzionata, ma la credenza in questo è dogmatica e indipendente dalla storia evangelica. C'è, è vero, un passo che è stato pensato in possesso di una citazione di Matteo:
“Stiamo attenti che giammai come è scritto siamo trovati `molti chiamati ma pochi eletti´”. Ma dal momento che le parole di questo brano provengono da un discorso di Gesù e non sono trovate in Marco, probabilmente erano contenute in alcune raccolte di Logia o di Gesù. Ewald era di quel parere. Quindi lo scrittore della lettera non ha bisogno di averle prese dal vangelo e la probabilità è che non lo abbia fatto. Il fenomeno di cui sopra è ancora più eclatante nel caso del Pastore di Ermas, che si suppone sia stato scritto intorno al 140 E.C. In questo lavoro non c'è traccia di conoscenza dei vangeli o della vita di Gesù. Lo scrittore descrive una visione in cui vede “un uomo dall'aspetto glorioso vestito come un pastore”, ma il nome “Gesù” non è dato a quest'uomo né è connesso in qualche maniera col Gesù evangelico. Questi scrittori devono essere stati a conoscenza di qualche vangelo; perché l'hanno ignorato? Sembra che ci sia solo una possibile spiegazione — conoscevano la sua vera natura, e sapevano anche che Gesù non aveva avuto una vita terrena così come descritta in esso.
Questa conclusione è resa più probabile perché lo scrittore dell'epistola di Barnaba interpreta l'Antico Testamento proprio nello stesso modo in cui, dopo W. B. Smith, io ho dimostrato che i vangeli dovrebbero essere interpretati. Dice che l'Antico Testamento non deve essere preso letteralmente; deve essere interpretato simbolicamente, trattato come allegoria. In nessuna delle scritture riferite c'è qualche traccia della dottrina che Gesù è morto come sacrificio espiatorio. Questo fatto tende a confermare l'opinione sostenuta in questo libro, che il cristianesimo è una sintesi. Questi due scrittori erano in un flusso di pensiero cristiano che non era ancora fuso con il flusso in cui era prominente la dottrina dell'espiazione. Lo stesso disprezzo dei vangeli si trova nella maggior parte degli apologeti del secondo secolo. Ad esempio, Atenagora, data della cui
Apologia può essere il 170-180 E.C. circa, sta scrivendo per raccomandare il cristianesimo agli uomini colti del suo giorno e all'imperatore. Si sarebbe pensato che avrebbe citato atti di Gesù per mostrare la sua santità e il potere divino. Non una parola di questioni simili, né un suggerimento che sapesse della vita di Gesù sulla terra. Sono citati certi detti che hanno una certa affinità con i detti di Gesù registrati nei vangeli, ma non sono citazioni dei vangeli, e ogni volta che viene nominato  colui che parla è sempre il Logos. Come avrebbe potuto questo scrittore, e altri che hanno scritto nell'ultima parte del secondo secolo, ignorare completamente i vangeli e la loro narrazione della vita di Gesù? Nessun critico tradizionalista ha mai dato una spiegazione soddisfacente di questo fenomeno eccezionale: c'è solo una spiegazione possibile — quella già data. Quelli scrittori erano legati alla cerchia di pensiero da cui era scaturito il primo vangelo e la conoscenza della vera natura del vangelo esisteva ancora in quella cerchia. Il vangelo era stato scritto per l'edificazione dei credenti; non era una narrazione di eventi che potrebbero essere richiamati come prove in una controversia con gli estranei. Giustino Martire, d'altra parte, che apparteneva ad una cerchia diversa, attingeva abbondantemente da qualche vangelo o vangeli.
La conclusione che il Vangelo primitivo era simbolico non impedisce di credere che elementi mitici abbiano trovato la loro strada nei vangeli, e che, soprattutto in Matteo, siano stati introdotti diversi elementi basati su passi dell'Antico Testamento.

3. La Dottrina del Regno nel Vangelo

Poiché la dottrina cristiana assorbì la concezione ebraica del Messia, in parallelo alla sua trasformazione, è probabile che avesse assorbito anche la concezione ebraica del Regno che era connessa così intimamente con quella del Messia. Una modifica, ovviamente, si è verificata anche in questo caso. Secondo l'idea ebraica, il Regno di Dio sarebbe stato stabilito alla venuta del Messia. Quest'idea, tuttavia, non implicava che il Regno non potesse in alcun modo esistere prima di quell'evento. In cerchie rabbiniche il Regno di Dio o dei Cieli era equivalente al Regno della Legge; dove regnava la Legge, regnava Dio. Questo Regno non è soggettivo, ma oggettivo; è costituito da tutti coloro che rispettano la Legge. La funzione del Messia sarebbe quella di stabilire questo Regno, già esistente fra gli ebrei, su tutta la terra.
I cristiani ereditarono questa concezione con la necessaria modifica — vale a dire, la sostituzione della Legge col Vangelo, oppure la lettera della Legge con lo spirito di Cristo. Il Regno di Dio, a loro parere, consisteva di tutti coloro che avevano ricevuto lo spirito di Cristo, o lo Spirito Santo che era in Cristo — in altre parole, di tutti i battezzati. Fu ereditata anche l'idea messianica dell'istituzione universale di questo Regno alla seconda venuta di Cristo, ma questa non faceva parte della prima dottrina. Il capitolo escatologico di Marco 13, a volte chiamato
“la piccola apocalisse”, non fu nel Vangelo primitivo. Quel Vangelo, com'è stato dimostrato, fu gnostico, e la prima dottrina gnostica del Logos non comprendeva una gloriosa seconda venuta. Secondo questa dottrina, il mondo doveva essere redento dalla gnosi di Dio recata agli uomini dal Logos. Questa gnosi avrebbe potuto essere rappresentata come il seme da cui il Regno di Dio a tempo debito sarebbe cresciuto. Su questa vista otteniamo una spiegazione semplice e naturale di un numero di parabole che hanno provocato un gran mucchio di controversie. Il Regno di Dio è paragonato a un seme di senape che cresce per diventare un grande albero. Così la comunità cristiana che ha ricevuto la gnosi si diffonderà gradualmente fino a coprire la terra, quando il Regno sarà pienamente stabilito. Allo stesso modo, come il lievito che fermenta l'intera massa, così lo spirito di Cristo, o coloro che l'hanno ricevuto, fermenteranno tutta l'umanità. In Matteo troviamo la successiva concezione messianica della venuta del Regno, ma non in Marco, tranne che nella piccola apocalisse. In Luca ci sono due versi (17:20 e 21) che sembrano essere stati introdotti in qualche fase dello sviluppo evangelico come protesta contro la visione ebraica, dove il discorso ricordato di Gesù rivolto ai farisei è il seguente:“Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà: `Eccolo qui´, o `eccolo là´; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi”.
La traduzione delle ultime due parole nella versione autorizzata, “dentro di voi”, ha dato origine alla nozione che il termine “Regno dei Cieli” nel vangelo significhi una disposizione o uno stato d'animo; ma la traduzione non è corretta: è data correttamente la traduzione “in mezzo a voi” a margine. Lo scrittore fa ridimensionare a  Gesù l'idea che stava divenendo di moda, che il Regno sarebbe stato stabilito con tanto di catastrofi terrestri e celesti alla gloriosa apparizione del Messia. Egli difende la visione gnostica, che il Regno esisteva già nella comunità cristiana e che si sarebbe diffuso silenziosamente ma sicuramente come l'albero di senape.
D'altra parte, in Matteo e in Luca troviamo passi in cui a Gesù si fa enunciare una dottrina del Regno che è l'esatto opposto di quella sopra illustrata —di fatto, la dottrina apocalittica. Questa contraddizione ha esercitato grandemente le menti dei commentatori teologici, che hanno riempito centinaia di pagine nei loro sforzi per spiegarla. Alcuni — ad esempio, Keim e Beyschlag — suppongono che un cambiamento nella prospettiva mentale di Gesù fosse stato causato da circostanze esterne come il successo o la mancanza di successo della sua prima predicazione; ma mentre Keim ha ritenuto che la direzione di questo cambiamento fosse da una concezione materiale ad una spirituale del Regno, Beyschlag ha sostenuto che il cambiamento avvenne nell'inversa direzione. Nessuno di quei pareri può essere giustificato da alcuna dichiarazione nei vangeli. Altri commentatori, come Holtzmann, Schenkel e Weizsäcker, considerano imbarazzante per lui l'ipotesi di un cambiamento nell'attitudine mentale di Gesù a causa della pressione di circostanze esterne e tagliano arbitrariamente il nodo gordiano bandendo dal vangelo come non autentiche tutte le dichiarazioni escatologiche di Gesù. Altri, al contrario, sostengono che solo le dichiarazioni escatologiche siano autentiche. Qui abbiamo un esempio dell'applicazione del metodo teologico soggettivo censurato da Schweitzer. Non c'è nessuna scienza in questa procedura. E, come mostra questo esempio, smarrimento e confusione sono il risultato. Secondo l'ipotesi tradizionale le dottrine incompatibili messe in bocca a Gesù non si possano riconciliate, e ci si può sbarazzare delle contraddizioni solo attraverso una distinzione tra passi autentici e non autentici che non poggia su alcun canone scientifico di critica, ma è arbitraria e soggettiva. La spiegazione semplice e naturale di quelle contraddizioni è che le varie dottrine furono portate nel flusso principale del cristianesimo dai flussi tributari del pensiero che si unirono per formarlo. La crescita invisibile e silenziosa del Regno fu senza dubbio la concezione gnostica; il credo che sarebbe stato stabilito dopo catastrofi alla gloriosa seconda venuta del Messia provenne dal messianismo ebraico. I critici tradizionalisti spiegano l'ingresso di quelle idee precedentemente esistenti nel cristianesimo dicendo che Gesù avesse familiarità con gli scritti pre-cristiani e attingeva delle idee da loro. Ma la coesistenza nei vangeli di due idee così incompatibili come quelle appena menzionate dimostra che la dottrina cristiana non fu mai soggetta al processo unificante che essa avrebbe dovuto subire se fosse passata attraverso la mente di un solo uomo.

4. Il Significato del Termine “Figlio dell'Uomo” nel Vangelo

In precedenza è stato menzionato che nella dottrina gnostica i tre princìpi dell'universo erano pneuma, psiche e materia. A questo proposito, e del fatto che il vangelo di Marco è gnostico in natura, Raschke ha dato una spiegazione molto interessante e soddisfacente dell'uso del termine “Figlio dell'uomo” da parte dello scrittore. Tutti gli gnostici non concordavano sulla natura del corpo di  Gesù, ma l'opinione generale, che fu tenuta da Marcione, era che il corpo di Gesù fosse psiche, poiché era della stessa natura degli angeli: il Pneuma discese in lui al suo battesimo nel Giordano; divenne così — ciò che non era stato prima — Il Figlio di Dio e dello Spirito Santo, poiché il pneuma era lo spirito puro di Dio. Ora, lo spirito di Dio non poteva morire, né gli poteva essere permessa la sofferenza di un'umiliazione, per cui gli gnostici sostennero che solo il corpo visibile — la psiche di Gesù — soffrì e morì, ma che il pneuma lo lasciò appena cadde nelle mani dei suoi nemici. Questo distacco del pneuma dalla psiche dà la spiegazione del giovane che ha un lenzuolo di lino sul suo corpo nudo, che fu afferrato con Gesù, ma fuggì, lasciando il lenzuolo di lino nelle mani dei suoi sequestratori. Questo mantello di lino simboleggia il corpo visibile di Gesù; il corpo nudo che era fuggito, lo spirito disincarnato. Era abbastanza solito per gli scrittori antichi parlare di uno spirito disincarnato come di uno spirito spoglio. Il Paolo gnostico lo fa in 2 Corinzi 5:3, dove, scrivendo del corpo celeste da cui lo spirito sarà in futuro rivestito, dice: “se pure saremo trovati vestiti e non nudi”. Raschke, applicando questa dottrina e simbolismo gnostici, afferma che quando Gesù dice “io” sta parlando come pneuma, perché era il pneuma ad essere il vero Cristo, il Figlio di Dio; ma quando  usa il termine “Figlio dell'Uomo” egli sta parlando della psiche. Nel vangelo di Marco, a Gesù non viene mai fatto dire  “io” soffrirò, “io” sarà messo a morte, ma sempre il “Figlio dell'Uomo” soffrirà. Il termine “Figlio dell'Uomo” è tratto naturalmente dalla letteratura apocalittica ebraica. La spiegazione di Raschke offre un indizio al significato molto discusso del verso, Matteo 12:32. Poiché il Figlio dell'Uomo, la forma visibile di Gesù, è meramente psiche e non divina, pronunciare una parola contro di lui non era blasfemia. Gli ebrei, però, avevano detto che Gesù possedeva uno spirito impuro; così facendo essi avevano parlato contro il pneuma, lo Spirito Santo, che era un'emanazione da Dio stesso, e così erano incorsi nella colpa della blasfemia. È piuttosto eccezionale che manchi in Marco il verso corrispondente a questo, e l'antitesi tra Figlio dell'uomo e lo Spirito Santo non è derivata in modo chiaro, sebbene sia lì che ci si aspetterebbe in particolare di trovarla. Può darsi che i manoscritti del vangelo di Marco siano corrotti a questo punto e che la frase “figli di uomini”, in 3:28, rappresenti, come lettura originale, “Figlio dell'uomo”. Anche Luca ha “Figlio dell'uomo” nel passo corrispondente. È piuttosto strano che in Matteo l'imperdonabilità della blasfemia contro lo Spirito Santo sia affermata in due versi consecutivi, uno dei quali corrisponde a Marco e l'altro con Luca. Si può sospettare che ci sia qui una duplicazione, e che Matteo 12:32 e Luca 12:10 diano la forma originale del verso. Altrimenti bisogna supporre che Matteo avesse capito e adottato la frase di Marco, che non è probabile, poiché quello scrittore non fu uno gnostico e antagonizza Marco su importanti materie dottrinali. Una probabile soluzione di questo piccolo problema è che, in questo caso, dal momento che l'implicazione gnostica della frase “Figlio dell'Uomo” era particolarmente ovvia, si tentò di rimuoverla. Quando, per motivi di politica, la Chiesa cattolica accettò il vangelo di Marco, i vescovi senza dubbio rimossero, per quanto possibile e come lo consideravano necessario, le sue caratteristiche gnostiche. Era molto meno urgente alterare il verso corrispondente di Matteo in questo caso, perché le congregazioni che usavano il vangelo di Matteo non erano in pericolo di esservi offese. Era però importante sradicare la dottrina gnostica nelle comunità in cui si leggeva Marco. L'alterazione potrebbe essere stata fatta in alcuni manoscritti del vangelo di Matteo — un'ipotesi che giustificherebbe il fatto che in quel vangelo ora abbiamo entrambe le forme del verso.

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