lunedì 27 novembre 2017

Michel Onfray ha ragione: Gesù di Nazaret non è mai esistito storicamente

Il libro-evento dell'anno.

La nostra intera civiltà sembra fondata sul tentativo di dare un corpo a quest'essere che non ha avuto altra esistenza se non quella concettuale. Gesù di Nazareth, mai esistito storicamente, è diventato il Cristo Pantocratore che cristallizza e satura nel proprio nome quasi duemila anni di storia occidentale. Se nei suoi confronti la storia del suo tempo tace, quella successiva è stata invece assai loquace, guidata com'era dal desiderio di dare a Gesù l'intera forma del mondo. La scommessa è stata quasi mantenuta: non si è riusciti a dare al mondo intero la sua immagine, però ciò che è stato risparmiato non ha potuto esistere senza doversi determinare in rapporto a lui.
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 47)


Il filosofo ateo e miticista Michel Onfray.

Avevo da poco recensito il libro-evento di Michel Onfray. Vorrei però trattare separatamente, riservandomi di citare una breve antologia dal suo poderoso volume di circa 700 pagine, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana (Ponte alle Grazie, 2017), l'opinione tenuta da Onfray in merito al personaggio inventato Gesù di Nazaret. Un'opinione non da poco, visto che egli dimostra di essere piuttosto familiare col miglior caso possibile contro la storicità di Gesù, alla luce di quali autori miticisti cita in bibliografia:
La biografia su Gesù è considerevole; quella che si occupa di Gesù come mito è derisoria. Possiamo leggere, di Prosper Alfaric, Esiste Dio? No, Dio non esiste (Provenzano e Barresi, 1989), e Jésus a-t-il existé? [È esistito Gesù?] di Georges Las Vergnas (Autopubblicazione, 1958). E: Du sens des Évangiles [Sul senso dei Vangeli] di Iosif Kryvelev (Éditions en langues étrangères de Moscou, 1963). Ma anche Jésus a-t-il vécu? Controverse religieuse sur le mythe du Christ [Gesù è vissuto? Controversia religiosa sul mito di Cristo] di Arthur Drews (Albert Messein, 1912) e l'ultimo libro di Paul-Louis Couchoud, Le Dieu Jésus [Il Dio Gesù] (Gallimard, 1951), che difende la tesi di un Dio progressivamente umanizzato piuttosto che quella di un uomo progressivamente divinizzato.
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 647-648, mio grassetto)

Mentre (purtroppo) un libro di Alfaric o di Drews non è stato ancora tradotto in lingua italiana, io personalmente ho tradotto un libro del miticista sovietico Iosif Kryvelev e un altro del miticista francese Paul-Louis Couchoud, quest'ultimo essendo il miticista del passato che più di tutti ha influenzato (per sua stessa ammissione) il più grande miticista vivente, Earl Doherty — e quindi, per estensione, anche Richard Carrier. Perciò posso ben inferire da ciò che Onfray non è affatto un dilettante in materia di teoria del mito di Gesù (a differenza di qualcun altro). Al contrario...

In Onfray la critica al mito della veracità storica di Gesù fa parte della critica ben più vasta che investe e cattura l'intera civiltà occidentale. Fin dall'introduzione siamo trascinati nel piuttosto torbido connubio che ha legato la finzione dell'“uomo” di Nazaret alla creazione di quella che passa per “civiltà giudaico-cristiana”:

La civiltà giudaico-cristiana trionfa non perché è la verità, ma perché è potenza armata, coercizione poliziesca, astuzia politica, intimidazione militare. Da puro e glorioso concetto messianico sfuggito dai versetti veterotestamentari, il profeta ebraico Gesù diventa una figura storica che le varie soldatesche rendono vincolante per tutti. Economa e darwiniana, la storia segue sempre la strada di una minoranza attiva che sottomette le minoranze silenziose. È il vigore che caratterizza la civiltà in questo suo momento fondativo. La prima parte di Decadenza, «I tempi del vigore», dà i dettagli.
La potenza oltrepassa le stanze delle guardie e il sudore dei legionari, sa anche trasformarsi in intelligenza e penetrare nei cervelli di un'altra minoranza che dà alla finzione il proprio corpo ideologico: quando sono cattolici (e a quei tempi hanno tutti interesse a esserlo), i pensatori, i filosofi, i teologi e i professori contribuiscono alla cristallizzazione del ramo della civiltà. La patristica, la retorica, la sofistica, la scolastica e la teologia sono altrettante legioni venute da ogni parte a sostenere i soldati che sanno di aglio e di vino cattivo. Uno affila e lucida la propria spada, l'altro intaglia la piuma e prepara l'inchiostro. Entrambi avanzano nella stessa direzione.
Gli artisti, i pittori, gli scultori, i musicisti, gli archeologi e gli storici costituiscono divisioni che si aggiungono a questo corpo d'armata. Alla storia di Gesù e dei suoi vengono offerti volti e corpi, forme e vestiti, sguardi e voci, sangue e carne. Gli si costruisce una vita reale e concreta, si trovano i luoghi in cui è nato, in cui ha subito il processo, in cui è stato crocefisso ed è morto, si scava nel terreno per recuperare chiodi e pezzi della vera croce. Quattro secoli più tardi, a disposizione ci sono le spine della corona del supplizio e la tunica del crocefisso è stata ripiegata con cura.L'architetto costruisce gli scrigni di questi ingranaggi ideologici. La distruzione degli antichi palazzi, il riciclaggio dei templi pagani, la costruzione di nuovi maestosi edifici, tutto conferisce all'idea una forma elaborata. Gli organi del potere e del sapere hanno strutture proprie. La visibilità della potenza esige costruzioni monumentali. I luoghi di culto abbondano. Secolo dopo secolo, possiamo seguire su una cartina dell'Europa il movimento di questo vigore: l'incredibile fioritura di basiliche, abbazie, chiese, cattedrali e monasteri mostra come la civiltà giudaico-cristiana sia prospera e goda di una salute di ferro.
L'imperatore, il legionario, il teologo, l'artista e l'architetto vedono il giurista raggiungerli. La fede ha forza di legge; la legge ha forza di fede. La maglia giuridica funziona come la rete dei reziari nell'arena: impossibile liberarsene una volta lanciata sugli altri gladiatori. La legge non è altro che la cristallizzazione di una forza in una forma vantaggiosa per coloro che la creano. Il diritto non racconta il giusto o il vero ma la forza. Il giurista è un misto di prete e di soldato, di filosofo e di professore. Dà l'apparenza di pace alla violenza. O meglio: vieta ogni altra violenza che non sia quella che è lui stesso a imporre.
Il professore educa gli educatori. La scuola e l'università costruiscono i soldatini intellettuali dell'ideologia dominante. In questi luoghi, non s'impara a pensare liberamente ma a obbedire fedelmente. Il sapere gira su sé stesso come un derviscio impazzito. Gli arabeschi della scolastica, le volute della retorica, il rococò della sofistica annegano il pesce intellettuale nell'acqua salmastra di un mondo che sfianca. Ciò che non ottiene l'insegnante, il giurista lo realizza con l'aiuto del soldato e del guardiano. I banchi dell'università convincono solo chi è già convinto. Fuori, il potere giudaico-cristiano si accanisce a massacrare mentre gli studenti recitano le formule del sillogismo — Barbara, Festino, Celarent, Fresison, Bocardo, ecc.

L'esercizio della Ragione corrisponde più o meno all'entrata del lupo nell'ovile. Quando non è strumento della fede, come lo fu per mille anni, la ragione diventa il suo nemico, come lo sarà per qualche secolo, prima di soccombere essa stessa inghiottita dal vuoto che avrà aperto sotto i propri piedi. In mano a Tommaso d'Aquino la ragione non ottiene gli stessi risultati che in mano a Montaigne, l'uomo che cancella il Medioevo. Il tempo del vigore è stato quello della Nascita, della Crescita e della Potenza della civiltà giudaico-cristiana; il tempo dell'esaurimento che si annuncia sarà quello della Degenerazione, della Senescenza e della Deliquescenza. È la seconda parte di Decadenza.
La Ragione ben condotta, in altre parole autonoma e libera dall'intralcio di Dio, opera più e meglio dell'imperatore, del legionario, del teologo, dell'artista, dell'architetto, del giurista e del professore, perché finisce per cassare tutto quel mondo. La realtà politica costruita sulla finzione di Cristo s'incrina. Come l'archeologia, anche l'esegesi biblica fa risalire in superficie testimonianze che provano che le cose non stanno tutte come le racconta la narrazione ufficiale. Sul tavolo del filosofo, troviamo sistemate contraddizioni, inverosimiglianze, anomalie, stravaganze, stranezze e bizzarrie. Questo filosofo, in piedi e non inginocchiato, è intento a pensare davvero i testi, senza accontentarsi di recitarli o di chiosarne le chiose. La decostruzione razionale piazza cariche esplosive in tutti gli angoli dell'edificio giudaico-cristiano. Il fatto divertente è che il primo dinamitardo del cristianesimo, all'inizio del Settecento, è proprio un parroco: Jean Meslier.
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 38-40, mio grassetto)

Un argomento piuttosto singolare mosso da Onfray contro l'idea di un Gesù storico, è l'attenzione da lui riposta su come venne concepito il suo corpo nei vangeli canonici e apocrifi. Non solo di lui ma anche dei suoi genitori. Per chi legge Onfray, l'attenzione al corpo non meraviglia. Il filosofo francese ha sempre fatto del corpo la chiave di volta mediante la quale interpretare il grado di sincerità di un intellettuale. Negare il corpo, i suoi bisogni, dal più puro al più elementare al più fisiologico, per Onfray equivale a macchiarsi di un assassinio ideologico. E ciò che trova a proposito di Gesù è davvero singolare: i primi cristiani si gloriavano — addirittura facevano a gara! — nel negare la realtà del corpo di Gesù Cristo (vedi ad esempio il pre-paolino Inno ai Filippesi: “...ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo in forma di uomini: ovvero, non veramente uomo), e non mi riferisco solo ai cristiani doceti, visto che gli stessi proto-cattolici non scherzavano, con le loro ridicole storie dell'immacolata concezione, ecc. E l'ironia è che molto probabilmente le storie della nascita verginale in Luca e in Matteo furono interpolate nei vangeli proprio per combattere il docetismo di Marcione (il quale, com'è noto, riteneva che Gesù fosse sceso sulla terra già adulto). Quindi sarebbe oltremodo ridicolo veder combattere chi negava il corpo di Gesù non brandendo magari ipotetiche prove della sua umanità storica, concreta, bensì avanzando a loro volta fantasiose storielle ancor più impossibili dell'idea che il corpo del Cristo fosse un mero ologramma.
Questo, per Onfray, è troppo: il corpo di Gesù non è stato negato per delirio religioso sorto spontaneamente intorno alla sua figura dopo la sua morte. Il corpo di Gesù è stato negato perché era a tutti gli effetti, fin dal primo istante in cui fu “visto” (probabilmente: per allucinazione), un anti-corpo. L'anticorpo di un angelo rivelatore.

Così Onfray:

Le avventure dell'anticorpo di Cristo.
Biografia di un'invenzione

Monte Golgota, Palestina
venerdì, 7 aprile del 30

La civiltà giudaico-cristiana si costruisce su una finzione: quella di un Gesù che non ha mai avuto altra esistenza se nn allegorica, metaforica, simbolica o mitologica. Di questo personaggio, infatti, non esiste alcuna prova tangibile ai suoi tempi: non troviamo nessun ritratto fisico, né nell'arte a lui contemporanea né nei testi dei Vangeli, dove non si dà peraltro nessuna descrizione del personaggio. Più di mille anni di storia dell'arte lo hanno fatto diventare un uomo bianco, con un volto e uno sguardo limpidi, con i capelli biondi e la barba a due punte. Questi elementi forniscono, in realtà, più informazioni sugli artisti che lo raffigurano (in senso etimologico: che gli danno una figura) che non sul loro soggetto. Nell'arte occidentale, Gesù assume il corpo dell'ariano brachicefalo che lo dipinge. Nulla di ciò che costituisce questo ritratto emblematico trova, però, giustificazione in un qualsiasi versetto del Nuovo Testamento, che rimane sempre muto sul suo aspetto fisico.
La nostra intera civiltà sembra fondata sul tentativo di dare un corpo a quest'essere che non ha avuto altra esistenza se non quella concettuale. Gesù di Nazareth, mai esistito storicamente, è diventato il Cristo Pantocratore che cristallizza e satura nel proprio nome quasi duemila anni di storia occidentale. Se nei suoi confronti la storia del suo tempo tace, quella successiva è stata invece assai loquace, guidata com'era dal desiderio di dare a Gesù l'intera forma del mondo.
La scommessa è stata quasi mantenuta: non si è riusciti a dare al mondo intero la sua immagine, però ciò che è stato risparmiato non ha potuto esistere senza doversi determinare in rapporto a lui.

L'origine di questo Gesù senza corpo sta in una nascita che non è una nascita. Un anticorpo non può evidentemente nascere come corpo! Ricordiamo alcune ovvietà di base: fin dall'inizio dell'umanità, la storia richiede che un bambino degno di questo nome, vale a dire un essere in carne e ossa, abbia un padre come genitore e una madre che lo porta nel proprio ventre dopo averlo concepito con il seme di quello. Per lo meno, le cose sono andate così fino alla fine del Novecento: banalmente, il padre era un uomo e la madre una donna...
Molto in anticipo sui tempi, il trio costituito da Gesù, Maria e Giuseppe mette in campo alcuni fattori che alla modernità saranno molto cari: la procreazione dissociata dal sesso, il padre che non è un padre, la madre vergine, l'imene non intaccato dal parto, il genitore senza sperma, lo sperma senza genitore, il bambino concepito senza liquido seminale, altri fratelli nati da una madre sempre vergine, la famiglia priva della sessualità dei genitori, e del figlio, che muore a trentatrè anni. Il tutto riassunto in un individuo che si dichiara Figlio di Dio e continua a sostenere che il Padre e il Figlio sono la stessa cosa — un insieme generalmente definito come Spirito Santo. L'assenza di un corpo fisico reale sembra essere pregiudizievole all'esercizio di una ragione condotta in maniera sana. Ed ecco che proprio su quest'autentica assurdità si va a costruire la ragione giudaico-cristiana occidentale.
La genealogia di Gesù è davvero complicata. La litania che apre il
Vangelo secondo Matteo lo fa discendere in linea diretta da Davide e da Abramo, con tre serie di quattordici generazioni l'una. Fin dall'inizio, quindi, si tratta di presentare Gesù come il Messia atteso dagli ebrei, come l'erede diretto delle promesse fatte ad Abramo, a Davide e alla sua dinastia. Quello che l'apostolo ci sta dicendo, è che Gesù non è altro che il Profeta annunciato dagli ebrei: quelli fra gli ebrei che aderiscono a questa versione sono i giudeo-cristiani, quelli che non aderiscono rimangono ebrei. Nel sistema giudaico-cristiano, Gesù è una finzione che cristallizza l'annuncio della propria venuta. Chi ha costruito questa finzione per il futuro l'ha composta esattamente com'era stata annunciata nel passato. Si afferma che quanto viene annunciato nell'Antico Testamento si realizza nel Nuovo: il futuro del primo diventa il passato del secondo. Ci torneremo, su queste cose.
Anche riducendo la genealogia ai soli genitori e nonni di Gesù, quelli che vediamo sono dei corpi assolutamente performativi, come si dice in linguistica: ci sono stati solo perché è stato detto che c'erano. Giudichiamo noi stessi: i nonni di Gesù erano Gioacchino e Anna. In ebraico, Gioacchino significa «preparazione del Signore». In pratica, il patronimico preconizza tutto il quadro teologico: Gioacchino è l'uomo che permetterà l'incarnazione di Dio. Il nome di Anna, invece, oltre a ricordare il nome della madre di Samuele, ci racconta della «grazia». Gli impieghi ontologici del nonno e della nonna di Gesù si trovano così manifestati già al momento della loro prima enunciazione. Una ha la grazia, l'altro dà forma a Dio. Come potrebbe la loro progenie sfuggire a questo destino fissato e fossilizzato dai patronimici? Lo stesso nome di Gesù significa «Dio salva», «Dio libera». Queste semplici informazioni patronimiche annunciano la natura metaforica di tutta questa storia.
I Vangeli sinottici non indugiano molto su Gioacchino e Anna. Dobbiamo leggere i Vangeli apocrifi per avere informazioni più dettagliate sui nonni che provvedono all'umanità di Gesù. È comprensibile che sant'Agostino, stabilendo nella
Dottrina cristiana (II, 8) il canone dei 27 libri del Nuovo Testamento, scelga ciò che alimenta la mitologia del cristianesimo nel senso da lui auspicato, un cristianesimo cioè metafisico e meno rispondente alla storia. Più spiritualizziamo e più smaterializziamo. Meno Gesù è materiale e più è spirituale.
Il
Protovangelo di Giacomo e il Vangelo dell'infanzia dello Pseudo-Matteo ci consentono di ricavare qualche informazione sui genitori dei genitori di quell'anticorpo che è Gesù. Il titolo originale del Protovangelo è Natività di Maria. In seguito, l'Occidente latino ha condannato questo testo che si era già largamente diffuso in parecchie lingue — latino, siriaco, copto, armeno, georgiano, etiopico, arabo e antico irlandese. Come succede sempre nel cristianesimo, il testo ricicla storie già presenti nell'Antico Testamento, in particolare quella di Sara e Abramo e dell'inattesa nascita di Isacco annunciata da un angelo dalle sembianze umane (Genesi, 18, 1-15).
Anna è vedova e sterile. Gioacchino parte per digiunare quaranta giorni e quaranta notti nel deserto e permettere così a Dio di mandargli il figlio che cancellerà l'affronto della propria sterilità, a quei tempi e in quei luoghi considerata come una punizione divina. Questi quaranta giorni rimandano evidentemente a durate simboliche: prima a Mosè (Esodo 24, 18) e a Elia (Primo libro dei Re 19, 8) e, poi, anche a Gesù (Matteo 4, 2). Nel frattempo, Anna piange. All'ora nona, si siede come per coincidenza sotto una pianta di alloro: vuole il caso che quest'albero, sempre verde, simboleggi l'immortalità... Analogamente, l'ora nona sarà quella della morte di Cristo sulla croce. Anna invoca dunque Dio ed evoca Sara, Abramo e Isacco. Alza gli occhi e scorge su un albero un nido di passeri - questa volta, non c'è bisogno di spiegare la simbologia. Si lamenta e le appare un angelo, lo stesso che si presenterà anche a Gioacchino. Dopo sette mesi (il sette è la cifra della perfezione, il numero del giorno in cui la creazione viene portata a termine), Anna dà alla luce Maria, futura madre di Gesù. E allatta.
Il
Vangelo dell'Infanzia dello Pseudo-Matteo fornisce alcune precisazioni supplementari: Gioacchino è pastore. Anche qui, una volta di più, l'informazione sulla professione appartiene all'ordine allegorico più che a quello sociologico, essendo il pastore colui che accompagna le pecore e i montoni, ma anche colui che guida il gregge dei fedeli. Gioacchino è dunque un pastore proprio come lo sarà dopo di lui il nipote - anche se quest'ultimo avrà abbracciato la professione paterna di... falegname! Dobbiamo abituarci. La logica dell'allegoria non è mai quella della ragione che ragiona in maniera ragionevole.
Gioacchino è generoso, offre doni e dà da mangiare «a coloro che operavano nel culto di Dio» [
Vangelo dello Pseudo-Matteo (1,1), in Vangeli apocrifi, Einaudi, Torino, 1990, p. 68.] — ancora un'allegoria. Nel testo si parla di vedove, orfani e poveri, in pratica la gente comune davanti alla quale professerà Gesù stesso. Sposa Anna a vent'anni, ma vent'anni più tardi non hanno ancora avuto figli. Essendo il fatto di non avere discendenti segno della volontà punitiva di Dio, i sacerdoti gli impediscono di entrare nel Tempio e viene anche preso in giro. Parte per il deserto. Non quaranta giorni, come scrive il testo di Giacomo ma cinque mesi — cinque è il numero nuziale: è la somma del due femminile e del tre maschile. L'angelo visita Anna e le annuncia la maternità; poi appare a Gioacchino e gli dà la buona notizia: «Sappi infatti che essa dal tuo seme ha concepito una figlia». [Ivi (3, 2), p. 70.] È questo che annuncia l'inviato divino a lui che, pur non essendo genitore, diventa padre. Senza serbare rancore, Gioacchino invita l'angelo a festeggiare l'evento nella sua tenda. L'angelo rifiuta cortesemente e risponde:  «Il cibo mio è invisibile e la bevanda mia non può essere vista da uomini mortali», [Ivi (3, 3), p. 70.] inaugurando in questo modo una gastronomia ontologica che sarà caratteristica del nipote qui annunciato. Gioacchino sacrifica un agnello grazie al quale «insieme con l'odore del sacrificio, o per meglio dire del fumo, l'angelo volò fino in cielo». [Ibidem.] Si addormenta e l'angelo gli riappare in sogno, confermandogli l'annunciazione. Torna quindi dalla moglie mentre un altro angelo avverte Anna del ritorno del marito, che non vedeva da cinque mesi. Nei termini preventivati, Anna partorisce Maria.
Ecco dunque la situazione per quanto riguarda la parentela di Gesù: un nonno mette al mondo dei figli senza aver toccato la moglie, la quale, sterile, partorisce ugualmente una bambina, sua madre. La singolarità dell'accoppiata ontologica costituita dai nonni (un vecchio che diventa padre grazie a una vecchia donna sterile, il tutto senza rapporti sessuali, giusto per intercessione di un angelo) sarà identica a quella dei genitori. Un simile guazzabuglio familiare non lascia presagire dei discendenti equilibrati. Il fatto che sulle radici di un simile albero genealogico si sia edificata una civiltà lascia presagire di sicuro un romanzo storico inaudito.
 
Neppure la vita di Maria lesina il meraviglioso: la bambina nasce prima del termine, al settimo mese, segno di un intervento divino. Essendo Dio numerologo capo, sa benissimo che sette è la cifra della perfezione. Già Isacco era nato sotto lo stesso segno. A sei mesi, la bambina cammina e fa... sette passi. A un anno, è portata dai sommi sacerdoti d'Israele che la benedicono. A tre anni, entra nel Tempio e ci rimane come una colomba, ci dice il testo — la colomba annuncia la fine del Diluvio, e quindi la fine della collera di Dio, e  starà poi sulla testa di Gesù al momento del battesimo. Del resto, l'anagramma numerico della parola colomba in greco dà lo stesso risultato di
alfa e omega. Maria «riceveva il cibo dalla mano di un angelo». [Protovangelo di Giacomo (8,1), in Vangeli apocrifi, cit., p. 13.] Noi sappiamo che gli angeli non consumano cibo terrestre ma cibi immateriali, quindi simbolici. Con questo genere di alimentazione ontologica, l'unica cosa da temere è l'indigestione di simboli.
A dodici anni, ha il primo ciclo mestruale. Essendo diventata impura, secondo la legge ebraica del Levitico deve lasciare il Tempio. Un angelo ordina al sommo sacerdote di convocare i vedovi nel Tempio. Ognuno deve portare un bastone e Dio darà il proprio segno grazie a questi oggetti già presenti nell'Antico Testamento (Numeri 17, 16-28: colui che vedrà il proprio bastone fiorire — lasciamo che i freudiani commentino... — sarà l'eletto di Dio). Nessuna fioritura, invece, per Giuseppe, il cui piccolo e secco bastone (lasciamo che i freudiani continuino...) era rimasto in un angolo — non dimentichiamoci che era vedovo. Al suo posto, dal piccolo pezzo di legno esce una colomba (lasciamo che i freudiani ecc.) che va a posarsi sulla sua testa.
Giuseppe è vecchio, vedovo e ha dei figli da un precedente matrimonio; Gesù ha quindi dei fratelli, dei fratellastri. E anche delle sorelle, a quanto si dice. Maria è giovane e vergine. Il falegname vorrebbe rifiutarsi di prendere la bambina con sé, temendo il ridicolo e le chiacchiere della gente, ma il sacerdote lo obbliga. Maria ha dodici anni: la tiene sotto il suo tetto, non la tocca, rispetta la sua verginità e se ne ritorna ai suoi cantieri — più che un piccolo e modesto artigiano, Giuseppe era un imprenditore di carpenteria. A volte, i cantieri sono lontani e lo obbligano ad assentarsi da casa anche per tre mesi.
Nel frattempo, assieme a 82 altre giovani vergini, Maria, che appartiene alla tribù di Davide, partecipa alla tessitura del velo del Tempio che separa il santuario dal sancta sanctorum. È quindi di sangue nobile e discende da stirpe blasonata. Vengono suddivisi i compiti, sette ragazze tesseranno ciascuna un materiale: l'oro, l'amianto, il lino, la seta e poi il blu, lo scarlatto e la porpora. A Maria tocca naturalmente la tessitura della porpora, segno del potere e dell'impero. Siamo sempre al cifrario.
Un giorno, uscita per andare a prendere dell'acqua alla fonte (ancora un'altra metafora, un'altra allegoria), le appare un angelo che le annuncia il suo destino. Più tardi, glielo ripete: «Non aver paura, Maria: infatti hai trovato favore presso il Signore di tutte le cose, e concepirai per opera della sua parola». [Ivi (11,2), p.15.] Per chi sa bene intendere questa angelica frase,
concepire per opera della Parola di Dio, significa sostenere che Gesù non è un corpo ma un concetto, un Logos, un Verbo, una Parola. Il Vangelo secondo Giovanni ribadirà che questa è la pista buona: Gesù non è un corpo di carne, ma un corpus di parole.
Maria interroga l'angelo sulle modalità di questa concezione: concepirà come le altre donne, con un padre che è un genitore concreto, terrestre? L'angelo scarta questa idea triviale. Per generare un anticorpo, non c'è bisogno di nessun corpo: «Ti coprirà come un'ombra la potenza del Signore». [Ivi (11,3), p. 16.] Sarà quindi coperta da un'ombra; certo, quella di Dio non è un'ombra qualsiasi, però rimane sempre un'ombra. L'angelo le dice che suo figlio si chiamerà Gesù. L'etimologia ci insegna che ei darà vita a
colui che salva.
Maria ha sedici anni quando rimane incinta. Sei mesi dopo la sua partenza, Giuseppe torna e trova la moglie in stato interessante. Si colpisce il viso, si getta a terra, piange e chiede chi sia il padre! «Chi ha commesso questa infamia nella mia casa e ha sedotto questa vergine?» [Ivi (13,1), p. 17.] Domanda legittima... Maria risponde che lei non l'ha tradito: «Sono pura io, e non conosco uomo!» [Ivi (13,3), p. 17.] Per proseguire: «Non so di dove venga questo che è in me». [Ibidem.] Silenzio di Giuseppe che riflette sulla propria reazione: tacere significa tradire la legge di Israele e parlare significa assumersi il rischio di non essere creduto, sacrificando quello che potrebbe essere il Figlio di Dio. Prende anche in considerazione l'ipotesi di chiedere a Maria di lasciare con discrezione la propria casa. L'angelo Gabriele, però, lo dissuade e lui acconsente.
Il sommo sacerdote accusa Giuseppe di aver tradito e di essersi «con frode [...] congiunto a lei». [
Protovangelo di Giacomo (15,2), in Vangeli apocrifi, cit., p. 18.] Maria è condotta al tribunale del Tempio. Piange e continua a ripetere che lei è pura e che non ha conosciuto nessun uomo. Il sommo sacerdote domanda: «Giuseppe ha fatto questo?» [Ibidem.] Giuseppe piange. Al sacerdote, lo scriba Anna risponde con questa magnifica frase: «Manda dei servi e troverai che la vergine è incinta». [Ibidem.] Una vergine incinta: ecco un ossimoro destinato a provocare danni terribili quando, per oltre un millennio, la Chiesa proporrà tale modello di vita alle donne dell'Occidente. Ci vorrà tutta l'astuzia sofistica dei Padri della Chiesa per spiegare con grandi giri di frase che si può rimanere casti pur avendo rapporti sessuali — basterà non consentire al piacere e trasformare le necessità sessuali in virtù uxorie!
I sacerdoti sottopongono la coppia a un'ordalia: il padre, che non è il genitore, e la madre, che non ha avuto rapporti con nessuno, bevono l'
acqua amara di maledizione offerta dall'officiante: se la donna è colpevole di adulterio, dopo aver bevuto quell'acqua e fatto più volte il giro dell'altare, il suo ventre si gonfia e il suo seno deperisce. Nessun segno però appare. Partono quindi entrambi  per il deserto e ritornano sani e salvi. È la prova che dicevano la verità! I due rientrano a casa e benedicono Dio. La gravidanza può così essere portata a termine. Maria è incinta di Dio, e resta quindi assolutamente vergine; d'altro canto, anche Giuseppe va rispettato perché non ha avuto rapporti con la moglie, anche se quest'ultima è incinta. Giunta l'ora, Giuseppe sella un asino e ci fa sedere Maria. Cercano una grotta dove partorire. L'asino è una citazione dell'Antico Testamento, nel caso specifico da Zaccaria: «Ecco, a te viene il tuo re. / Egli è giusto e vittorioso, / umile, cavalca un asino» (Zaccaria 9, 9). [Tutte le citazioni dalla Sacra Bibbia sono tratte dall'edizione ufficiale della Confraternita Episcopale Italiana.] Allo stesso tempo, però, anticipa anche il racconto del Nuovo sull'entrata di Gesù a Gerusalemme a dorso di mulo — per esempio, nel Vangelo secondo Matteo (21, 1-11). La coppia sta quindi procedendo verso il proprio destino.
Poco prima del parto, Giacomo segnala un prodigio cosmico: la volta del cielo si è paralizzata, Giuseppe sta camminando però non cammina, l'aria è come attonita, gli uccelli sono immobili nel cielo, alcuni operai lì vicino stanno mangiando però non mangiano, le pecore avanzano però restano sul posto, il pastore alza la mano per colpirle però la sua mano rimane ferma in aria, i capretti tengono il muso immerso nell'acqua del fiume però non bevono. Poi, all'improvviso, il tempo sospeso riprende il proprio corso: tutto scorre, tutto rivive, tutto si muove di nuovo. La volta celeste è tornata in movimento, gli uccelli volano, gli operai mangiano, le pecore avanzano, il pastore non ha più ragioni per colpirle, i capretti bevono e Gesù può nascere.
«Ed ecco una nuvola luminosa adombrava la grotta». [
Protovangelo di Giacomo (19,2), in Vangeli apocrifi, cit., p. 21.] È la famosa ombra di Dio, un'ombra che è una luce... O almeno: un'ombra luminosa. Si prosegue: «E subito la nuvola si dissipò dalla grotta e apparve una grande luce nella grotta, tanto che i nostri occhi non la potevano sopportare. Ma a poco a poco quella luce si attenuò, finché non apparve il bambino e andò a prendere la poppa da sua madre Maria». [Ibidem.] Nell'Esodo, invece, si parla di «nube densa» (Esodo 19, 16): in mezzo a tutte queste ombre luminose e nubi dense, uno finisce con il perdersi! Rimane comunque il fatto che Gesù è nato e che è apparsa una luce, una grande luce — e questo conferma l'ipotesi da me avanzata in Cosmo che Gesù è il nome assunto in questa storia dal culto ancestrale pagano della luce.
L'incarnazione è manifesta fin dal suo primo respiro: Gesù, che potrebbe benissimo nutrirsi come sua madre degli alimenti spirituali dell'angelo, tetta il seno materno come fanno tutti i neonati di questo pianeta da che mondo e mondo. La levatrice ebraica esclama: «È nata la salvezza per Israele». [
Ibidem.] Assieme a Gesù, è la civiltà giudaico-cristiana che sta nascendo. Uscendo dalla grotta, questa levatrice incontra Salomè e le racconta: «Una vergine ha partorito, ciò che è che contrario alla sua natura!» [Protovangelo di Giacomo (19,3), in Vangeli apocrifi, cit., p. 21.] Salomè risponde: «Come è vero che vive il Signore mio Dio, se non introdurrò il mio dito ed esaminerò la sua natura, non crederò mai che una vergine abbia partorito». [Ibidem.] Ci mette, in effetti, il dito: «Ed ecco la mia mano si stacca da me, arsa dal fuoco». [Protovangelo di Giacomo (20,1), in Vangeli apocrifi, cit., p. 22.] Salomè conferma: Gesù è nato proprio per diventare re d'Israele.

A parte l'episodio della lezione che a dodici anni impartisce ai sacerdoti e che ci viene raccontato soltanto da Luca (2, 41-50), l'infanzia di Gesù ci rimane sconosciuta: tra la fuga in Egitto, quando ha solo qualche giorno, e i primi momenti del suo magistero intorno ai trent'anni... niente. Tre decenni senza lasciare traccia: niente sulla sua infanzia, niente sulla sua adolescenza, niente sui suoi studi niente sulla sua formazione, niente sui suoi eventuali amichetti di cortile. Niente neppure sui suoi giochi con i fratelli Giacomo il Giusto, Giuseppe Barsabba, Giuda l'Apostolo e Simone lo Zelota — è Paolo che, nella sua Lettera ai Galati (15, 19), parla di Giacomo fratello di Gesù e, nella Prima lettera ai Corinzi (9, 4-5), degli altri fratelli.
Esiste anche un testo intitolato
I fatti dell'infanzia del Signore (Vangelo dello Pseudo-Tommaso) dove si narrano le vicende e le gesta di un monello dai cinque ai dodici anni. Questo testo è un florilegio delle sciocchezze e stupidaggini commesse da quello che oggi chiameremmo un «bambino re»... Giuseppe e Maria sembrano, in effetti, molto spesso travolti dalla loro stessa progenie. Gesù sarà stato anche il frutto dello Spirito Santo, però questo testo mostra come potesse anche rivelarsi umano, molto umano e, per dirla tutta, una vera e propria faccia da schiaffi. Probabilmente è proprio questo il motivo per cui tale gioiellino letterario non è stato inserito da Agostino nel corpus neotestamentario e fa ormai parte degli scritti apocrifi.
Durante il giorno dello Shabbat, la legge ebraica proibisce ogni attività. Questo piccolo bambino ebraico di cinque anni, invece, si mette a plasmare dodici uccellini con l'argilla. La simbologia è molto forte: come Dio ha preso un giorno l'argilla per plasmare il primo uomo, così ora Gesù ripete il gesto plasmando dodici uccelli, in altre parole: dodici apostoli... Giuseppe lo sgrida per non aver rispettato lo Shabbat; reazione del figlio che si prende gioco del padre: batte le mani e gli uccellini volano in cielo. Detto altrimenti: niente può impedire a Gesù di fare quello che deve fare — violare lo Shabbat degli ebrei e formare una squadriglia di apostoli che se ne voleranno per tutto il pianeta a portare la buona parola, la sua buona parola. In questo episodio, a essere rappresentata metaforicamente è la nascita della civiltà giudaico-cristiana come elemento separato dal giudaismo.
Per ottenere l'acqua da mescolare alla terra e modellare i suoi uccellini, Gesù ha costruito una piccola diga presso il guado di un ruscello. Senza farlo apposta, mentre si diverte con un ramo secco di salice, il figlio di uno scriba con cui Gesù stava giocando distrugge la pozzanghera d'acqua. Gesù lo maledice e gli dice: «Ecco, ora anche tu seccherai come un albero e non porterai né foglie, né radici, né frutto». [
Vangelo dello pseudo-Tommaso (3,2), in Vangeli apocrifi, cit., p. 33.] Detto, fatto: il ragazzino si rinsecchisce subito. Non si scherza col Bambin Gesù!
Camminando per strada con il padre, un bambino urta inavvertitamente contro la spalla di Gesù. Irritato, Gesù dice: «Non proseguirai la tua strada!» [Ivi (4,1), p. 33.] e il bambino cade morto stecchito. I genitori del ragazzino fulminato dalla volontà di Gesù vanno a lamentarsi presso il padre di quest'ultimo che non ne può più. Giuseppe chiede a Gesù perché si comporta in questo modo. Il bambino prima risponde che la sua volontà non deve essere ostacolata, quindi trasforma in ciechi tutti coloro che si mettono di ostacolo al suo cammino. Giuseppe si arrabbia e gli tira l'orecchio; Gesù risponde al padre che lui, proprio lui, suo padre, non è stato saggio... Zaccheo, che sta passando di lì, sente Gesù parlare in questo modo a suo padre. Si offre di educarlo e di insegnargli a comportarsi correttamente con gli altri, ad amare i propri compagni, ad aiutare le persone anziane (ciò significa che non le aiutava, una cosa, questa, di cui nessun racconto porta testimonianza...), a diventare amico dei bambini e a istruirli a sua volta. Gesù prende le cose dall'alto e dice a Zaccheo: «Quando infatti sei nato, io esistevo già». [Vangelo dello Pseudo-Tommaso (6, b2), in Sever J. Voicu,
Verso il testo primitivo dei «Racconti dell'infanzia del signore Gesù», in Apocrypha. Revue internationale des Littératures apocryphes, n.9, 1998, p. 73.] Poi si mette in testa di insegnare al suo insegnante. Intorno a lui, tutti si mettono a ridere. Lui risponde: «Ho voluto prendervi in giro, poiché voi vi meravigliate di sciocchezze e siete immaturi e poco intelligenti». [Vangelo dello pseudo-Tommaso (3,2), in Sever J. Voicu, Verso il testo primitivo, cit., p. 74.]
Più determinato che mai, Zaccheo vuole educare questo moccioso sfrontato e presuntuoso, aggressivo e altezzoso, impertinente e maleducato. Comincia con gentilezza e lo porta a scuola. Gesù tace. Il maestro recita l'alfabeto e chiede al suo allievo di ripetere la prima lettera; rifiuto da parte di Gesù. Zaccheo si arrabbia e lo colpisce sulla testa. Gesù dice: «Se si colpisce un'incudine, è più colpito ciò che la colpisce. Io ti posso dire che parli come un bronzo che risuona e come un cembalo che tintinna, che non hanno favella, né scienza, né capacità di intendere». [Ivi (7,2), p. 35.] Recita quindi l'alfabeto nell'ordine. Poi aggiunge: «Tu che non conosci nemmeno l'alfa, nella sua natura, come puoi insegnare agli altri la beta? Ipocrita! Insegna prima l'alfa, se la conosci, e allora i crederemo per la beta!» [Ivi (8,1), p. 36.]
È poi la volta di Gesù di infliggere una lezione al maestro sulla forma e il nome della prima lettera, su come abbia numerosi triangoli, su come si allunghi, si inclini, si pieghi verso il basso, si ritorca e si raddrizzi. Zaccheo rinuncia e riconosce di avere a che fare con un essere eccezionale. «Io tre volte infelice! Mi sono dato da fare per avere uno scolaro e mi sono trovato ad avere un maestro». [Ivi (9,3), p.36.] Di fronte a questa batosta, il testo racconta che «il battesimo rise forte». [
Ibidem.] In nessuno dei ventisette testi del corpus definitivo del Nuovo Testamento, troveremo mai una sola risata di Gesù. È fuori questione che si possa dare un profilo troppo umano a questo personaggio concettuale. Un concetto non ride. Dopo l'umiliazione del maestro, quando tutti sono ormai concordi nell'ammettere la sua eccezionale natura, il suo carattere fuori della norma, Gesù, magnanimo, leva le maledizioni che aveva lanciato: decide che quanti aveva reso ciechi debbano recuperare la vista. Il concetto Gesù è performante.
La magnanimità ha però un tempo limitato; dipende dalle circostanze. Un giorno, mentre sta giocando, su un tetto con altri bambini, uno di questi cade e muore. Tutti scappano. I genitori del piccolo morto lo tormentano: è stato lui a spingere il bambino. È escluso che Gesù si lasci mettere sotto e la domanda viene girata direttamente al cadavere: «Sono io che ti ho buttato giù?» [
.] Il piccolo defunto si risveglia di colpo, si alza e gli risponde: «No, Signore». [Ivi (15,2), p. 39.] Attoniti, i genitori rendono lode a Dio. E Gesù torna ai suoi giochi di bambino di cinque anni.
Due anni più tardi, quindi a sette, Gesù va a prendere un po' d'acqua alla fonte. La brocca si rompe. Nessun problema: stende il mantello per terra, lo riempie d'acqua e lo riporta alla madre che si stupisce per il piccolo prodigio del tessuto che non lascia passare i liquidi. Si stupisce, ma non dice niente a nessuno. I poteri taumaturgici, quindi, permettono a Gesù: di disobbedire al padre, di vendicarsi di un compagno di giochi che lui ha deciso essere cattivo, di umiliare un maestro, di uccidere un bambino che lo spintona per strada, di resuscitarne un altro per discolparsi dall'accusa di averlo ucciso, ma anche, in maniera assai più futile, di rimediare alla seccatura di una brocca rotta.
A otto anni, il padre gli insegna i rudimenti del proprio mestiere di falegname. Senza trascurare però la sua formazione intellettuale. Lo porta quindi di nuovo da un maestro. Quest'ultimo, come il precedente, gli chiede di ripetere l'alfa e l'omega — in altre parole, metaforicamente, di enunciare l'inizio e la fine di ogni cosa. Gesù ricomincia e tempesta di domande il maestro, chiedendogli di spiegare prima di tutto il valore dell'alfa. Solo dopo, lui avrebbe spiegato quello della beta. L'adulto si innervosisce e lo picchia. Fedele a un metodo che ha dato già prova di sé, Gesù gli toglie la vita e se torna a casa dei suoi come se niente fosse. Giuseppe chiede a Maria di tenere il figlio a casa «perché tutti quelli che lo fanno irritare cadono morti». [Vangelo dello pseudo-Tommaso (3,2), in Vangeli apocrifi, cit., p. 38.] Bella atmosfera...
Un terzo maestro si mette in testa di istruire il ragazzo. Fin dal primo momento in cui mette piede a scuola, Gesù «trovò un libro posto su un leggio e lo prese, ma non recitava le lettere che erano in esso, bensì aprendo la bocca parlava ispirato dallo Spirito Santo». [Ivi (15,2), p.39.] La vita con il Bambin Gesù non è certo una passeggiata. Venuto a sapere della cosa e, dopo quanto era successo in passato, immaginando il peggio, Giuseppe accorre per paura di una nuova vittima. Constatato che l'omicidio del maestro questa volta non c'è stato, Giuseppe prende Gesù per mano e se lo porta a casa.
Un'altra volta, Gesù va a raccogliere legna nel bosco con il fratello Giacomo. Una vipera morde la mano di quest'ultimo, che perde conoscenza. Gesù stende allora la propria e soffia là dove il serpente ha piantato i denti, guarendo Giacomo. A morire, è invece il serpente. Non c'è bisogno di andare a cercare lontano il significato di quest'allegoria: il serpente, che, fin dalla Genesi, rappresenta il male, viene messo a morte da Gesù il quale, invece, fa il bene e uccide il male. È una risposta al peccato originale che sappiamo si compirà aderendo alla sua predicazione e alla sua crocifissione.
Potremmo interpretare nella stessa maniera anche le morti inflitte da Gesù quando ci si oppone alla sua volontà, quando si ostacola la sua strada, quando ci s'immagina di poter istruire colui la cui vocazione è di istruire, quando lo si accusa di cose che non ha fatto, quando un incidente gli complica la vita e quando il male vuole dettare legge: sono tutte storie che insegnano che non ci si oppone a ciò che questo bambino deve diventare, che non si può intralciare la sua volontà che è volontà di Dio, che dire di no al bambino presente significa dire di no al Messia futuro.
A dodici anni, la storia è risaputa, dà lezione ai dottori del Tempio a Gerusalemme. L'episodio, che chiude
I fatti dell'infanzia del Signore, lo si ritrova anche nel Nuovo Testamento. Tolto questo momento, però, i Vangeli canonici ignorano l'infanzia di Gesù. Probabilmente perché, nei testi che sull'argomento ci rimangono, l'allegoria è più complessa da decifrare e la simbologia più difficile da comprendere. E forse anche perché l'immagine di un Gesù cattivo che distribuisce morte secondo i propri capricci potrebbe demolire la coincidenza con la figura del Gesù buono e dolce che trionfa nei testi scelti per il corpus istituzionale.
Il corpo di Gesù bambino obbedisce alle stesse leggi del corpo di Gesù adulto: non mangia, non beve, non ride, non dorme, non sogna e non patisce; non ha nessun desiderio e non gli conosciamo nessuna passione; non è affettuoso e non è amorevole nei confronti del padre; non gli obbedisce, anzi gli disobbedisce apertamente; non ha relazioni con le ragazze e la sola donna tra le persone che gli stanno intorno è la madre. Ciò che il testo scartato dal Nuovo Testamento ci racconta conferma che, anche da piccolo, Gesù è un personaggio concettuale che cristallizza, come l'adulto, le informazioni disperse nell'Antico Testamento a proposito del Messia. Gesù esiste pienamente solo in coincidenza con il ritratto annunciato dal
corpus neotestamentario: è ciò che i testi hanno detto che sarebbe stato.

La biografia di Gesù corrisponde a quella del Profeta annunciato dagli ebrei. Lasciamo da parte le numerose altre influenze che in questa biografia si sono fissate partendo da fonti siriache, egiziane, asiatiche, greche e romane. Sbrogliare la matassa di tutte queste citazioni, rivelatrici di quanto la figura di Gesù sia un collage mediterraneo, è una vera e propria impresa. Gesù si trova concettualmente in relazione anche con gli esseni, con gli gnostici, con i farisei, con gli zeloti, con i sadducei e con parecchie altre sette che a quei tempi prosperavano ma che oggi sono scomparse senza lasciare né tracce né testi. La civiltà giudaico-cristiana che qui ci interessa, però, non è quella delle fonti e del collage ma quella del risultato prodotto: mancando un Gesù storico, è stata creata la figura di un Gesù di carta, realizzata partendo da racconti poetici, prose allegoriche, testi simbolici e discorsi mitologici che ovviano alla mancanza di concretezza, di realtà e, ripetiamolo, di storicità con un rilancio metaforico attraverso prima i testi e poi le opere d'arte. L'Occidente è il nome assunto dal lavoro estetico di questo rilancio. La nostra civiltà tiene a battesimo il processo di estetizzazione di un concetto per cercare di renderlo presente nella storia.
Il corpo di Gesù nei Vangeli canonici non mangia e non beve. O meglio: mangia e beve solo alimenti spirituali e simbolici. In quanto anticorpo, ingerisce metafore. Gesù non dorme: al Getsemani, veglia e prega con Pietro e i due figli di Zebedeo. Gli altri dormono e lui prega. È il corpo di un ebreo circonciso all'ottavo giorno di vita, come ci racconta Luca (2, 21). Ma è anche il corpo di un taumaturgo che guarisce malati, resuscita morti, trasforma l'acqua in vino, cammina sulle acque, calma le onde scatenate e moltiplica i pani, tutte cose che nessun uomo normale riesce a fare. Mentre vive le sue ultime ore sulla croce, una lancia gli trafigge il costato e ne escono linfa e sangue, non parole.
Ecce homo...
Prendere le allegorie alla lettera vuol dire condannarsi a non uscire mai dal meraviglioso. Leggendole come enigmi cifrati, che richiedono la decrittazione, si conferisce un valore ai testi: che farsene, altrimenti, dell'abbondanza di parabole? La parabola della zizzania, del granello di senape, del lievito, del servo senza pietà, dei lavoratori della vigna, del tesoro nascosto, della perla preziosa, della pecora smarrita, dei due figli, dei vignaioli omicidi, del buon pastore, del banchetto di nozze, del fico, dei talenti e tante altre storielle da non prendere alla lettera ma da afferrare con lo spirito.

Nel
Vangelo secondo Matteo (13, 34-35) possiamo leggere: «Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» - citazione dai Salmi (78, 2). Proprio questa citazione ci mostra come Gesù rappresenta semplicemente il nome trovato da quanti fra gli ebrei credevano che il Messia non dovesse ancora venire ma fosse già venuto. Bastava attingere dai testi che lo annunciavano per spiegare che era giunto e com'era giunto, per trasformarlo, cioè, di fatto, nell'autentico Messia annunciato, la cui vita coincideva con ciò che era stato detto di lui. La biografia di Gesù era già scritta ancor prima che lui vivesse la sua vita —- in realtà non ha dovuto nemmeno viversela, questa vita, perché non ne ha mai avuta una. L'ascendenza di Gesù fornita all'inizio del Vangelo secondo Matteo è tratta direttamente dai testi dell'Antico Testamento: Genesi, Isaia, i Libri delle Cronache, Giosuè, Rut, i Libri di Samuele, i Libri dei Re ecc. L'angelo che appare a Maria si trova già nella Genesi (16, 7) e, in sogno, nell'Ecclesiastico (34, 1). La Vergine che dà alla luce un figlio è già presente in Isaia (7, 14). Il battesimo purificatore nel Giordano sta già nel Secondo libro dei Re (5, 14). La tentazione nel deserto, i mercanti del tempio, la moltiplicazione dei pani, la formula dell'eucarestia sono episodi già tutti reperibili nell'Antico Testamento, assieme a parecchie altre scene del Nuovo.
Gesù viene fatto nascere a Betlemme (Matteo 2, 1), il che ha senso se ci si ricorda di
Michea (5, 13), del Secondo libro di Samuele (5, 2) e del Primo libro delle Cronache (11, 2) e se si tiene per buona l'ipotesi di un Gesù costruito per corrispondere all'annuncio ebraico della futura venuta di un Messia. Matteo cita i testi dell'Antico Testamento (Michea 5, 1): «E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l'ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele» (Matteo 2, 6). Luca (2, 39), invece, parla di Nazareth come della sua città natale — del resto, non si dice solitamente «Gesù di Nazareth»? Ora, storicamente, ai tempi in cui si suppone sia nato Gesù, Nazareth non esiste ancora — proprio come storicamente non esiste lo stesso Gesù. Gli scavi archeologici nella città mostrano che questo paesino vede la luce solo alla fine del II secolo. Se Gesù viene fatto nascere a Betlemme, è perché questa città è innanzitutto una metafora: si tratta di trasformare Gesù nel successore di Davide, sovrano della terra d'Israele quando era unita. Betlemme è infatti la città di Davide, come ricorda Luca (2, 3-5).
L'etimologia di vangelo,
buona novella, ci spiega che ciò che era stato annunciato si è compiuto. La storia del cristianesimo è la storia delle note a piè di pagina di questa finzione libresca e della sua inclusione nella storia tramite la patristica, le decisioni conciliari, il papato, la teologia, la scolastica e la filosofia medioevale, il tutto trasformato in immagine dall'arte occidentale.
Persino la Passione di Cristo si trova già inscritta in filigrana nel salmo XXII, intitolato
Le sofferenze e la gloria del giusto. Si dice, per esempio, che questo famoso venerdì 7 aprile del 30 Gesù abbia pronunciato sulla croce una strana frase: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Marco 15, 34). La frase si trova già parola per parola al secondo verso del salmo in questione: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Sami 22, 2). Allo stesso modo, in questo testo scritto parecchi secoli prima di Gesù, troviamo anche: la madre che partorisce secondo la volontà di Dio, lo scherno e il disprezzo nei confronti dell'uomo in questione, la folla che si domanda perché il suo Dio non lo libera dalla spiacevole situazione in cui si trova, la sofferenza e la sete durante il castigo, i delinquenti che lo circondano, i piedi e le mani fatte a pezzi, i vestiti tirati a sorte e spartiti, l'annuncio del regno di Dio attraverso la sua stirpe...

Non serve quindi a niente leggere i Vangeli come se fossero testi scritti da storici, ancor meno come se fossero stati redatti da testimoni diretti. Se Gesù fosse esistito storicamente, nessuno degli evangelisti l'avrebbe potuto conoscere. Anche nelle ipotesi più favorevoli, il più prossimo ai momenti della Passione arriva con almeno una generazione di ritardo. Del resto, è difficile credere che, se le cose si fossero veramente svolte come viene raccontato, uno storico contemporaneo non avrebbe registrato alcuna di quelle manifestazioni sovrannaturali (il cielo che si oscura e la notte che appare in pieno giorno, le scosse della terra e le rocce che si spaccano, gli animali che fanno silenzio e il velo del Tempio che si lacera, e poi i corpi dei molti santi trapassati che escono dalle loro Tombe...).
Invece, nessuno degli storici vissuti in quest'epoca ha mai parlato dell'evento: non l'ha fatto Svetonio, non l'ha fatto Plinio, ma non l'ha fatto neppure Flavio Giuseppe, un ebreo passato dalla parte dei romani che annotava scrupolosamente i minimi fatti e le minime gesta degli ebrei e dei romani del suo tempo. Flavio Giuseppe accenna ai cristiani, ma non parla di Gesù. Oltretutto, nessuno dei manoscritti della sua opera risale al I secolo e l'analisi stilistica dei documenti dimostra che il paragrafo in questione è stato aggiunto più o meno otto secoli più tardi da alcuni monaci copisti che avevano completato il testo aggiungendo ciò che loro ritenevano essere una dimenticanza dello storico!
Non c'è nessuna traccia perché non è successo niente. L'unico evento è stato d'ordine concettuale: una costruzione allegorica, mitica, mitologica, favolosa, metaforica e simbolica che ha funzionato come una millefoglie di enigmi. Il risultato di quest'opera di cristallizzazione è il corpo di carta di Gesù che non ha mai avuto nessun altro corpo. Persino la carne della sua incarnazione è una finzione:
Gesù beve vino perché il liquido rosso annuncia il sangue della Passione (la vigna del Signore, piantata da Jahvè, simboleggia il popolo d'Israele); Gesù mangia il pane perché il lievito annuncia il fermento dei credenti che fa lievitare la pasta della Chiesa (ricordiamoci il pane mandato da Dio a Mosè per  il popolo di Israele, il pane venuto dal cielo che troviamo in
Esodo 16, 4); quando Gesù mangia il pesce perché le lettere greche che formano il suo nome e quello del pesce coincidono, la strizzatina d'occhio è a Ezechiele (47, 1-12), dove impariamo che dove c'è pesce c'è acqua viva e l'acqua viva è quella del battesimo del Battista, quella di Gesù, quella dei cristiani che verranno.
Gesù mangia quindi dei simboli, e visto che i simboli ingeriti non producono storie, non ci si potrà stupire se il Dio fatto uomo non abbia necessità di urinare o di defecare — sarebbe il minimo quando si è scelta la strada dell'incarnazione. Durante l'Ultima Cena Gesù beve vino e mangia pane ma solo per annunciare in questo modo la Passione, per annunciare cioè il sangue che sta per essere versato a riscatto dei peccati del mondo e il lievito futuro dei cristiani che porteranno a compimento la sua profezia; dopo la resurrezione, mangia pesce grigliato ma solo per proclamare che il tempo del battesimo e della Chiesa è giunto.
Più il vangelo si fa terrestre e concreto entrando nei dettagli fattuali, più diventa indecifrabile; mantenersi a livello dell'aneddoto, restarsene incollati alla storiella, è la cosa più facile, poi si ristagna e non si riesce più a recuperare il vero senso nascosto, criptato. Credere che la moltiplicazione dei pani sia l'effetto di un miracolo, significa ignorare che la numerologia sacra permette di rimandare anche in quel caso a un senso nascosto. In ebraico, ogni lettera è anche un numero e ogni parola produce il proprio equivalente in cifra: c'è la
gematria, che è la disciplina che mette in relazione i termini con lo stesso valore numerico, n'è il Notarikon, cioè il codice che associa le lettere iniziali, mediane o finali delle parole per formarne altre e c'è la Temurah, vale a dire il procedimento cabalistico che permette di trasporre una lettera in un'altra.
La messa in opera di questi procedimenti permette di leggere sotto il testo ciò che esso vuole veramente dire. Ci sono due livelli di lettura: uno per la gente comune cui sono destinate le storie mitologiche, le favole, le leggende e i miti, facili da capire — da qui la profusione di parabole. Poi c'è un altro livello di lettura, riservato agli iniziati, che permette per esempio di sapere che, sotto la cifra dei 153 dei pesci pescati da Gesù nel lago di Tiberiade, si nasconde il valore numerico dell'espressione «Figlio di Dio» (ma anche della «Pasqua» e dell'«Agnello pasquale»). Ciò che Gesù pesca sono, essotericamente, 153 pesciolini; esotericamente però si tratta dell'annuncio di ciò che sta per venire: il regno di colui che ha tirato le reti della pesca.
A chi vuole veramente intendere, tutto è stato esposto nel
Vangelo secondo Giovanni. È questo vangelo che dà la chiave agli altri tre, anche se, paradossalmente, è una chiave ispirata... Giovanni è il più cerebrale, il più concettuale e il più intellettuale degli evangelisti. È anche il più enigmatico — il che è paradossale, perché se è vero che non è il più chiaro sulla verità storica di Gesù, lo è certamente su quella concettuale. Il Vangelo secondo Giovanni dice: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio» (Giovanni 1, 1-2). Il Verbo è il Logos, è la Parola. Dio è quindi Gesù che è a sua volta Logos, Verbo e Parola — nient'altro. Gesù è una pura parola, un puro Verbo, un semplice Logos: non ha alcuna consistenza storica. Quando si taglia una cipolla, al suo centro non si trova niente. Gesù è una cipolla concettuale al centro della quale scopriamo solo un verbo, una parola, un discorso. Ecco che, quando i discepoli lo invitano a mangiare, Gesù risponde loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete» (4, 32). E poi: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (4, 34). Mangia pane, certo, però nella sua ricetta ontologica questo suo pane è «il pane dal cielo, quello vero. Infatti, il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (6, 32-33). Dopo la sua morte, si dice che Gesù sia resuscitato il terzo giorno, e salito poi in cielo. Nella tomba, vengono trovate solo alcune bende arrotolate e un sudario ripiegato. Il vero corpo di Cristo è un corpo assente: grazie a questa sua assenza Gesù può diventare ostinatamente presente. Senza volerlo davvero, non sapendo di volerlo, la civiltà giudaico-cristiana è riuscita a dare un corpo a Cristo che ne aveva uno solo in forma di Logos, di Verbo, di Parola. Credere a questo Verbo significava essere salvati.
La civiltà giudaico-cristiana, la nostra collassante civiltà, si è costituita nel corso di millecinquecento anni grazie al tentativo di dare una forma a questo Cristo concettuale. La nostra civiltà è questa forma. Il Cristo senza corpo ha avuto bisogno di discepoli, di artisti capaci di dare corpo a quel verbo senza carne, di imperatori in grado di imporre la fede in quella finzione, di fedeli spinti ad aderire a quella favola per bambini, e di filosofi che, a poco a poco, hanno cominciato a dubitare che la storia fosse vera.
Certo, Gesù ha ancora parecchi miliardi di discepoli sul pianeta. Però, per quanto un'allucinazione possa essere collettiva, per quanto riesca a radunare folle tanto vaste, rimane pur sempre un'illusione. Come Iside e Osiride, come Shiva e Vishnu, come Zeus e Pan, come Giove e Mercurio, come Thor e Freia, anche Gesù e il Battista sono delle finzioni. Le civiltà si costruiscono sulle finzioni e noi non sappiamo che si tratta di finzioni fino a quando le civiltà da loro rese possibili non esistono più. Tanto più grande è la forza con cui si crede a quelle finzioni, tanto più potente è la civiltà. La curva della fede va di pari passo con quella della civiltà: la favola di Gesù è il punto genealogico iniziale dei millecinquecento anni della nostra.
(Michel Onfray, Decadenza: Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, pag. 47-66, mio grassetto)

A seguire scriverò cosa ne pensa Onfray di Paolo l'apostolo.

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