giovedì 28 dicembre 2017

Sull'Evoluzione del Cristianesimo (V) — L'Evoluzione dell'Idea Messianica

(prosegue da qui)
CAPITOLO V


L'EVOLUZIONE DELL'IDEA MESSIANICA

1. Il Messia Sofferente

Alcuni critici, Strauss tra gli altri, hanno pensato che il Nuovo Testamento si potesse spiegare come un riflesso dell'Antico. C'è, naturalmente, una buona dose di verità in questo, ma è lungi dall'essere l'intera verità. Senza dubbio mettendo assieme passi dell'Antico Testamento si potrebbero produrre molti elementi importanti della narrazione evangelica. Ma una costruzione del genere sarebbe solo un corpo; prima che potesse vivere doveva essere provvista di un'anima. Una grande religione non si poteva costruire su un fondamento puramente letterario. I vangeli sono prodotti della religione, non il contrario; dunque si devono prima scoprire le condizioni che portarono alla nascita della religione; la spiegazione dei vangeli seguirà naturalmente. Anche se non possiamo trovare quelle condizioni nella loro interezza nell'Antico Testamento, vi possiamo rintracciare la produzione di un'atmosfera mentale che fu molto favorevole alla loro crescita.
I salmi sono una collezione di inni composti in tempi diversi per un periodo considerevole e cantati dalle congregazioni nelle sinagoghe. Quando una forte ondata di emozioni stava correndo attraverso la gente, ciò si sarebbe riflesso negli inni composti in quel periodo; molti di questi inni sono di conseguenza colorati dai sentimenti di gioia, di ringraziamento, di dolore o di delusione che animarono il popolo nei vari tempi in cui furono scritti, a seconda se la nazione fosse prospera o il contrario. La seconda metà del III secolo A.E.C. fu un periodo di grande miseria per gli ebrei. I re rivali di Siria ed Egitto stavano disputandosi il possesso della Palestina; eserciti marciarono nel paese; la gente subì molte crudeltà, e fu ridotta ad uno stato di disgrazia. Anche negli intervalli di pace, e quando il re di Siria aveva infine preso possesso del paese, prevalevano l'ingiustizia e l'oppressione. La gente era schiacciata dai tributi  e si imponevano tasse elevate; e uomini della loro nazione, incaricati dal re al governo del paese, sfruttarono l'occasione di arricchirsi per mezzo di una crudele estorsione. I salmi composti in questo tempo sono un grido di pietà e aiuto a Jahvè nella prevalente oppressione e umiliazione. VI si presentano passi del genere:
“Ci hai consegnati come pecore da macello....... Ci hai resi ludibrio dei nostri vicini, scherno e obbrobrio a chi ci sta intorno”.
Spesso il salmo è scritto alla prima persona singolare, ma esso è ancora il grido di tutta la nazione. Occasionalmente singolari e plurali si alternano nello stesso salmo:
“Pietà di me, o Dio, perché l'uomo mi calpesta, un aggressore sempre mi opprime..
“Tu conosci la mia infamia, la mia vergogna e il mio disonore; davanti a te sono tutti i miei nemici. Hanno messo nel mio cibo veleno e quando avevo sete mi hanno dato aceto.
“Ma io sono verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo. Mi scherniscono quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo: «Si è affidato al Signore, lui lo scampi; lo liberi, se è suo amico».”
Quei versi furono successivamente considerati messianici, ma non si riferiscono ad un individuo; sono immagini poetiche. Ora confrontiamo con quelli estratti il ben noto capitolo cinquantatre di Isaia, che è sembrato di grande importanza sia per i cristiani in generale che per gli studiosi del cristianesimo. L'ultima parte di Isaia fu composta da uno scrittore diverso e ad un tempo posteriore rispetto alla prima parte. È datato da Dujardin nello stesso periodo in cui furono scritti i salmi sopra citati:
“Ecco, il mio servo prospererà, sarà innalzato, esaltato, reso sommamente eccelso.
“È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida........
“Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire.......
“Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.
“Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità........per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
“Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello,
"Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo.......Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo”.
Questo passo, come i versi citati dai salmi, è stato ritenuto provvisto di un riferimento individuale; ma sembra che ci siano buone ragioni per respingere questo parere. La sua personificazione è un'immagine poetica. C'è una somiglianza tra le sue idee e la sua fraseologia e quelle dei salmi; ed è quasi certo che qui lo scrittore rappresenta le sofferenze degli ebrei come un espiazione dei loro peccati. Lo scrittore potrebbe aver avuto in mente il sacrificio espiatorio di una vittima umana, ma se così fosse questo non era la sostanza della sua idea — era solo il suo simbolo. La vittima è descritta come il servo di Jahvè e in questo libro il servo di Jahve è sempre Israele, la nazione ebraica, tranne quando lo si riferisce particolarmente per nome a qualche eroe ebreo, come Davide. Per esempio, troviamo: “Il Signore mi ha detto: «Tu sei il mio servo, Israele, per mezzo di te io manifesterò la mia gloria»”. “Ma tu, Israele, mio servo, ...... che io ho scelto”. Molto coerentemente, nei versi seguenti il riferimento è anche a Israele, che personifica il  popolo ebraico: “Ecco il mio servo, che io sostengo, il mio eletto in cui la mia anima si compiace. Ho posto il mio Spirito su di lui; egli porterà la giustizia alle nazioni. Non griderà, non alzerà la voce, non farà udire la sua voce per le strade. Non spezzerà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante......Egli non verrà meno e non si scoraggerà, finché non avrà stabilito la giustizia sulla terra”.
In un secondo momento questo linguaggio figurativo non fu più capito; giunse ad essere inteso letteralmente come un linguaggio figurativo da applicare a qualche uomo oppure a qualche essere che fu più di un uomo; di conseguenza, venne considerata una profezia messianica, come lo è considerata da alcune persone, in effetti, ancora oggi. Quando la speranza e l'aspettativa messianiche si diffusero ampiamente tra gli ebrei, chi altrimenti, nella loro mente, se non il Messia poteva essere colui del quale Jahveh parlò come “il mio eletto in cui la mia anima si compiace” e dichiarò che doveva recare il Giudizio ai gentili? Questo passo poteva facilmente venir applicato al Messia, perché descrive un giudice, un sovrano; e nelle concezioni posteriori del Messia la sua funzione di giudice delle nazioni alla fine del mondo presente diventò prominente. Ovviamente, tuttavia, era molto meno probabile che la descrizione dell'essere sofferente e disprezzato nel capitolo cinquantatre sarebbe stato applicato al Messia. Infatti, la maggioranza degli ebrei non poteva applicarla così, perché essi avevano concentrato la loro mente su un Messia che, come un secondo Davide, doveva restaurare il regno e rendere gli ebrei una nazione grande e potente. Ma tra tutti i popoli ci sono uomini che considerano la bontà migliore della grandezza, l'altruismo e la mansuetudine migliori dell'orgoglio e della brama di gloria; e sappiamo, in realtà, che ci furono ebrei nella cui mente il ritratto di una vittima volontaria, che muore allo scopo di salvare i suoi seguaci, toccò una corda sensibile.
Gli ebrei furono a stretto contatto con i culti degli dèi che erano uccisi e risorgevano. In effetti, alcuni di questi culti probabilmente esistevano nella stessa Palestina, poiché lo scrittore del libro di Ezechiele dice di aver visto donne che piangevano per Tammuz vicino alla porta del Tempio e la data più probabile per Ezechiele è alla fine del quarto oppure all'inizio del III secolo A.E.C. [1]; da qui deriva che Tammuz fu adorato a Giuda in tempi post-esilici. Ora, Tammuz era un dio-salvatore, una divinità babilonese simile o identica ad Adone, il cui nome significa il Signore, una giovane divinità adorata fra i Fenici, che soffrì una morte violenta e resuscitò di nuovo. Divenivano dèi coloro che si sacrificavano per la redenzione di coloro che credevano in loro. Di conseguenza, almeno alcuni degli ebrei non sarebbero stati impreparati alla concezione di un Messia che era morto e risorto; e il passo in Isaia, se compreso messianicamente, implica questa concezione, poiché i versi conclusivi del capitolo cinquantadue, che introducono il cinquantatreesimo capitolo, dichiarano che il servo di Jahvè, anche se ucciso, sarà esaltato ed innalzato e sarà davvero elevato. Il paragone di questo servo di Jahvè ad una tenera pianta, una radice emersa dall'arido suolo, lo collegherebbe anche al Messia, di cui un nome tra gli ebrei era “il Ramo”. Inoltre, l'idea della redenzione di un popolo mediante la morte di un uomo era familiare agli ebrei. Il racconto di Abramo e Isacco è un'indizio della pratica antica del sacrificio umano tra di loro in tempi di disagio o pericolo; ed è certo che si verificava ancora qualche volta in un periodo molto più tardo, e che la memoria della pratica persisteva ancora. Infatti, secondo Sir James Frazer, i riti del Purim originarono e rappresentarono un sacrificio del genere.
È noto che i rabbini interpretarono messianicamente il capitolo cinquantatreesimo di Isaia, e ciò li spinse naturalmente a contemplare l'idea di un Messia sofferente. Alcuni di loro, comunque, raggiunsero la concezione di un Messia ben Giuseppe che avrebbe sofferto per il suo popolo, come una figura distinta dal conquistatore Messia ben Davide. È stato sostenuto che i rabbini furono indotti a questa posizione nel corso di controversie coi cristiani. Ma non c'è nessuna ragione di supporre questo. Appena il capitolo cinquantatreesimo di Isaia fu interpretato messianicamente, la concezione della morte redentiva del Messia diventò inevitabile, soprattutto perché il credo nella possibilità di una redenzione nazionale attraverso la morte di un uomo esisteva indipendentemente.
Nel secondo libro dei Maccabei, un giovane uomo che fu torturato e ucciso coi suoi fratelli da re Antioco Epifane, dice prima della sua morte: “Anche io, come già i miei fratelli, sacrifico il corpo e la vita per le patrie leggi, supplicando Dio che con me invece e con i miei fratelli possa arrestarsi l'ira dell'Onnipotente, giustamente attirata su tutta la nostra stirpe”. Alcuni ebrei, quindi, credettero che tutti si potessero redimere dalla morte di uno solo. 
Di conseguenza, è abbastanza naturale che dovrebbero aver considerato un tale atto di redenzione degno di un Messia. Lo scrittore del libro apocrifo ebraico, l'Assunzione di Mosè, scritto tra il 1 e il 30 A.E.C, in realtà, argomenta contro l'idea di un Messia conquistatore e sostiene che l'età messianica verrà portata a termine, non tramite la violenza, ma come risultato di sofferenza e martirio. Un'idea simile si trova in 4 Maccabei, scritto forse qualche anno prima. Con riferimento agli uomini torturati e uccisi da Antioco Epifane, lo scrittore afferma: “In modo che costituire un'espiazione per i peccati del popolo, e a causa del sangue dei pii, e della loro morte propiziatoria, la Provvidenza Divina salvò Israele, che prima era stato afflitto”. Così esistettero nella coscienza ebraica all'inizio del primo secolo concezioni che erano sufficienti a produrre l'idea di un Messia sofferente. È noto, in realtà, dal Dialogo con Trifone di Giustino che esistette realmente il credo che il Messia sarebbe apparso due volte, la prima volta nell'umiltà e la seconda nella gloria. 
Il credo che il Messia fosse già apparso e avesse sofferto fu probabilmente dovuto all'influenza della dottrina gnostica sulle idee che erano in corso di sviluppo nel cristianesimo. È stato mostrato che gli gnostici devono aver collocato necessariamente nel passato l'apparizione e la morte del Logos; è stato mostrato anche che alcuni di loro prima, e all'inizio, del primo secolo, stavano identificando il Logos col Messia o Cristo. Di conseguenza, all'inizio del primo secolo esisteva l'idea, e stava per essere insegnata, che il Cristo fosse apparso e avesse sofferto in qualche tempo. Nelle Odi di Salomone abbiamo una prova diretta che tale era il caso. Il tempo in cui la sua apparizione si era verificata fu in un primo momento abbastanza indefinito e non specificato, come potremmo osservare dalle epistole paoline. Non fu fino alla pubblicazione del vangelo che la morte del Cristo cominciò ad essere riferita ad una data precisa e recente.
Sarà inoltre mostrato nei prossimi due capitoli che c'è motivo di credere che, a parte la dottrina gnostica, già esisteva in Palestina il credo che un Gesù avesse sofferto come sacrificio espiatorio. Una concezione del genere avrebbe trovato il terreno più favorevole per la sua crescita nelle menti di persone di umile condizione che erano state abituate alla mansuetudine nel lungo periodo di turbolenza e di oppressione attraverso il quale avevano dovuto passare. E così poteva essere spiegata l'origine delle sette dei Nazareni e degli Ebioniti. Infatti, il nome “Ebionita” o “Povero” è stato spiegato come un termine di disprezzo applicato a loro da altri ebrei per la loro concezione del Messia, che fu considerato meschino o povero.
Non sarebbe affatto improbabile, da quello che sappiamo, che una setta pre-cristiana avrebbe dovuto tenere in riverenza un servitore di Dio o Messia che in un qualche momento aveva sofferto in passato come espiazione per i peccati degli ebrei; la quale concezione potrebbe
essere stata successivamente espansa in quella di espiazione per i peccati di tutta l'umanità. La concezione poteva facilmente essere esistita verso la fine del primo secolo A.E.C., poiché a quel tempo molti degli ebrei avevano cessato di sperare che la loro nazione potesse recuperare l'indipendenza con la forza delle armi sotto una leadership umana; e, sotto l'influenza del secondo libro di Esdra e di scritture simili, alcuni di loro avevano iniziato ad anticipare la fine imminente del mondo e l'ultimo giudizio, quando gli ebrei sarebbero stati salvati e avrebbero ereditato una nuova terra. E siccome erano stati costantemente assicurati dai loro scrittori ispirati che la loro salvezza era stata ritardata a causa della rabbia di Jahvè per la loro iniquità, difficilmente avrebbero potuto ignorare la sperata prospettiva che si apriva davanti a loro nel capitolo di Isaia il quale fornì la certezza che il servo di Jahveh — il Messia, il Cristo, come lo compresero —, aveva offerto sé stesso come un sacrificio espiatorio per le loro iniquità. Ed è importante notare che quel capitolo descrive qualcosa che era già accaduto. Non è una profezia; le sofferenze che descrive sono le sofferenze che la nazione ebraica aveva precedentemente subito o stava subendo. Cosicchè, quando il capitolo venne interpretato messianicamente, esso avrebbe naturalmente suggerito che il sacrificio espiatorio del Messia era già stato consumato.

2. Il Messia Trionfante

La parola ebraica “Messia” significa semplicemente “Unto”. La parola greca “Christos” ha il medesimo significato. Ogni re ebraico, essendo unto, era un Messia. È molto improbabile che mentre la monarchia perdurava gli ebrei si attendessero la venuta di un Messia in qualche senso speciale come liberatore. L'unto sedeva ancora sul trono di Davide, e dopo di lui il suo successore vi si sarebbe assiso a sua volta. La nazione era indipendente, anche se negli anni successivi della monarchia era senza dubbio povera e depressa. Le circostanze, però, non erano tali da dare origine alla brama di un campione regale che avrebbe dovuto riportare la nazione ad una posizione che aveva perduto. Ma quando la monarchia cessò di esistere, e il resto del popolo nel quinto secolo A.E.C. fu misero e indifeso e sottoposto a un re straniero, allora è facile capire come il ricordo dell'antica gloria del regno davidico sarebbe rinato, recando con sé la speranza che un giorno un discendente della casa di Davide avrebbe restaurato la monarchia; in altre parole, che divenisse il re unto — il Messia e con l'aiuto di Jahvè avrebbe reso gli ebrei di nuovo una grande nazione. Siccome questo Messia doveva essere un germoglio o virgulto del ramo di Iesse o Davide, egli fu chiamato dai profeti “il Ramo”. Quindi troviamo nel libro di Geremia, probabilmente scritto nella prima metà del quarto secolo A.E.C.: [2]
“Ecco, verranno giorni — dice il Signore — nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto;......Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele starà sicuro nella sua dimora......Davide non sarà mai privo di un discendente che sieda sul trono della casa di Israele”.
Il primo Isaia non si accontenta più dell'indipendenza e della buona autorità ebraiche; egli ha cominciato ad avere sogni di conquista straniera, infatti scrive: “Grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare.......In quel giorno la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli, le genti la cercheranno con ansia”. La Siria e l'Egitto stanno per essere conquistati e gli ebrei dispersi riportati indietro in Palestina.
Con il libro di Daniele, intorno alla metà del secondo secolo, perveniamo ad uno scenario che alla fine ha portato ad una notevole espansione dell'idea messianica. “Io guardavo nelle visioni notturne, ed ecco sulle nubi del cielo venire uno simile a un Figlio dell'uomo; egli giunse fino all'Antico di giorni.....  A lui fu dato dominio, gloria e regno, perché tutti i popoli, nazioni e lingue lo servissero; il suo dominio è un dominio eterno”. Ora, questo essere, nell'aspetto di un uomo, non è il Messia. Abbiamo qui immagini poetiche, come nei passi citati da Isaia; e come in quei passi il servo di Jahvè è inteso a rappresentare il popolo d'Israele, così qui l'essere paragonato a un uomo simboleggia il medesimo popolo, ed è a lui che sono promessi dominio e gloria. Tuttavia, inteso letteralmente, questo simbolismo forniva le caratteristiche al ritratto del Messia che fu derivato successivamente. “Figlio dell'Uomo” qui significa solamente uomo. Un Messia è menzionato, come sempre, nel libro di Daniele che è descritto come “il Messia, il Principe”. Questo Messia fu Giuda Maccabeo. Cosicchè nella mente dello scrittore di questo libro il Messia fu ancora niente più che un unto che avrebbe dovuto ristabilire gli ebrei come nazione indipendente. Si può tuttavia notare che non era più a lungo ritenuto universalmente necessario che il Messia dovesse essere del seme di Davide.
Sotto l'influenza della filosofia greca e delle circostanze nazionali degli ebrei l'idea messianica subì un cambiamento considerevole, ed emersero concezioni davvero varie della natura e delle funzioni del Messia. Tra i farisei in genere persisteva la concezione originale. Il Messia doveva essere un discendente di Davide e un re di Israele; doveva purificare Gerusalemme dai pagani, colpire i senza dio e far ritornare gli ebrei della Diaspora. Ma la successione di disastri che afflissero la nazione ebraica, e la disperazione di contrastare il potere di Roma, portarono gradualmente la maggior parte dei farisei a disperare di poter ristabilire un potente regno ebraico tramite sforzi militari e mezzi puramente umani. Essi difesero la passività e la sottomissione e un'attesa paziente che aspettava il giorno in cui Dio avrebbe riscattato il suo stesso popolo. Il regno messianico sarebbe stato stabilito non colla forza delle armi, ma per il potere di Dio che agiva sulla mente degli uomini e per la sapienza e la santità del Messia. Gli uomini di tutte le nazioni sarebbero venuti a vedere la sua gloria e la sua carità, e gli sarebbero stati soggetti di loro spontanea volontà. Questa visione è espressa nei Salmi di Salomone, un'opera farisaica prodotta intorno alla metà del primo secolo.
Altri ebrei, come abbiamo già visto, avevano abbandonato l'idea che il Messia deve necessariamente essere discendente della casata reale di Davide, e, condividendo l'opinione dei farisei che il successo militare sotto una guida umano non era più da sperare, cominciarono a dipingerlo un essere più o meno soprannaturale, o un uomo dotato di poteri sovrumani oppure un essere totalmente divino alla cui idea contribuì senza dubbio il libro di Daniele. Troviamo questa concezione nel secondo libro di Esdra, capitolo 13, dove Esdra, in una visione, vede un uomo possente, il Messia, venire dal mare con le migliaia di cielo, e fuoco emette dalla sua bocca con cui sono distrutte tutte le nazioni che avevano oppresso gli ebrei. Si spiega, tuttavia, che questo fuoco è metaforico e rappresenta la legge. Il Messia supererà e giudicherà tutte le nazioni senza alcuna arma che non sia la sua autorità e potenza divina, che renderà impossibile a ognuno rifiutarsi di obbedire ai suoi comandi. C'è motivo di credere, come verrà mostrato in un capitolo successivo, che per alcuni ebrei il Messia soprannaturale doveva essere una reincarnazione di Giosuè. E non è impossibile che, da un pò, Giosuè fosse considerato anche il Figlio di Dio. In 2 Esdra 7:27-31, leggiamo:
“E chiunque scampa questi mali, vedrà le mie meraviglie.
"Perché mio figlio Gesù comparirà con quelli che saranno con lui e quelli che rimangono si rallegreranno entro quattrocento anni.
“E tutti quelli che siano stati liberati dai mali che ti ho detto prima vedranno i miei prodigi.
“Infatti si rivelerà il mio figlio Gesù assieme a coloro che sono con lui, e farà gioire per quattrocento anni coloro che saranno rimasti.
“E dopo questi anni accadrà che muoia mio figlio Cristo e tutti coloro che hanno respiro d'uomo.
“Questo mondo tornerà al suo antico silenzio per sette giorni come all'inizio primordiale, in modo che nessuno venga dimenticato, e dopo sette giorni accadrà che il mondo futuro non ancora sveglio si desterà e perirà quello corruttibile”.
“Gesù” è una forma greca del nome ebraico “Giosuè”.  Il passo sopra citato potrebbe aver sofferto un'interpolazione cristiana, anche se non è certo. Il tenore generale del passo non è affatto cristiano. Non è parte della dottrina cristiana, anzi è inconsistente con essa, che il Cristo debba morire dopo aver regnato quattrocento anni e debba risuscitare dai morti dopo sette giorni. Le affermazioni dei critici tradizionalisti su una materia di tal genere sono prive di valore, essendo abbastanza non scientifiche. Ogni menzione di un Messia Giosuè o Gesù in un'opera ebraica dev'essere naturalmente un'interpolazione cristiana, oppure essi dichiarano almeno che l'opera sia un'opera giudeo-cristiana. Tutte queste domande sono risolte in accordo ad una conclusione scontata. In due o tre altri punti di 2 Esdra, il Messia è chiamato il Figlio di Dio. Questo libro fu scritto probabilmente in prossimità della fine del primo secolo E.C.., ma la concezione del Messia che esso contiene era stata certamente corrente in una certa cerchia per qualche tempo prima. La dottrina della resurrezione trovata in 2 Esdra è la solita dottrina ebraica, che il corpo risorgerà.
Nel Libro di Enoc, scritto molto prima di 2 Esdra, nel 100 A.E.C. circa, la concezione del Messia celeste è sviluppata perfino più ampiamente, anche se in quel libro il Messia non è il Figlio di Dio. Egli è chiamato l'Eletto, anche il Figlio dell'Uomo. Sembra essere considerato il Principe degli Angeli, dal momento che si trova davanti al trono di Dio alla testa dell'esercito angelico. È anche detto che sia esistito prima della fondazione del mondo. Enoc, in una visione profetica, vede il Messia assiso sul trono della sua gloria, che è anche il trono dell'Onnipotente, per giudicare il mondo. Questo giudizio, apparentemente, dev'essere eseguito solo su quelli viventi all'arrivo del Messia. La fede in una resurrezione generale non esisteva tra gli ebrei di questo tempo. Lo scrittore di Enoc, però, afferma che dopo il giudizio ci sarà una resurrezione di israeliti. I giusti dimoreranno allora in cielo col Figlio dell'Uomo per sempre.
Connesse alla concezione del Messia celeste nelle Apocalissi vi sono diverse altre idee importanti che contribuirono allo sviluppo della dottrina cristiana. Alcune di quelle idee furono modificate dall'influenza di altre idee provenienti da una fonte diversa; e alcune in particolare furono universalizzate e spiritualizzate a causa dell'influenza gnostica. Tra quelle idee connesse c'erano quelle che si riferivano alla fine del mondo presente. La distinzione tra questo mondo e il prossimo fu fortemente derivata dagli scrittori apocalittici. Il mondo presente, essi pensarono, era essenzialmente malvagio e sotto il dominio di Satana e del suo esercito di spiriti maligni. Il dominio di Satana sarebbe stato interrotto da una grande battaglia tra un esercito di angeli guidati dal Messia da un lato, e da Satana e i demoni dall'altro. La fine del mondo presente, che si pensava fosse vicina, sarebbe stata inaugurata da guerre, tribolazioni, segni e meraviglie. L'Apocalisse di Baruc, riferendosi a quel tempo, dice: “E voi, sposi, non entrate, né le vergini si ornino di corone. E voi, donne, non pregate per generare.  Di fatto si delizino piuttosto le sterili e gioiscano quelle che non hanno figli, ma quelle che hanno figli si addolorino”. Il nuovo regno, il regno di Dio che dovrà essere stabilito dopo il giudizio e la distruzione di Satana, sarà un Regno soprannaturale di origine celeste, preparato da Dio prima della fondazione del mondo. Alcuni degli scrittori, tuttavia, pensavano che ci sarebbe stato un periodo intermedio, durante il quale il Messia avrebbe regnato sulla terra. Secondo l'Enoc slavonico, la durata di questo regno sarebbe stata di 1000 anni —- cioè il millennio. Secondo alcuni degli Oracoli Sibillini, la fine del mondo presente sarebbe accaduta mediante distruzione dal fuoco. Per alcuni degli scrittori lo stato futuro dei giusti è uno stato di benessere piuttosto materialistico, ma in altri è raffigurato più spiritualmente. I giusti brilleranno come le stelle e saranno come gli angeli. I malvagi sono condannati irrevocabilmente. O saranno completamente distrutti, oppure soffriranno la pena eterna del fuoco, oppure saranno gettati nell'oscurità eterna.
Abbiamo visto che gli gnostici credevano che il Logos, il Figlio di Dio, doveva morire e risorgere dai morti per assicurare la possibilità di resurrezione per l'umanità. È evidente che esisteva un credo simile presso un certo gruppo di ebrei messianici. Secondo lo scrittore di 2 Esdra, solo quelli che erano vivi all'arrivo del Messia dovevano condividere le glorie del suo regno. Quelli che erano morti in precedenza non potevano risorgere dai morti, finché il Messia non fosse morto; poi, dopo sette giorni, egli sarebbe risorto, e i giusti con lui. Ora, se questo credo fosse stato tenuto da qualcuno di coloro che consideravano messianiche le parti dei salmi e il cinquantatreesimo capitolo di Isaia, sarebbe stato facile per loro, a causa di quei passi, collocare nel passato la morte del Messia e la sua gloriosa seconda venuta nel futuro; specialmente perché questa seconda venuta era ritenuta vicina. Quando i cristiani avevano fissato la morte del loro Messia sotto il governatorato di Ponzio Pilato, essi furono obbligati a trattare i passi riferiti come profezie, anche se figurano al tempo passato e non si riferiscono ad un evento futuro. Quando furono scritti essi avevano alluso a circostanze contemporanee, oppure ad eventi che si erano verificati poco tempo prima, e sarebbe abbastanza naturale per un ebreo che li considerava messianici ed attendeva l'apparizione gloriosa del Messia nell'immediato futuro interpretarli come passi che descrivono qualcosa che era già accaduto quando essi furono scritti.

NOTE

[1] Sulle date dei profeti si veda Appendice A.

[2] Si veda Appendice A.

2 commenti:

Unknown ha detto...

Buongiorno, leggo sempre con grande interesse il suo blog. Da molti anni ormai mi interesso alla figura di Gesù per pura curiosità storica, e ritengo che lei sia davvero sulla buona strada, che sia uno di coloro che maggiormente si siano avvicinati alla verità probabilistica sull'argomento. Vorrei fare una domanda: ipotizzando come dice che il Primo vangelo originario fosse di natura gnostica e precedente a quello di Marcione e al Vangelo degli Ebrei, quale potrebbe essere stato il suo rapporto col Vangelo di Tommaso? Anche quest'ultimo era gnostico e molto antico; inoltre il fatto che fosse scritto in loghia potrebbe far pensare ad una versione precedente a tutte le altre versioni, che sono scritte in stile narrativo. Qual è la sua opinione in merito? Grazie.

Giuseppe Ferri ha detto...

Grazie del complimento, ma io non sono un esperto (possiedo solo una laurea magistrale in una materia scientifica) se non di studiosi (loro sì, esperti) miticisti.

Su Tommaso apprezzo e ritengo definitivo l'importante lavoro di Mark Goodacre, Thomas and the Gospels: The making of an apocryphal text. Egli colloca questa collezione di detti al tempo di Bar-Kochba, in virtù del detto 68:


Gesù disse:
«Beati voi, quando vi odieranno e vi perseguiteranno, e non troveranno un luogo nel luogo dove vi hanno perseguitato».



...il “luogo” dove ci fu una “persecuzione” ebraica anti-cristiana (leggi: dove semplicemente la predicazione di un Cristo crocifisso, e non dove fu crocifisso un Cristo, fu una “pietra di scandalo” per gli ebrei, si veda Romani 9:32-33) fu Gerusalemme. Così se gli ebrei non vi trovano posto a Gerusalemme è perchè non poterono più dimorarvi per espresso decreto imperiale (Adriano), ossia dopo il 135 E.C.

Che si tratti del 135 (come terminus post quem) e non del 70 è provato dal detto 71:

Gesù disse:
«Io distruggerò questa casa e nessuno potrà ricostruirla…».


La certezza dogmatica di questo Gesù di carta sul fatto che “nessuno potrà ricostruire” il tempio è rivelatrice della certezza, radicatasi solo dopo il 135, che il tempio non sarebbe mai stato più ricostruito: una speranza ancora viva dopo il 70, visto che il Gesù di carta di Marco 11:14 poteva al più soltanto augurarsi che il tempio (allegorizzato dal fico sterile) non venisse più ricostruito:

E gli disse: «Nessuno possa mai più mangiare i tuoi frutti».

...ma questo augurio è ben diverso dall'esplicita negazione di una ricostruzione del tempio per l'intera eternità, visto che tradisce ancora la possibilità di una ricostruzione del tempio nel breve periodo, perfino se contro il volere del Gesù di carta in questione.

Così: io non penso proprio che il vangelo di Tommaso sia di qualche utilità per le Origini del Mito (leggi: epistole), tantomeno per la diffusione della leggenda (leggi: vangeli). Al contrario, conferma che una collezione di detti attribuita a Gesù (con tanto di formula: “Gesù ha detto”) non costituisce una prova della sua esistenza, non più di quanto la confermerebbe un'ipotetica fonte Q (alla quale io non credo affatto). E conferma come gli stessi gnostici, perfino se alcuni di loro fossero stati gli autori di proto-Marco (una semplice, concreta possibilità, a mio avviso, non qualcosa che ho “provato”), finirono col partecipare alla medesima orgia storicista dei loro rivali proto-cattolici, colle medesime pretese, coi medesimi effetti piuttosto grotteschi, ancora ai nostri giorni.