domenica 4 febbraio 2018

Il Problema Gesù: Una Riaffermazione della Teoria del Mito (III) — Radici del Mito

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CAPITOLO III

RADICI DEL MITO

§ 1. Dati Storici

Non segue dall'esistenza provata di drammi misterici nei culti pagani dell'Impero romano nel primo secolo E.C., che i Gesuisti avessero un'usanza simile; ma quando troviamo nel Nuovo Testamento un esplicito riferimento a questo parallelismo, e nei primi Padri una conoscenza della derivazione di questi paralleli, siamo indotti a chiederci se non ci sia una prova ulteriore. Quando “Paolo” [1] comunica ai suoi seguaci: “Non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni: [2] non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni” egli sta lamentando che alcuni convertiti sono propensi a partecipare indifferentemente ai sacramenti pagani e cristiani. Pochi studiosi ora, probabilmente, concederanno la vista che le “mense di demoni”, con i loro riti simili, fossero imitazioni improvvisate dei sacramenti cristiani. Essi erano di un'età antica. Ma il rito gesuista fu anche in tutta probabilità molto più antico, in qualche forma, dell'era cristiana.
Se c'è qualche principio di mitologia comparativa che si sarebbe potuto chiaramente pretendere come accettato generalmente da esperti una generazione fa, è che “il rituale è più antico del mito: il mito deriva dal rituale, non il rituale dal mito”. [3] Questo principio, espressamente ipotizzato da lui stesso come da altri prima di lui, Sir James Frazer pose risolutamente da parte quando egli viene a trattare con il mito cristiano. Una scienza disinteressata non può acconsentire ad un corso simile.
Che ci fossero “mense” nei culti di molti Dèi è piuttosto certo: i pasti nel tempio per devoti sembrano  essere stati normali nella religione greca; [4] e nei culti degli Dèi-Salvatori c'erano collocazioni speciali di pasti sacramentali con “misteri”. In particolare, a parte i famosi misteri eleusini ci furono abituali rappresentazioni drammatiche delle sofferenze e morte del Dio nei culti di Osiride, Adone, Attis, e Dioniso: in aggiunta ad una rappresentazione scenica della morte di Eracle; e un sistema speciale di presentazione simbolica della vita del Dio nei riti di iniziazione dell'adorazione di Mitra. [5] Non si deve supporre che quelle rappresentazioni religiose equivalessero a qualcosa di simile ad un dramma completo, come quelli del grande teatro attico. Piuttosto esse rappresentavano fasi antiche nell'evoluzione che terminò nel dramma greco come noi lo conosciamo. Casi analoghi più vicini sono da trovarsi nelle recite religiose di varie razze selvagge nel nostro tempo. [6] Ciò a cui i drammi misterici in generale sembrano esser stati equivalenti era una semplice rappresentazione della vita e della morte del Dio, con un pasto sacramentale.
La comune obiezione all'ipotesi anche di un dramma misterico elementare nelle fasi pre-evangeliche del gesuismo è che la letteratura ebraica non mostra nessun elemento drammatico, data l'avversione degli ebrei a questo come ad altri sviluppi artistici dell'istinto religioso. A questo replichiamo, in primo luogo, che il dramma misterico, in quanto distinto dal sacramento originario, potrebbe o non potrebbe essere stato definitivamente ebraico all'inizio; e che il dramma come visto sviluppato nel supplemento ai vangeli è certamente manipolato da mani gentili. Ma l'obiezione è non valida in ogni caso, trascurando come fa:
1. La natura essenzialmente drammatica del Cantico di Salomone.
2. La natura parzialmente drammatica del Libro di Giobbe.
3. La forma drammatica della celebrazione di Purim.
4. L'esistenza nel periodo ellenistico di teatri a Damasco, Cesarea, Gadara, Gerico e Scitopoli, dove le prime due furono costruite, come apprendiamo da Flavio Giuseppe, da Erode il Grande.
5. La pressione cronica dell'influenza della cultura ellenistica sulla cultura ebraica per secoli.
6. La prevalenza dell'influenza della cultura greca presso le città di Samaria, Damasco, Gaza, Scitopoli, Gadara, Panias (Cesarea di Filippi).
7. La natura “per-metà-pagana” dei distretti di Traconitide, Batanea, e Auranitide, ad oriente del Lago di Genesaret. [7] La Galilea, sia ricordato, fu territorio “pagano” conquistato di recente.
8. La lunga e profondamente ostile separazione, dopo il Ritorno, tra le classi sacerdotali e rabbiniche e la gente comune delle province. [8]
9. La “rinascita di misteri obsoleti” tra gli ebrei, e la nota sopravvivenza di sacramenti privati e sacrifici simbolici di espiazione. [9]
10. La produzione reale di poesia drammatica greca su soggetti biblici da parte del poeta ebreo Ezechiele (secondo secolo A.E.C.). [10]
L'ottavo elemento ha bisogno di essere enfatizzato specialmente. È frequentemente asserito che nulla nella natura di un culto eteroclita avrebbe potuto sopravvivere in modo continuo nell'ebraismo; che non ci fossero idee religiose nel mondo ebraico salvo quelle dei Testi Sacri dei rabbini. [11] Questa è un'illusione storica. I libri storici e profetici dell'Antico Testamento affermano un ricorso costante a riti pagani e a Dèi anteriori all'Esilio. C'è una registrazione ufficiale di aspra contesa e divisione tra quelli del Ritorno e il popolo che trovarono sul suolo natio. Malachia evoca la nota del conflitto, lamentando tiepidezza popolare, sacrilegio e incredulità. Il semplice fatto che dopo l'Esilio l'ebraico non fu più la lingua comune, e che il popolo parlò aramaico o “caldeo”, ci dice di una relazione altamente artificiale tra la gerarchia e la popolazione. Neppure la Giudea può mai essere stata omogenea a lungo. “Né in Galilea né in Perea noi dobbiamo concepire l'elemento ebraico come puro e non misto. Nel mutevole corso della storia gli ebrei e i gentili erano stati qui così spesso gettati assieme, e in tale varietà di modi, che l'ottenimento di un predominio esclusivo da parte dell'elemento ebraico dev'essere contato tra le impossibilità. Fu solamente in Giudea che si arrivò a questo almeno approssimativamente  tramite l'azione energica degli scribi durante il corso di un secolo.” [12]
L'assunzione fatta comunemente è che tutti gli ebrei e gli ebrei “naturalizzati” fossero di un'unica maniera teistica di pensiero, come i cristiani ortodossi, e, al pari di quelli, non potessero immaginare alcun altro punto di vista. Se  a quella concezione interamente unilaterale il ricercatore sostituirà perfino una nei termini delle variegate realtà di vita nel cristianesimo, egli sarà molto più vicino alla verità. Oltre e sopra le rivalità tra le sette e le fazioni che si attenevano alle stesse formule e Testi Sacri, ci furono nell'ebraismo gli innovatori, allora come ora: le menti che variavano dalla norma documentaria in tutte le direzioni, analoghi ai devoti della “Scienza Cristiana”, babisti, buddhisti inglesi, swedenborgiani, Shakers, Secondi avventisti, mormoni, e così via, che da una base più o meno comune si irradiavano su tutti i punti cardinali del credo. Ciò che ci sta di fronte nella nascita del cristianesimo è lo sviluppo di una di quelle varianti, su linee di adattamento al bisogno popolare, con un'organizzazione su linee già verificate nell'esperienza dell'ebraismo.
Tra le comune aspirazioni dell'età ci fu il bisogno di un Dio vicino, [13] uno apparentemente più a contatto con i lamenti e le sofferenze umane rispetto al remoto Dio Supremo. Per gli ebrei più antichi, Jahvè era un Dio tribale al pari di Moloc o Chemosh, combattente per il suo popolo (quando lo meritavano) al pari di altri Dèi tribali; un uomo magnificato che discuteva con familiarità con Abramo e Sara, e combatteva con Giacobbe. [14] Anche allora, le attrazioni di altri culti imposero un ricorso costante a loro da parecchi Jhavisti, a meno che i Testi Sacri storici non siano tanto illusori su questo come lo sono su altri argomenti. Per non dire nulla delle continue accuse contro i re ebrei, da Salomone in avanti, di istituire culti stranieri, e l'asserzione esplicita di Geremia [15]  che in Giuda c'erano tanti Dèi quante città, e in Gerusalemme tanti altari di Baal quante strade, abbiamo l'asserzione altrettanto esplicita in Ezechiele [16] che “donne che piangevano per Tammuz” stavano per essere viste dentro o presso lo stesso Tempio. Ora, Tammuz fu una divinità semitica, copiata, sembrerebbe, dagli Accadi, [17] una originale oppure variante di Adone, proprio il tipo del Dio-Salvatore che stiamo ora rintracciando. Tammuz, al pari di Gesù, fu “il figlio unigenito”. Se si deve sostenere che l'adorazione di Tammuz dev'essere scomparsa durante o dopo l'Esilio, poiché non sarebbe tollerata nel Secondo Tempio, la risposta è che San Girolamo dichiara espressamente che al suo giorno i pagani celebravano il culto di Tammuz proprio nella stessa grotta in cui si disse che fosse nato Gesù a Betlemme [18] — un dettaglio di qualche significato nella nostra inchiesta. Tammuz = Adone = “il Signore”. Quel culto, in effetti, sarebbe potuto essere plausibilmente una rinascita che capitò dopo la caduta di Gerusalemme; ma dire che non ci possa essere stato nessuna tradizione intorno a Tammuz nell'ebraismo o in Galilea o in Samaria tra il tempo di Ezechiele e quello di Girolamo sarebbe equivalente a fare un'asserzione completamente ingiustificata. Il credo potrebbe perfino essere sopravvissuto sotto un altro nome divino.


[Tra i parecchi oscuramenti di Storia imposti da presupposizioni c'è quella che esclude ogni prova di una fonte nei miti per una comunità, salvo quella filologica, la più precaria di tutte le dimostrazioni. L'argomento su questo soggetto è stato condotto anche da opposte scuole di filologia come se tutti parimenti credessero che ogni Dio, come ogni uomo, fosse un'entità provvista di un nome, rintracciabile tramite il suo nome, e rimanente sostanzialmente immutata nei suoi attributi attraverso le età. Quando Max Müller propose queste derivazioni come quella di Zeus dal sanscrito Dyaus, alcuni studiosi per cui il sanscrito fu una materia oscura osservarono una rispettosa deferenza, mentre altri disputarono se le derivazioni fossero filologicamente profonde. Per la scienza mitologica, strettamente parlando, importò poco se lo fossero o meno. Le idee di Dio potrebbero passare con poca modifica da una razza ad una razza per contatti di conquista, quando i corrispondenti nomi di Dio cambiano parimenti per le razze “assorbite” e per quelle che le “assorbivano”, laddove altri nomi di Dio potrebbero subire una  modifica minore per intere epoche mentre gli attributi loro connessi stanno per essere continuamente modificati, e i racconti detti su di loro stanno per essere perpetuamente espansi, e parecchi sono rifiutati. Lo Zeus dell'Iliade è probabilmente una figura concettuale totalmente diversa dal Dyaus dell'antico “Ariano”, ipotizzando che i nomi fossero all'origine lo stesso vocabolo.  Il fatto filologico è una cosa, il fatto mitologico è un altro.
Scrittori come il dottor Conybeare, che non hanno mai realizzato la natura di un problema mitologico, disorientano i loro lettori affermando spavaldamente che non può esserci alcuna omogeneità tra concezioni mitiche a meno che i nomi loro associati in regioni diverse e da razze diverse siano etimologicamente affini. Essi esigono irrazionalmente “equazioni” linguistiche dove un'equazione linguistica per sé stessa non conterebbe nulla, dato che il fatto rilevante è l'equazione dei concetti mitici. Ciechi ai fatti salienti che ogni “razza” coinvolta aveva subito una mutazione per conquista; che nomi di Dio e idee di Dio in egual modo passarono da razza a razza mediante matrimoni misti, [19] dagli effetti di una sottomissione, e da un'adozione ufficiale; [20] e che costantemente le razze  conquistatrici adottarono totalmente o parzialmente gli “Dèi” delle razze conquistate [21], loro assumono di conseguenza che i nomi di Dio e i concetti di Dio sono entità fisse, rintracciabili solamente per glossologia. Come se la glossologia potesse eventualmente pretendere di rintracciare, perfino sul suo stesso terreno, tutte le trasformazioni di nomi propri e appellativi attraverso razze e lingue divers3. La pretesa che quelle sono all'unisono con lo sviluppo generale del linguaggio è mera ciarlataneria scientifica.
 Ciò che la mitologia deve considerare è la filiazione e interconnessione di concetti mitici. Questo è un processo così pervasivo che perfino Max Müller, dopo aver negato che ci potesse essere stato qualche “incrocio” tra linee di pensiero vedico e straniero in virtù della stretta somiglianza tra il culto babilonese del fuoco e quello di Agni, concesse l'identificazione del Soma indiano, Dio del Vino, con il Dio della Luna Chandra. [21] Le trasmutazioni di un concetto mitico affine sotto i nomi di Dioniso (che possiede un centinaio di altri epiteti) e del latino Liber, costituiscono un processo mitologico che la filologia non può delucidare. I fatti scientificamente rintracciabili sono in prevalenza la traduzione di concetti come Dio del Vino, Dio Sole, Dio della Guerra, Dio della Luna, Dèa dell'Amore, Dèa Madre, Dèa Bambina, attraverso molte razze e regioni. Un fattore mitico di grande importanza, non riconosciuto da molti che dogmatizzano su questi problemi, è quello dell'influenza della scultura, [22] mediante cui queste figure come quella della Dèa-Madre diventano proprietà comune di molte terre, istituendo comunità di credo su una linea indipendente dalle teologie prevalenti. Ed è molto certo che appena le nazioni vennero a sapere più e più degli Dèi degli uni e degli altri essi copiarono aspetti e racconti, assimilando così i concetti generali associati a nomi totalmente diversi.
Constatando, allora, inoltre, che, come nel caso di Jhavè, fu spesso materia di tabù religioso che una divinità non dovesse essere chiamata col “suo vero nome”, e che quasi tutte possedevano molti epiteti, non ci fu alcun limite all'interazione e mutazione di culti e norme divine. La derivazione precisa e la storia del culto di Tammuz nell'ebraismo nessuno può pretendere di sapere; e nessuno perciò può pretendere di sapere che esso non fosse interconnesso con altri culti di nomi associati a insiemi di attributi, riti, e racconti. In vista dell'odiosa declamazione del soggetto, sembra proprio necessario rammentare al lettore che perfino se egli crede nella storicità di Gesù egli non è perciò titolato ad assumere la storicità di Tammuz-Dumzi-Adone, o di Mirra, o Miriam, o Giosuè; e che se riconosce qualche associazione, in termini di attributi, tra i concetti di Dio di Marte e Ares, o di Zeus e Giove, o di Afrodite e Venere, o di Artemide e Diana, e in quei casi non ricade sulla tesi inutile di “due divinità diverse”, egli non è titolato a fare così in base alla suggestione che un popolare culto siriano di un nome del Signore potrebbe essere connesso con l'altro. C'è davvero bisogno qui di una piccola vigilanza critica, per non dire di analisi psicologica.]

Anche se assumiamo che il più antico culto ebraico di Tammuz sia stato spazzato via nell'Esilio, le nuove condizioni tenderebbero a stimolare culti popolari simili. Quando, dopo l'Esilio, la concezione di Jahvè cominciò sotto influenze persiane-babilonesi a modificarsi nella direzione di un teismo universalista, la tendenza comune a cercare un Dio più vicino era destinata ad entrare in gioco. Non c'è aspetto più universale nella storia religiosa della recessione degli Dèi Superiori. [23] Più “suprema” una divinità diventa, nella religione popolare, più generalmente la devozione popolare tende ad eclissare gli Dèi-Figli o le Dèe che sembrano essere più probabilmente “ascoltatori o corrispondenti di preghiera”. I Libri Sacri tendono di certo a controllare questa reversione; e nell'Islam il controllo ha avuto successo in virtù proprio del fatto che Allah, al pari dell'antico Jahvè, è in effetti concepito come un Dio razziale, o un Dio di un singolo culto. Ma la tendenza è vista all'opera su tutta la terra.
La moda di Apollo, di Dioniso, di Eracle, di Tammuz-Adone, di Krishna, di Buddha, di Balder, di Atena, della Vergine Maria, delle innumerevoli divinità propiziate da popoli selvaggi che ignorano i loro Dèi Supremi, sono tutte testimonianze della brama naturale  dell'ignoranza religiosa per un Dio vicino. La stessa brama certamente sopravvisse tra gli ebrei nella misura in cui non fu vergata completamente da un legalismo organizzato. E constatando che i redattori dei Libri Sacri avevano veramente ridotto molte antiche divinità — Abramo, Giacobbe, Giuseppe, Daoud = Davide, Mosè, Giosuè, e Sansone — allo stato di patriarchi ed eroi, [24] la brama ne sarebbe in qualche modo relativamente rafforzata. Gli ebrei che al tempo di turbamento si rivolgevano periodicamente a Dèi stranieri e a riti stranieri, proprio come fecero i greci e i romani, non potevano fallire concepibilmente del tutto di adottare o accarezzare culti analoghi a quelli di Dioniso, Adone, Osiride, così popolari tra i popoli vicini.
L'ipotesi che ci è obbligata dall'intera Storia, allora, è che vi era sopravvissuto nell'ebraismo, in connessione originale ad un rito sacrificale di Gesù il Figlio del Padre, un Sacramento di un Gesù Dio-Eroe, il cui Nome era efficace alla salvezza. Se  prese la forma di un Sacramento dei Dodici, col rappresentante rituale del Dio, sarebbe strettamente analogo al tradizionale Sacramento dei Dodici in cui Aronne [l'Unto = Messia] e i [dodici] anziani di Israele “mangiarono pane col suocero di Mosè di fronte a Dio”. [25] Dietro quel racconto risiede una pratica rituale. Un sacramento di pane e vino è ulteriormente indicato nella menzione del mitico Melchisedec, “Re di Pace”, e sacerdote di “El Elyon”, [26senza padre, senza madre, senza genealogia, senza inizio di giorni né fin di vita, simile quindi al Figlio di Dio”, che diventò così per i Crististi un tipo di Gesù. [27] Un banchetto sacramentale di dodici sembra esser stato coinvolto nel rituale sacrificale del Tempio stesso, dove un capo sacerdote e altri dodici officiavano quotidianamente. [28] Che ebrei di Galilea o altrove oppure semi-ebrei, sempre in una relazione parzialmente ostile a sacerdoti, scribi, e farisei, dovessero mantenere, in un'età di perenne guerra, disastro e rivoluzione, un antico sacramento segreto, con un culto subordinato di un Gesù Dio-Eroe il cui corpo e il cui sangue avevano recato salvezza una volta letteralmente e ora simbolicamente, non è un'ipotesi improbabile ma un'ipotesi probabile.  I vangeli stessi indicano un'attitudine di ostilità popolare in pari misura verso il re, i sacerdoti, gli scribi, i farisei, e i sadducei. Non si pretende che prima e a parte da Gesù non ci fosse questa ostilità, e che egli la generò col suo insegnamento. In una comunità unita quest'ostilità non poteva essersi generata così. Vi era dal principio. Se allora i culti di Dioniso e Attis e Adone, i semidèi che muoiono e soffrono ogni anno, potevano apertamente sopravvivere nel mondo ellenistico in parallelo ai culti pubblici di Zeus e degli altri Dèi principali, un culto segreto di un Dio-Eroe Gesù poteva sopravvivere in qualche parte dell'ebraismo, con i suoi retaggi di paganesimo rurale e i suoi molti contatti e intrecci con lo scisma samaritano e la cultura ellenistica. Inoltre ancora, se i bisogni popolari del mondo ellenistico potevano provocare e mantenere una moltitudine di associazioni religiose segrete, ciascuna col suo proprio pasto sacramentale, [29] gli stessi bisogni potevano generali e mantenerli altrove.
A questa tesi si obietta che non abbiamo nessuna menzione dell'esistenza di un culto di Gesù di qualche genere nei libri ebraici. Ma ciò è una necessità del caso. I Libri Sacri avrebbero escluso naturalmente ogni menzione di un culto che significò in effetti la prolungata deificazione di Giosuè, [30] il quale era stato ridotto da lungo tempo allo status di un mero eroe nella Storia. Che Giosuè è un personaggio non-storico è stato stabilito a lungo dalla critica moderna. [31] Che egli non fece ciò che nel libro di Giosuè è detto che abbia fatto è riconosciuto da tutti i “più alti” critici. Chi o cosa allora fu Giosuè? Egli è sotto molti aspetti il duplicato mitico di Mosè, la cui opera egli ripete, passando il Giordano come Mosè il Mar Rosso, costituendo i suoi dodici, “rinnovando” il rito di circoncisione, e scrivendo la legge sulla pietra. Ma egli supera in particolare Mosè nel fatto che egli colla sua parola comanda il sole e la luna di rimanere ancora; [32] e siccome questo è citato da “Giusto”, egli è eventualmente la figura più antica tra i due.
E per gli ebrei egli trattenne uno status speciale. Nel suo Libro gli si fa dare (con un “così dice il Signore”) una lista delle conquiste da lui effettuate contro “gli Amorrei, i Perizziti, i Cananei, gli Hittiti, i Gergesei, gli Evei e i Gebusei”. In Esodo 20, è promessa proprio questa lista di conquiste, eccetto “i Gergesei”, con questo preludio:
 Ecco, io [Jahvè] mando un Angelo davanti a te per vegliare su di te lungo la via, e per farti entrare nel luogo che ho preparato. Stai attento davanti a lui e ubbidisci alla sua voce; non ribellarti a lui, perché egli non perdonerà le vostre trasgressioni, poiché il mio nome è in lui.

L'Angelo che possiede o incarna il nome magico o segreto [33] deve fare ciò che nel mito storico Giosuè dice che è stato fatto sotto la sua guida: [34] figurano entrambi i passi. Inoltre, l'Angelo del passo di Esodo è identificato nel Talmud col mistico Metatrone, [35]  che corrisponde generalmente al Logos di Filone Giudeo, alla Sofia o Potere degli gnostici, e al Nous di Plotino. L'eminente studioso talmudico, Emmanuel Deutsch, ipotizzò che il Metatrone è “molto probabilmente nient'altri che Mitra”, il Dio-Sole persiano; e in quanto il promesso Divino nella versione Septuaginta di Isaia 9:6, porta i titoli mitraici di “Angelo del Gran Consiglio” e Giudice, c'è forse una ragione per qualche congettura del genere. Potrebbe essere stato, in effetti, che i redattori dei testi sacri intesero sostituire originariamente L'Angelo a Giosuè nella stima del popolo, dando al primo il credito per le imprese del secondo; ma questa manipolazione sarebbe in sé stessa una confessione della fama di Giosuè. E nei Targum samaritani “l'angelo di Dio” figurava comunemente per i nomi divini di Geova ed Elohim. [36]
Comunque ciò potrebbe essere, il pseudo-storico Giosuè non avrebbe potuto essere elevato dai talmudisti a uno stato divino se  in altri aspetti fosse stato un personaggio storico; e quando lo troviamo specialmente onorato in Samaria [37] non possiamo derivare alcuna conclusione se non che egli fu una volta una divinità palestinese. Il fatto che il nome significa “Salvatore” [38] è di capitale importanza. Nella tradizione ebraica e nel suo libro egli è associato specialmente alla scelta dell'agnello pasquale, al rito della Pasqua ebraica, e al rito della circoncisione. [39] Qui allora è il presunto Dio per l'antico rito di Gesù il Figlio del Padre. Come vedremo più tardi, “l'Angelo del Signore” si ritrova identico a “la Parola del Signore”un altra suggestione per i fabbricatori dei vangeli. E nella liturgia del Nuovo Anno ebraico, a questo giorno, le figure di Giosuè-Gesù come il “Principe della Presenza”, che di nuovo si suppone identificarlo con Metatrone in quanto = μεθά θρόνου, “dietro il trono”. Solo come una divinità palestinese così subordinata a Jahvè egli è comprensibile. E siccome l'“Angelo della Presenza” si ripresenta di nuovo in Isaia 63:9, figurando come Salvatore e Redentore, è abbastanza chiaro che ci fu qualche dottrina ebraica che fece di Giosuè una divinità Salvatrice.
Un'alta autorità [40] afferma che l'“Angelo della Presenza” è “probabilmente Michele, che fu l'angelo guardiano di Israele”. Ma Michele è una figura totalmente post-esilica: non vi fu nessun prototipo ebraico? Comunque ciò potrebbe essere, la connessione rituale del nome Gesù (Giosuè) col titolo di Principe della Presenza è sopravvissuta all'influenza dell'angelologia babilonese, e rimane a confermare uno status per Giosuè che può essere spiegato soltanto come un risultato della sua originale Divinità. [41]

[A questo argomento induttivo la sola risposta, fin qui, sembra essere sostenere, come fa il dottor Conybeare, che mentre “nessuno al giorno d'oggi accetta il libro di Giosuè da subito come Storia vera e propria”, nondimeno Giosuè costituisce “un uomo di carne ed ossa”. [42] Per lo stesso ragionamento, Sansone non può essere una divinità evemerizzata, sebbene la sua natura mitica è chiara ad ogni mitologista. A queste considerazioni va incontro il nostro dilettante colla presunzione che se “una mezza dozzina o più” uomini “si fanno avanti” fraintendendo un “mito astrale” per un uomo, noi dovremmo “pensare di essere stati ingannati, e scappare a gambe levate”. [43] In questa connessione il dottor Conybeare mi rappresenta come se dichiarassi Gesù “un mito astrale”. Non è chiaro se il dottor Conybeare, che suppone che i totem siano Dèi, sappia che cosa significa “mito astrale”, così io gli attribuisco un'allucinazione piuttosto che una fabbricazione. Il lettore razionale è consapevole che nessuna teoria del genere è stata avanzata o suggerita da me. [44] Ma quanto alla sua tesi, che sembrerebbe implicare che perfino le divinità solari non avrebbero potuto mai essere ritenute  uomini reali da “una mezza dozzina”, è sufficiente sottolineare che Eracle, il tipico Dio-eroe solare, fu creduto un uomo reale da milioni di persone nell'antichità; e che Sansone, ovviamente = il semitico Shamas o Shimshai, una variante di Eracle, fu creduto un uomo reale da milioni di ebrei. È inutile qui andare ai casi di Achille e Ulisse; ma il lettore che conoscerebbe più di mitologia di quanto è stato scoperto dal dottor Conybeare e dai suoi recensori di giornale potrebbero investigare utilmente quei temi.
Quanto a Giosuè, il dottor Conybeare, tentando un umorismo accademico, sostiene (pag. 17) che se l'eroe è “interessato in fecondità e prepuzi” egli sarebbe dovuto essere concepito come un “dio priapico”. L'umorista, che definisce “troppo modesti” i suoi antagonisti, sembra essere ignaro del fatto che Jahvè ebbe gli interessi in questione. Diventando “serio”, egli sostiene (pag. 30), che “anche se vi fosse mai esistito un culto simile, esso era da tempo svanito quando il libro di Giosuè fu compilato”. Per altri scopi, egli si appella (pag. 16) alla verifica, “Come lo sai?” “Svanito” per il dottor Conybeare, significa che “non è menzionato nei testi ebraici canonici”. Colle sue concezioni semplici della vita religiosa dell'antichità, egli si crede consapevole di tutto ciò che accadeva, religiosamente, nelle vite della popolazione tanto mista di Palestina. La sua dichiarazione (pag. 31) che “gli ebrei”, nel quinto secolo A.E.C. “non riverirono pù Davide e Giosuè e Giuseppe come dèi-solari” è tanto importante quanto lo sarebbe la dichiarazione che essi non adorarono Zeus. Nessuno mai disse che “gli ebrei” preservarono tutti i loro culti primitivi nel periodo post-esilico: la proposizione è l'espressione di una semplice incapacità a concepire la questione.
Quando, d'altra parte, il dottor Conybeare procede a notare la tesi che l'antico sacramento gesuano sarebbe sopravvissuto presumibilmente come un rito secreto, egli tratta la proposizione chiamandola “un espediente letterario”. Che sarebbe un termine mite per la sua esplicita asserzione (pag. 34) che io avrei affermato che “il libro canonico di Giosuè conteneva originariamente” la tradizione che Giosuè fosse il figlio di Miriam — una esplicita falsità. Il mio riferimento alle cancellazioni dal libro puntavano esplicitamente alle tesi di Winckler, uno studioso che il dottor Conybeare presume lui stesso di screditare con espressioni di disprezzo personale. Winckler non avanzò mai l'ipotesi riguardo a Miriam. [45]
Quanto alla sopravvivenza di molti “misteri” segreti tra gli ebrei, io potrei riferire il lettore al paragrafo in Pagan Christs su “Segrete Eucarestie Ebraiche” (pag. 168 seq.), e in particolare alla citazione, là menzionata, del tardo Professor Robertson Smith (che non è ancora incorso, io credo, nel disprezzo abbastanza indiscriminato del dottor Conybeare), secondo cui “le cause che produssero una rinascita di misteri obsoleti erano all'opera nello stesso periodo [dopo l'Esilio] tra tutti i semiti settentrionali”, e che “segnano la prima apparizione nella storia semitica della tendenza a fondare società religiose sulla base di associazione volontaria e iniziazione mistica”. All'aggettivo “prima” io non posso sottoscrivere, se non su una definizione speciale di “apparizione”.  Ma la proposizione di Robertson Smith fu fondata sulla prova documentaria; e quando egli scrive che “i riti oscuri descritti dai profeti hanno una importanza di gran lunga più grande di quanto è stato comunemente riconosciuto”, con l'aggiunta che “ovunque i vecchi Dèi nazionali si erano dimostrati impotenti a resistere agli dèi di Assiria e Babilonia”, stiamo ascoltando un grande studioso di cultura semitica, un antropologo, e un pensatore, non un “bambino capriccioso”, come il dottor Conybeare potrebbe caritatevolmente venir descritto, con parole che, secondo la sua maniera di polemica, egli applica a me.] 


Infine, noi abbiamo visto che un rito di “Gesù il Figlio”, altrimenti noto come la “Settimana del Figlio”, fu realmente specificato dai talmudisti del periodo della caduta del Tempio. Preso coll'elemento del nome Gesù Barabba, “Gesù il Figlio del Padre”, e la durata di cinque giorni del rituale del Finto-Re sacrificato, esso completa un corpo di prova ebraica della diffusione pre-cristiana del nome Gesù come un nome di culto di qualche tipo. È ora possibile vedere da subito la forza della tesi primaria del Professor W. B. Smith [46] che la frase τὰ περὶ τοῦ Ἰησοῦ, “le cose riguardanti il Gesù”, nei vangeli e negli Atti, [47] ci parla di un corpo di leggenda gesuana di qualche tipo precedente alla storia evangelica; e anche il significato del fatto che il racconto degli Atti rappresenta il nuovo apostolo mentre trova adoratori di Gesù, sebbene in piccoli numeri, ovunque andasse.
Supporre che questo potesse significare una propaganda di successo e di vasta portata da parte dei “Dodici” nel breve periodo inteso esser trascorso tra la Crocifissione e l'avvento di Paolo, equivale non semplicemente a prendere come Storia, o una sintesi di Storia, il miracolo della Pentecoste, ma ad ignorare anche il resto del racconto. Prima ci viene detto (8:1) che dopo il martirio di Stefano i Crististi “erano tutti sparsi per le regioni di Giudea e Samaria, tranne gli apostoli. È solo alla Samaria che Filippo va in quella fase, e le sue azioni sono mitiche sulla loro superficie. Tuttavia Saul alla sua conversione trova il “discepolo” Anania a Damasco. Poi Pietro “andò per tutte le parti” (9:32), raggiungendo Lidda, dove lui trova “santi”; e poi accade che gli apostoli e i fratelli che erano in Giudea udirono che anche i gentili avevano ricevuto la parola di Dio” (11:1). È dopo di questo che “quelli che erano stati dispersi dopo la persecuzione scoppiata al tempo di Stefano, erano arrivati fin nella Fenicia, a Cipro e ad Antiochia e non predicavano la parola a nessuno fuorché ai Giudei. Ma alcuni fra loro, cittadini di Cipro e di Cirene, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare anche ai Greci, [oppure ebrei greci] predicando il Signore Gesù” (11:19). Già vi è un'ecclesia ad Antiochia (13:1) con nulla che spieghi la sua esistenza.
 A questa fase si rappresenta che Saul e Barnaba predicano il Gesuismo abitualmente nelle sinagoghe ebraiche; e che solo dopo una “contraddizione” da ebrei gelosi ad Antiochia di Pisidia essi “si volgono ai gentili” (13:46), continuando, comunque, a visitare sinagoghe, finché l'ostilità ebraica diventa soverchiante. A Gerusalemme, nel frattempo, dopo tutta l'invettiva evangelica contro i farisei, vi sono trovati “alcuni della setta dei farisei che credevano”, e che si attengono fermamente alla circoncisione. Ben presto troviamo ad Efeso l'ebreo alessandrino Apollo, che “insegnava accuratamente le cose concernenti Gesù, conoscendo solo il battesimo di Giovanni, essendo stato “ammaestrato a voce nella via del Signore” (18:25),  ma dovette essere istruito “più accuratamente” da Priscilla e Aquila. Poi egli passa a Corinto. Paolo a sua volta (19) mostra ad Efeso, dove trova altri antichi Gesuisti, che quelli del battesimo di Giovanni, sebbene per implicazione ritenessero che “Gesù era il Cristo”, non avevano ricevuto “lo Spirito Santo”, che giungeva solo col battesimo di Gesù — il battesimo che solo il quarto vangelo presume (con contraddizioni), dato che i sinottici non conoscono di alcun battesimo da parte di Gesù o dei discepoli; e dato che solo Matteo e Marco assumono  che dopo la resurrezione anche lui lo prescrisse. In tutto questo il credente ipnotizzato non vede nessuna falsità. All'occhio della ragione vi è rivelato il processo di una primitiva fabbricazione del culto.
In qualunque direzione ci volgiamo, troviamo così negli stessi documenti gesuisti le tracce di un Gesuismo e Cristismo “pre-cristiani”. Ad Efeso, i credenti “erano circa dodici uomini in tutto” — il numero richiesto per il rito primitivo. La dichiarazione successiva (19:9-10) che dopo che Paolo aveva dibattuto quotidianamente per due anni ad Efeso  “tutti gli abitanti dell'Asia, Giudei e Greci, udirono la parola del Signore Gesù”, è tipica del metodo della pseudo-storia. O l'intero racconto è una finzione senza fondamento oppure ci furono sviluppi precedenti del culto di Gesù.
Si potrebbe sostenere, in effetti, che un'opera di manipolazione del genere come gli Atti non sia prova di alcunché, e che i suoi racconti che indicano una diffusione precedente del Gesuismo non sono da credersi più delle sue storie di miracoli. Ma per quanto fittizi siano i suoi resoconti di ogni certo personaggio, è certo che ci fu un culto; e tutti i critici  sono ora d'accordo che il libro è una redazione di materiale precedente — probabilmente degli Atti di Paolo, Atti di Pietro, Atti degli Apostoli, e così via. E laddove la finzione più vantaggiosa dal punto di vista della nascente chiesa “cattolica” sarebbe un resoconto degli apostoli mentre fanno convertiti dovunque, le storie di apostoli che trovano convertiti si deve ritenere che siano state imposte al redattore dal suo materiale. Dev'esserci anche la possibilità di sostenere una qualche realtà nella storia del culto, per la stessa ragione, che non c'era nulla da ricavare nell'invenzione di un dettaglio simile.  


§ 2. Prototipi

Siamo ancora affrontati dall'obiezione che qualsiasi possano dire gli Atti i vangeli nn danno alcun indizio di qualche precedente culto di Gesù. Ma quella è una posizione insostenibile per la scuola biografica se non mediante un appello temporaneo alla teoria dell'invenzione del mito. Come ha sottolineato il Professor W. B. Smith, i vangeli raffigurano esplicitamente che i discepoli guarirono i malati nel nome di Gesù in luoghi dove Gesù non era mai stato. Per quelli che credono nel soprannaturale, ciò è solamente un insieme di miracoli in più. Ma la scuola biografica, sebbene sia molto propensa ad accreditare a Gesù occulti “poteri guaritivi”, difficilmente può affermare una guarigione simile per mezzo di un nome magico, e non ha nessuna risorsa se non rifiutare ogni materiale del genere. [48]  Tuttavia perché gli evangelisti dovrebbero fabbricare un racconto simile se non in virtù della conoscenza che il nome di Gesù fu una cosa da evocare nei villaggi palestinesi?
È vero che la storia è raccontata pienamente solo a proposito della missione dei Settanta. In Matteo i Dodici sono “inviati” fuori ma né si recano e neppure ritornano, poiché il racconto continua con loro presenti. In Marco e Luca, i Dodici vanno e ritornano senza riportare alcunché, sebbene Marco dice che essi predicarono la conversione, esorcizzarono molti demoni, e guarirono un sacco di malati ungendoli di olio. Evidentemente la missione fu una distratta aggiunta al vangelo o ai vangeli più antichi: il terzo tenta di dargli qualche completezza. Sono solamente i Settanta a fare un rapporto; ed è solo di loro (Luca 10:1) che ci vien detto che dovevano recarsi in luoghi “dove egli stesso stava per recarsi”. Siccome l'episodio dei Settanta è scartato come mito in effetti perfino da molti che credono nel soprannaturale (i quali sentono che, se storico, l'episodio non poteva essere stato trascurato in Matteo e Marco), quelli della scuola biografica sono fin qui titolati a dire che per loro la documentazione non dimostra un Nome-Gesù diffuso in precedenza. Ma che idea allora essi associano all'invio dei Dodici, se non il tipo di idea che è associata coll'invio dei Settanta?
Il signor Loisy si sente “autorizzato a credere” (1) che Gesù in qualche maniera scelse dodici discepoli e li inviò a predicare il semplice “vangelo” che “il Regno di Dio era alle porte” — cioè, semplicemente daccapo il vangelo di Giovanni il Battista; e (2) che “sembra” che essi si recassero due a due nei villaggi galilei, e fossero “ben ricevuti: il loro monito fu udito: persone malate erano loro presentate per una guarigione, e ci furono cure.” Dire questo equivale a dire, se qualcosa, che per i primi cristiani il Nome di Gesù era ritenuto in possesso di un potere di guarigione prima della sua deificazione, e che esso fu un nome conosciuto.
Ma noi abbiamo terreni documentari più forti di quelli.
L'Apocalisse è riconosciuta ora in generale da critici avanzati  essere stata principalmente un documento ebraico, non uno cristiano. [49] Apparentemente i critici non realizzano che questo verdetto si porta con sè il riconoscimento che Gesù fu probabilmente un nome divino per qualche porzione degli ebrei prima della nascita del culto cristiano. I dodici apostoli entrano solo in un'interpolazione: [50] nel documento principale abbiamo i “ventiquattro anziani” di un culto più antico, [51] corrispondente ai ventiquattro Dèi Protettori di Babilonia. Anche se assegniamo il libro ad uno scrittore “cristiano” degli anni più antichi, proprio al principio della missione paolina, [52] noi siamo impegnati a collegare il culto durante quella fase alla dottrina del Logos, [53] con l'Alfa e l'Omega, e con la leggenda mitraica o babilonese dei Sette Spiriti. Della storia evangelica non c'è traccia al di là della menzione di un uccisione: d'altra parte il Dio-Bambino della storia del drago è totalmente non-cristiano, e deriva da Babilonia.
L'intero libro, in breve, solleva l'interrogativo se il culto di Gesù potrebbe non essere sopraggiunto in origine (come fece così tanto dell'ebraismo), o essere rafforzato, dal lato di Babilonia, fino al nome di Nazaret, dato che vi fu una Nasrah babilonese. Siccome la Samaria, la sede della speciale celebrazione di Giosuè, è nota storicamente per essere stata colonizzata dall'Assiria e da Babilonia, le possibilità sono ampie. È sufficiente che l'Apocalisse indica un forte elemento babilonese in qualcosa del vero materiale documentario più antico che abbiamo in connessione col culto gesuista nel Nuovo Testamento; e allo stesso tempo rende certo la diffusione pre-evangelica di un culto di Gesù tra ebrei dichiarati.
Tuttavia un altro indizio si nasconde nell'epistola di Giuda — o, come dovrebbe chiamarsi, Judas — un documento chiaramente ebraico nel colore letterario. Il signor Whittaker [54] fu il primo dei teorici del mito a porre adeguata enfasi sul fatto che la lettura “Gesù” (=Giosuè) nel verso 5, [55] da solo rende comprensibile il passo:
  Ora voglio ricordare a voi che avete da tempo conosciuto tutto questo, che Gesù [cioè, Giosuè, invece di “il Signore”] dopo aver tratto in salvo il popolo dal paese d'Egitto la seconda volta [56] [Mosè avendoli salvati la prima volta], fece in seguito perire quelli che non credettero. Egli ha pure custodito nelle tenebre e in catene eterne, per il gran giorno del giudizio, gli angeli che non conservarono la loro dignità e abbandonarono la loro dimora.

Il riferimento è certamente a Giosuè, che qui è quasi-deificato. Chiaramente, come osserva il signor Whittaker, “la prigionia di angeli erranti può solo attribuirsi ad un essere soprannaturale, e non ad un mero eroe nazionale.”
E, come nota anche il signor Whittaker, abbiamo ancora un altro chiaro indizio dal lato giudeo-cristiano che Giosuè nella teologia ebraica possedeva uno status celeste. Negli “Oracoli Sibillini” vi capita il passo: 


Allora di nuovo verrà dal cielo un uomo eccelso, lui che distese le mani sul legno fruttifero, il migliore tra gli ebrei, lui che una volta fermò il sole chiamandolo con belle parole e con labbra pure. [57]


“L'identificazione di Cristo con Giosuè”, osserva il citato traduttore ortodosso, “è un misto di leggenda (sic) ebraica e cristiana che è unico. Non c'è nessuna questione di simbolismo qui, in quanto Giosuè negli scritti cristiani è trattato come un tipo di Cristo, ma piuttosto la confusione è proprio come si sarebbe potuta fare da una persona ignorante che legge, Ebrei 4:8, “se Gesù avesse dato loro riposo”, e conclude che Gesù Cristo condusse gli ebrei in Canaan. L'autore, in effetti, si identifica con gli ebrei, da dove egli prega (verso 327ff.): 'Risparmia la Giudea, Padre onnipotente, affinché possiamo vedere i tuoi giudizi'; e se fosse credibile che l'intero libro fosse l'opera di un singolo autore, dovremmo considerare sincretica la sua religione, e in pieno accordo né con la legge né col vangelo. Ma il libro . . .  è di una natura composita. Uno scrittore potrebbe essere stato un cristiano; un altro attinge occasionalmente da fonti cristiane, ma non ha una fede viva in Cristo: al pari di molti dei suoi connazionali a questo tempo, egli sospende il suo giudizio, e invece di fare una decisione spende le sue energie nella denuncia dell'odiato potere di Roma, e in speculazioni riguardanti il futuro”.
Non importa se lo scrittore fosse o non fosse un fedele cristiano: ebreo per educazione o insegnamento lo fu certamente; e la sua identificazione di Gesù il Cristo con Giosuè è una dimostrazione in più che per parecchi ebrei Giosuè possedeva uno status quasi divino, come era adeguato ad un personaggio  che “fece fermare il sole”. Prese collettivamente, le dimostrazioni non si possono trascurare o eludere. Giosuè fu per gli ebrei del periodo ellenistico il vero fondatore del rito di circoncisione: [58] che equivale a dire, mitologicamente, che egli fu il Dio del rito. Ma ancora più forte è la prova che il suo nome perdurò come quello della vittima divina di un rito affine; ed è su quella base che vi fu fondato il rito che è per il cristianesimo ciò che la circoncisione era stata per l'ebraismo. La circoncisione è un rito di redenzione, l'offerta di una parte simbolica del corpo per “redimere” l'intero — un surrogato del sacrificio pasquale del primogenito, sviluppato in un rito teocratico razziale. È significativo che il Dio-Salvatore di questo rito diventa il Dio-Salvatore del rito offerto al posto di quello pasquale, con cui il sacrificio umano primordiale è re-istanziato in quello della divinità che una volta per tutte muore per tutti. È su queste radici di religione preistorica che crescono le religioni mondiali.


§ 3. Il Dramma Misterico

Che ci fosse un reale dramma misterico dietro la tragedia evangelica è rivelato dal documento stesso, che è in maniera evidente principalmente per nulla affatto un racconto, ma un dramma trascritto, con un minimo di delucidazione necessaria. Solo l'abitudine di leggere con riverenza acritica può celare ad uno studioso le drammatiche nudità e brevità della documentazione nei sinottici — una documentazione che nel quarto vangelo è trapiantata, senza alcun vero sviluppo, su un discorso prolungato che solo artificialmente suggerisce una realtà circostanziale. Il capitolo 13 figura come se vi fosse inserito nel mezzo di quel discorso; e il capitolo 14 procede come dalla fine del capitolo 12. Il documento originale non può aver avuto il racconto della tragedia in questa forma. Al termine del capitolo 14 l'espressione “Alzatevi, andiamo via di qui” è un sottile artificio per suggerire un'azione dove non c'è nessuna. Solo al capitolo 18 l'azione è riesumata; ed è altrettanto spoglia e formale come nei sinottici. Parlando in generale, l'azione è qualcosa di sopraggiunto. Un discorso lungo è stato avvolto attorno al primo paragrafo, ma senza alterare la sua natura compressa. I sinottici non sanno nulla dei discorsi giovannei: il documento giovanneo non sa di un episodio storico più di quanto ne sanno i sinottici: può solo inventare monologhi.
Leggendo il resoconto sinottico, troviamo una serie di scene separate, con la più semplice possibile connessione e introduzione esplicativa. Il tradimento di Giuda, in sé stesso un mito, [59] è annunciato in anticipo in tre sentenze, senza alcun segno di riflessione sull'assenza di significato della situazione ipotizzata. Un episodio mistico-mitico di un messaggio dal Maestro ad uno che deve preparare il pasto pasquale subentra successivamente. In Matteo il messaggio è ad “certo uomo” — non descritto: in Marco, un uomo che trasporta un brocca d'acqua deve essere visto e seguito, e “là dovunque entrerà” il messaggio si deve consegnare al “padrone della casa”, e la casa apparirà pronta. Leggere una biografia in questo, oppure attribuire un'attendibilità “primitiva” al racconto marciano, equivale a rigettare un'analisi critica.
Ma la Cena stessa è presentata con lo stesso effetto cerimoniale; l'intero contenuto è la menzione del tradimento e il significato dogmatico del rituale. In Marco, l'intero episodio della Cena occupa otto frasi: in Matteo, dove Giuda pone la sua domanda e ottiene la sua risposta, dieci. Dopo il canto di un inno, la scena cambia istantaneamente al Monte degli Ulivi. Nessuna ragione è assegnata all'uscita nella notte: è preso per garantito che l'Essere Divino sta recandosi alla sua morte, di sua propria volontà e previsione. O noi crediamo a questo, rendendolo un Dio, oppure riconosciamo un mito. Una biografia non può essere. E un dramma lo è chiaramente. 
Sul Monte, c'è un altro breve dialogo, che coinvolge Pietro e gli altri discepoli — un presentimento totalmente ostile. Di nuovo la scena cambia al Getsemani, dove i tre discepoli selezionati con cui Gesù si trattiene in realtà dormono mentre egli pronuncia la preghiera per terra. Non c'era quindi nessuno ad ascoltarla. Ogni teoria biografica che è interessata a rispettare una verosimiglianza deve riconoscere qui qualcos'altro che un racconto, e postulare presumibilmente un'invenzione. Ma perché un'invenzione dovrebbe assumere questa forma peculiare? Se lo scopo fosse accusare i discepoli — ed loro certamente sono accusati — non è un espediente incredibilmente rozzo raccontare del loro sonno per tutta la preghiera e la sua ripetizione, esponendosi all'obiezione: “Tu riporti le parole della preghiera: da chi le ricavasti se non da quei discepoli, che devono averle udite?” Ma se supponiamo che la scena  fosse presentata dapprima drammaticamente, nessuna perplessità o contro-senso ne consegue. L'accusa è efficace; l'episodio è visto; e nessuno si preoccupa, in presenza di un dramma, di chiedersi come si venne a sapere che certe parole siano state pronunciate da qualche personaggio. È la riduzione ad una forma narrativa che tradisce la fonte drammatica. E quando troviamo sia in Matteo che in Marco, che chiaramente incarnano lo stesso documento originale, questa sequenza:
 Ritornato li trovò addormentati . . . e non sapevano che cosa rispondergli [niente è stato detto]. Venne la terza volta e disse loro: «Dormite ormai e riposatevi! Basta, è venuta l'ora: ecco, il Figlio dell'uomo viene consegnato . . . Alzatevi . . .,

il dilemma documentario, che la scuola biografica vanamente tenta di risolvere, è risolto di colpo quando realizziamo che nella trascrizione due discorsi sono stati combinati accidentalmente. Il dramma dev'esser andato così:
 I discepoli ancora addormentati. 
Entra Gesù. 
Gesù: Dormite ormai e riposatevi. [Esce.] 
Entra Gesù. (I discepoli ancora addormentati.) 
Gesù: Basta, è venuta l'ora, ecc.

Chi trascrisse, omettendo un esce ed un entra, ha semplicemente eseguito due discorsi assieme; e i copisti del vangelo hanno seguito fedelmente la loro copia, ponendo “non sapevano che cosa rispondergli” nel posto sbagliato. In un racconto originale la combinazione non sarebbe potuta accadere. Nella trascrizione della copia di un dramma sarebbe potuta facilmente accadere. Troviamo esempi nella stampa delle tragedie di Shakespeare e di altri antichi drammaturghi.


[Un avversario della teoria del dramma misterico, non facendo alcun tentativo di confutazione della soluzione di sopra, nega che si possa applicare al processo notturno di fronte ai sacerdoti, anziani, e scribi. Di questo processo il signor Loisy riconosce l'impossibilità: affermando che, sans doute, la pretesa ricerca di testimoni di notte non ebbe mai luogo. Ma, dice l'obiettore: [60]

(1) Potrebbe essere una Storia incredibile; ma è un dramma impossibile. Io sfido il signor Robertson a dire come avrebbe potuto essere rappresentata sulla scena, o perché avrebbe mai dovuto avere un posto in un dramma. Ed egli sta cercando prove del dramma. 


(2) L'episodio esiste solo nella fantasia del signor Robertson. La frase greca in Marco 14:55 è la frase regolare per una ricerca di prove, e non implica o suggerisce alcun ricerca di testimoni per tutta Gerusalemme.

Noi qui abbiamo tre proposizioni:

1.
La ricerca a mezzanotte di testimoni è impossibile in un dramma.


2. È impossibile offrire una ragione del perché essa dovrebbe essere stata posta in un dramma.


3.
Il documento non dice che essa accadde.


La prima è annullata di colpo tramite la breve drammatizzazione della presunta procedura:
Sacerdote (o un altro ufficiale, ad ufficiali. Andate e portate i testimoni per accusare questo individuo. [Exeunt gli ufficiali. Il Sacerdote si consulta coi suoi colleghi. 
Entrano gli Ufficiali con un testimone. Exeunt gli Ufficiali. 
Un testimone è esaminato: le prove sono confuse. 
Entrano gli Ufficiali con un altro testimone. Exeunt.  
Un testimone è esaminato: le prove contraddicono quelle già date. 
(E così con una serie di testimoni.) 
Entrano gli Ufficiali con due testimoni in più. 
I testimoni, esaminati, confermano, con alcune contraddizioni nei  particolari, “Quest'uomo disse”ecc. 
Sommo Sacerdote (levandosi). Non rispondi nulla? ecc.

Dov'è la difficoltà? È precisamente in un dramma, e solo in un dramma, che il racconto impossibile può passare per possibile. L'azione sulla scena è sempre incastrata: il tempo è sempre più o meno ignorato, perché l'azione selezionata deve procedere continuamente. Di nuovo e di nuovo in Shakespeare (o piuttosto in pseudo-Shakespeare) troviamo scene irrilevanti e futili interposte per creare la parvenza di un intervallo temporale; ma in Otello e Misura per misura, per non nominare altre tragedie, l'azione è incastrata in maniera impossibile. La spiegazione è che nella psicologia del teatro il tempo è ignorato, salvo dai più critici. Il pubblico semplicione di devoti, che testimoniavano il dramma misterico cristista non avrebbero mai domandato “Come fecero a ricercare quei testimoni in Gerusalemme a mezzanotte?” Solvitur ambulando, così per dire: essi videro il processo. È quando la tragedia viene trasmutata a morta narrativa, dove un numero di domande e risposte sono ridotte ad un po' di spoglie dichiarazioni, che l'impossibilità si annulla.
Il nostro critico ci sfida a spiegare come un processo simile venne ad essere inscenato in un dramma. È difficile vedere perché egli è perplesso. Lo scopo generale dell'intera tragedia è mostrare Gesù come la vittima, innanzitutto, dei sacerdoti, anziani, e scribi — l'ordine ecclesiastico ebraico, la cui ostilità a Gesù è un dato costante dei vangeli. In questa fase il dramma misterico è diventato una rappresentazione cristiano-gentile, in cui anche i discepoli ebrei recitano una povera parte, mentre la classe ufficiale è la molla della tragedia. Come potevano i sacerdoti essere accusati più efficacemente se non esibendoli mentre producono chiaramente false prove per accusare Gesù? Lord Tennyson, nel nostro tempo, pose un libero pensatore cattivo in una cattiva tragedia per screditare il libero pensiero. Ed egli aveva precedenti non-canonici come pure canonici. Gli apocrifi “Atti di Pilato” sembrano seguire un dramma in cui parecchi grandi episodi evangelici furono drammatizzati al pari del processo. [61]
Quanto alla pretesa del critico che una ricerca a mezzanotte di testimoni non è postulata nel racconto, è di nuovo impossibile seguire il suo ragionamento. Se l'espressione ἐζήτουν  . . .  μαρτυρίαν  di Marco significa “cercavano una testimonianza”, l'espressione ἐζήτουν  . . .  ψευδομαρτυρίαν  di Matteo significa “cercavano una falsa testimonianza”. La teoria di un “vaglio” è impossibile. Io ho avuto la curiosità di esaminare dieci traduzioni — in latino, tedesco, greco moderno, italiano, francese, e inglese, senza trovare un traduttore che si sia mai sognato ciò. Tutti concordano con la corrente traduzione inglese, che significa “cercavano [falsa] testimonianza”, perché nessun'altra traduzione è possibile. Il documento procede, in Marco:
. . . e non la [cioè la prova richiesta] trovavano. Poiché molti deponevano il falso contro di lui; ma le testimonianze non erano concordi. E si levarono in piedi alcuni, e testimoniarono falsamente contro di lui . . . Ma neppur così la loro testimonianza era concorde. Allora il sommo sacerdote si levò in piedi. . .

Secondo la nuova teoria, l'accusa “cercava una prova”, la quale “si levò in piedi”, come fece il sommo sacerdote.
Difendendo la sua tesi, l'esegeta sostiene [62] che la “prova” non fu scritta ma orale; cioè per dire, le autorità avevano collezionato testimoni durante il giorno e li avevano poi trattenuti fino a mezzanotte o più tardi senza accertare che prova essi fossero capaci di offrire. I racconti né dicono né suggeriscono qualcosa del genere; laddove se questo fosse stato supposto essere il fatto sarebbe stata la cosa naturale dire così.
Ma la cosa presunta è innaturale. Da una parte ci è chiesto di credere che le autorità avessero collezionato prima dell'alba un numero di testimoni, quando essi non potevano avere alcuna certezza di fare l'arresto; d'altra parte noi dobbiamo credere che con tutta questa straordinaria pianificazione essi non avessero preso la normale precauzione di accertare che cosa potessero dire i testimoni. Nel dramma trascritto come si presenta, le autorità sono rappresentate come infami; nell'interpretazione di fronte a noi, fabbricata per salvare la fiducia nel racconto, esse sono rappresentate come infantilmente sciocche. Il racconto come l'abbiamo sfida i suoi difensori. Ci dice che i testimoni furono fatti venire; e solo in un dramma, in cui sono ignorate le condizioni temporali, si sarebbe potuto far ricorso ad una simile finzione.]


La storia è ugualmente drammatica al termine. Ogni cosa è scenica, isolata, episodica: è lasciato a Luca (che elabora la scena della Cena; dà un comando positivo di Gesù per la celebrazione futura dove i documenti precedenti mostrano semplicemente come fu praticato il rito; pone il rinnegamento di Pietro prima del processo; e omette l'intera procedura dei testimoni) interporre l'episodio delle figlie di Gerusalemme tra il processo romano e la crocifissione; e perfino quello è parenetico e drammatico, come lo sono la sepoltura e la ricerca; dopodiché, in Marco, il vangelo termina bruscamente. Il resto è documentazione supplementaria. Quanto molto di ciò potrebbe essere stato drammatizzato, è impossibile dirlo. Che ci fosse stata un'evoluzione nel dramma sacro è implicata nella nostra concezione di esso. Esso cominciò col semplice Sacramento, ad un periodo remoto, quando il Sacramento stesso si era evoluto da una forma primitiva e selvaggia ad una forma simbolica, quando il Dio era probabilmente prima rappresentato come nei riti affini, [63] dal suo prete sacrificale; e più tardi dalla vittima. [64] È dopo che il culto primitivo e localizzato cerca lo status di una religione mondiale che il rituale si sviluppa in una quasi-Storia; e noi possiamo vedervi influenze conflittuali. Uno scrittore fa sì che Gesù sia beffato e deriso al processo ebraico, come se fosse per controbilanciare la derisione nel processo romano; proprio come Luca interpone un terzo processo di fronte ad Erode, per assicurarsi che la colpa doveva ultimamente ricadere sull'autorità ebraica. Nell'azione come nella dottrina, l'influenza gentile infine predomina.
Il punto importante da notare nell'evoluzione documentaria è che il dramma misterico rimase una rappresentazione segreta per qualche tempo dopo che furono correnti vangeli scritti. Per cominciare, tutti i drammi misterici dell'età erano allo stesso livello di segretezza. Ciò che avviene infine nel culto gesuista è una semplice aggiunta del dramma sacro ai vangeli. Non per nulla accadde che la scuola di B. Weiss, cercando di estrapolare un “Vangelo Primitivo” dai sinottici, lo fece terminare prima della Tragedia. Questo fu ciò che erano destinati a fare colle loro verifiche documentarie; e l'obiezione comune secondo cui questo finale è davvero improbabile — una difficoltà dichiarata da Weiss e cercata debolmente di esser risolta da alcuni della scuola — è vista essere alla luce della teoria mitica una difficoltà solamente per quelli che assumono non semplicemente la storicità di un Gesù ma la storicità dell'intera storia della tragedia fino alla resurrezione. Una volta che si realizza che quella storia è uno sviluppo drammatico di un mito originariamente semplice di una morte sacrificale, scompare la difficoltà documentaria.


[Non dovrebbe essere necessario sottolineare l'assoluta falsità dell'affermazione del dottor Conybeare (Historical Christ, pag. 49) che nella mia teoria “i vangeli cristiani . . . sono una trascrizione del dramma rituale eseguito annualmente, proprio come i Racconti da SHAKESPEARE di Lamb sono trascrizioni delle tragedie di Shakespeare”. In Pagan Christs (pag. 201) si sostiene esplicitamente che “il Dramma Sacro è un'aggiunta ad un documento precedentemente esistente. . . . Chi lo trascrisse è stato capace di aggiungere al vangelo precedente il materiale del dramma sacro; e là egli si ferma fedelmente”. E si sottolinea ripetutamente che la trascrizione è stata fatta colla minima necessaria connessione letteraria. Così il parallelo coi Racconti di Lamb è falso anche per quanto riguarda il materiale ipotizzato costituire il dramma; mentre l'asserzione che la totalità del vangelo è rappresentato come una trascrizione di un dramma è pura fabbricazione. E questa mera falsificazione della teoria passa per i critici tradizionalisti per una confutazione.]

Qualche resoconto, in effetti, i Gesuisti devono averlo dato della  morte del loro Dio o Dio-Figlio quando raggiunsero la fase di una propaganda sistematica; e questa fu in tutta probabilità una semplice dichiarazione come quella che abbiamo nelle epistole, che egli fu sottoposto ad una morte umiliante e risorse di nuovo. È davvero probabile che resoconti della maniera della morte variarono nei primi resoconti scritti, come certamente sarebbero variati nelle tradizioni o rituali correnti in vari punti; e potremo concedere ai critici documentari che varie versioni potrebbero essersi associate alle prime forme o fonti di Marco e Matteo. Una dichiarazione generale che Gesù fu il “Figlio del Padre”, e che egli era stato messo a morte con ignominia, avrebbe provocato, come è stato sostenuto sopra, l'obiezione che “Gesù Barabba” non era di certo nessun personaggio divino. La storia di Barabba, allora, rimuovendo quell'obiezione, è uno sviluppo relativamente posteriore, di cui, coerentemente, non troviamo una singola traccia negli Atti o nelle epistole. Ma in modo simile la Cena non è descritta negli Atti o nelle epistole a parte il resoconto chiaramente interpolato in Prima Corinzi. E al principio la Cena sarebbe stata una materia enfaticamente segreta, non da mettere per iscritto.
Qualunque conclusione, quindi, è stata data al precedente vangelo o vangeli, esso non lo includeva. Altrettanto poco avrebbe presentato dell'Agonia, oppure dei processi davanti al Sinedrio e davanti a Pilato, gettando la colpa della tragedia sugli ebrei, o degli episodi che denigrano gli apostoli. Giuda è in tutta probabilità principalmente una figura di una forma gentile del dramma, essendo proprio un Judaios, un ebreo, [65] creato da un malanimo gentile o samaritano. Ciò che plausibilmente accadde fu uno sviluppo drammatico, da mani gentili, di un dramma misterico al principio semplice, che consisteva della Cena, della morte, e della resurrezione, nel dramma come ora appare transcritto nei sinottici, con il Tradimento, l'Agonia, il Rinnegamento, i Processi, e i tocchi drammatici nella scena della crocifissione. 
La scuola di Weiss, allora, sulla nostra teoria, raggiunse tramite metodi relativamente coerenti di critica documentaria una conclusione relativamente profonda. Le forme più antiche del vangelo di certo non avevano la conclusione attuale; e qualunque conclusione semplice che avevano era destinata a venir soppiantata quando venne trascritto il completo dramma misterico — la stessa trascrizione essendo una ragione della loro scomparsa. Ad un certo punto, probabilmente a causa della reazione cristiana contro ogni procedura pagana, il dramma che nella sua forma presente deve sempre essere stato speciale ad un villaggio o villaggi, fu rimosso, e sebbene la tendenza fu di tenere l'Eucarestia un rito avanzato per iniziati, e di trattenerla dai catecumeni, [66] la riduzione della Tragedia ad una forma narrativa diventò una necessità per scopi di propaganda. Senza di essa, i vangeli erano inadeguati ai loro scopi; ed essa fornì la confutazione necessaria dell'accusa che Gesù fu semplicemente una vittima nel rito di Barabba.
Detto questo, noi dobbiamo ancora affrontare il problema principale dell'evoluzione del culto di Gesù in una religione mondiale in cui il Dio Sacrificato al Dio diventa anche il Messia degli ebrei e il Maestro di coloro che credono in lui. E il rintracciamento di quella evoluzione deve ovviamente essere difficoltoso. Il processo di estrarre vera Storia da falsa Storia è sempre così; e dove la Storia fabbricata e la sua contingente letteratura sono i documenti principali, noi possiamo nella natura delle cose raggiungere solo concezioni generali. Ma le concezioni generali sono ricavabili; e noi dobbiamo inquadrarle nel modo più scientifico possibile.

NOTE

[11 Corinzi 10:21. Io dico “Paolo” come dico “Matteo” o “Giovanni”, per amor di brevità, poiché non accetto del tutto le attribuzioni dei testi. La tesi di Van Manen che tutte le epistole di “Paolo” sono pseudo-epigrafiche è probabilmente davvero vicina alla verità.

[2La preservazione di “diavoli” nella Versione Riveduta, con “Greco demoni” solo nel margine, è un abuso. Per i greci, c'erano demoni buoni proprio come demoni cattivi; e “demone” non è il vero equivalente di “daimon.”

[3] C.M. 179, nota.

[4Confronta Athenaeus, 6, 26-27; Schömann, Griechische Alterthümer, 3te Aufl. 2, 418-419; Foucart, Des associations religieuses, 50-52; Miss Harrison, Themis, pag. 154; Menzies, History of Religion, pag. 292.

[5] P.C. 194 seq., 306; C.M. 381, nota.

[6G.B. 9, 374 seq.

[7Sui punti enumerati sotto i titoli 4-7 si veda Schürer, Jewish People in the Time of Christ, traduzione inglese, Div. 2, 1, 11-36. Riguardo alla mia specificazione precedente di queste influenze (P.C. 204), il dottor Conybeare presume (pag. 49) che io “suggerisco” che il dramma misterico gesuista fu eseguito “nei templi (sic) costruiti da Erode a Damasco e a Gerico, e nei teatri del villaggio greco di Gadara”. Questo non si può considerare come una delle allucinazioni del dottor Conybeare; è una delle sue falsificazioni casuali. Nessun “suggerimento” del genere fu mai dato. Il dramma misterico è sempre rappresentato da me come eseguito segretamente.

[8Confronta Ezra e Neemia.

[9P.C. 168 seq.

[10Schürer, come citato, 3, 225.

[11Così il dottor Conybeare, costantemente. Sulla sua vista, gli esseni non possono mai essere esistiti.

[12Schürer, come citato, 1, 3-4.

[13Confronta Gunkel, Zum Verständnis des N.T., come citato, pag. 20.

[14I documentatori più recenti in questi casi sostituirono un angelo; ma quella non era certamente l'idea primitiva. Si veda C.M. 112; Etheridge, Targums on the Pentateuch, 1, 1862, pag. 5.

[15Geremia 11:13.

[16Ezechiele 8:14.

[17] P.C. 162.

[18P.C. 321.

[19Ad esempio, i resoconti biblici dell'adozione di Dèi cananei dagli israeliti che sposarono donne cananee.

[20Ad esempio, l'adozione speciale di divinità greche dai romani, a parte la pratica politica di arruolare divinità degli Stati conquistati nel Pantheon romano.

[21S.H.F. 1, 44-45.

[22] C.M. 36, e nota.

[23Si vedano parecchi dettagli in C.M. pag. 52-57.

[24Riferimenti in P.C. 51 nota 6. Il dottor Conybeare (pag. 29, 30) affronta queste conclusioni di studiosi (Stade, Winckler, Sayce, ecc.) escludendole dalla sua lista di “seri studiosi semitici”.

[25Esodo 18:12.

[26Genesi 14:18; Salmo 110:4.

[27Ebrei 7:3. Confronta 5:6, 10; 7:11, 17.

[28P.G. 179.

[29 E.S. 115; Hatch, Hibbert Lectures, pag. 291 seq.

[30O Jehoshua — il nome ebraico di cui Iesous è l'equivalente greco.

[31P.C. 163.

[32Il miracolo di ritardare il tramonto del sole in Omero (Iliade, 18:239) è assegnato ad Era, la Dèa principale.

[33P.C. 220.

[34Giosuè 5:13-15 è chiaramente posteriore. Nel capitolo 24 l'angelo non è menzionato.

[35P.C. 314, 315.

[36Etheridge, The Targums on the Pentateuch, 1862, pag. 5.

[37I samaritani hanno un testo posteriore che gli attribuisce molte imprese non presentate nei documenti ebraici. Riguardo a questo il Professor Drews scrisse (Mito di Cristo, pag. 57, nota): “Il libro samaritano di Giosuè (Chronicon Samaritanum, pubblicato nel 1848) fu scritto in arabo durante il tredicesimo secolo in Egitto, ed è basato su un antico lavoro compilato nel terzo secolo A.E.C.” Il dottor Conybeare (Historical Christ, pag. 33) dichiara che l'ultima dichiarazione è “fondata su pura ignoranza”, aggiungendo: “E l'Encyclopaedia Biblica dichiara che esso è una produzione medievale di nessun valore per alcuno se non per lo studioso della setta samaritana sotto il dominio musulmano.” Sia osservato che (1) Dr. Drews aveva veramente descritto il libro come una produzione medievale; (2) che il suo intero punto era che esso fosse leggendario, non storico; e (3) che l'articolo dell'Encyclopaedia Biblica, che espone entrambe le proposizioni, non utilizza alcun  linguaggio simile come gli attribuisce il dottor Conybeare dopo la parola “produzione”, e non dice nulla di sorta sull'ipotesi che il libro sia fondato su una compilazione del terzo secolo A.E.C.  Quell'ipotesi, formulata da ebraisti, è una su cui il dottor Conybeare non ha il minimo diritto ad una opinione. Il dottor A. E. Cowley, nell'Encyc. Brit., descrive il libro come derivato da “fonti di varie date”. Essendo ciò così, il dottor Conybeare, che come al solito ha totalmente fallito di comprendere ciò che sta attaccando, non ha mai sfiorato la posizione, ovvero che le leggende di Giosuè fiorirono così tanto tra i samaritani da esser preservate in un libro medievale — a meno che egli non intenda presumere che le leggende siano di invenzione medievale, una proposizione che, invero, avrebbe perfettamente consumato la sua escursione.

[38Yeho-shua = “Yah [o Yeho] è salvezza.”

[39Confronta Giosuè 5:2-10.

[40Canon Charles, The Book of Jubilees, 1902, pag. 9, nota 29.

[41Questa tesi fu avanzata sostanzialmente da me nella prima edizione di Pagan Christs (1903). Il dottor Conybeare, che appare incapace di accuratezza in queste materie, attribuisce la teoria di Giosuè (Historical Christ, pag. 32, 35) e l'ipotesi speciale che Giosuè fosse miticamente il figlio di Miriam, al Professor Smith, che mai le affrontò entrambe. Il suo pretesto è un passo nella prefazione alla seconda edizione di Christianity and Mythology, che egli perverte a dispetto del contesto. Su questa base egli procede a denunciare unn'“imitazione”. La calunnia nella polemica del dottor Conybeare è al solito quindi indipendente dai fatti.

[42Historical Christ, pag. 17.

[43] Id. pag. 8-9.

[44E neppure è avanzata dal Professor Drews, che cita semplicemente (sopra, pag. 41, nota) da Niemojewski, senza approvarla, una teoria “astrale” di Gesù e Pilato. Il dottor Conybeare sembra incapace di fornire un vero resoconto di qualsiasi cosa a cui è avverso, se in politica o in religione. Altrove Drews parla di elementi astrali nella storia di Cristo; ma così fanno quelli aderenti della scuola biografica che riconoscono la fonte zodiacale del mito della Donna col Bambino nell'Apocalisse.

[45Ad un altro punto (pag. 87, nota), il dottor Conybeare cita trionfalmente Winckler quando dice che “l'umanizzazione del mito di Giosuè fu completa quando il libro di Giosuè fu compilato”. Questo garantisce l'intero caso. “Umanizzazione” ci dice di una divinità precedente; e proprio come Achille rimase un Dio dopo essere presentato nell'Iliade, Giosuè fu “umano” solo per quelli la cui sola tradizione riguardante lui era quella dell'Esateuco.

[46Der vorchristliche Jesus, pag. 1 seq.

[47Marco 5:27; Luca 24:19; Atti 18:25; 28:31.

[48Forse si dovrebbe fare un'eccezione per il dottor Conybeare, che crede che Gesù sia stato un “esorcista di successo” (M.M.M. pag. 142). Questo scrittore non vede nessuna difficoltà nel fatto che in Marco Gesù non è un esorcista a Nazaret, e vi rifiuta di fare meraviglie.


[49P.C. 164.


[50Apocalisse 21:14.


[514:4.


[52Confronta 2:9; 3:9.

[533:14, 15; 19:13.

[54Origins of Christianity, edizione 1914, pag. 27.

[55Trovato nei codici Alessandrino e Vaticano, e preferito da Lachmann, Tregelles, e Westcott ed Hort.

[56τὸ δεύτερον. La Versione Riveduta pone “in seguito” nel testo, con “Greco la seconda volta” nel margine. Anche il signor Whittaker legge “in seguito”, dopo “la seconda volta” — apparentemente per una svista.

[57Deane, Pseudepigrapha, 1891, pag. 312.

[58Giosuè 24:31, nella Septuaginta.

[59C.M. 352.

[60Articolo di H. G. Wood in The Cambridge Magazine, Gennaio 20, 1917, pag. 216.

[61P.C. 202.

[62 Cambridge Magazine, Febbraio 3, 1917, pag. 289.

[63] G.B. 5, 45 seq., 223; P.C. 364, 373-4.


[64P.C. 112 seq., 131 seq., 140, 142, 144, 352, 362-364, 368.

[65] C.M. 354. Io trovo che Volkmar (là citato) aveva avanzato in una delle sue opere posteriori la teoria che il traditore, che egli riteneva essere un'invenzione di posteriori paolinisti, sarebbe stato nominato Giuda a simboleggiare l'ebraismo. La teoria mitica non è impegnata necessariamente alla totalità di questa tesi, ma le obiezioni di Brandt (Die evang. Gesch. pag. 15-18) non mi sembrano valide. Egli ragiona sempre sulla presupposizione di una storicità centrale, e argomenta come se Marco non potesse essere stato interpolato nei punti dove si nomina Giuda.


[66C.M. 208, note.

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