lunedì 26 maggio 2014

Dell'inconfondibile Canto dell'Odissea dietro il “Gesù” fabbricato da Marco

Tutti gli studiosi riconoscono da tempo oramai il profondo debito di Marco a storie e detti dell'Antico Testamento. Pochi sanno, comunque, che i poemi di Omero costituivano fondamentali manuali d'apprendimento per chiunque avesse voluto apprendere a scrivere in greco nell'Antichità, col risultato che le storie dell'Iliade e dell'Odissea erano le prime candidate a venire adattate e imitate in mille rivoli diversi dagli autori antichi, proprio a causa della loro vasta notorietà.
Intendo allora sintetizzare i principali punti del libro di Dennis MacDonald  'The Homeric Epics and the Gospel of Mark' che dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio come il Gesù di Marco è un clone letterario degli eroi omerici come Odisseo, Achille ed Ettore.

Questo significa che le storie su Gesù non sono vere?
Secondo MacDonald, Marco fece in modo che Gesù non solo emulasse, ma sorpassasse gli eroi omerici per sofferenze patite, nobiltà, compassione e poteri dimostrati.



E conclude:
La 'verità del vangelo' non è un deposito di dati storicamente affidabili riguardanti Gesù ma un processo di generazione di miti più umani, etici, meravigliosi e ispiratori. (pag. 190)

Una volta che rimuovo da Marco tutto ciò che è copiato da Omero e dall'Antico Testamento, quel che rimane è sufficiente per passare come ''Storia ricordata''?
A maggior ragione quando è parecchio difficile, quasi impossibile, riuscire a imbrigliare crudi episodi reali dell'esistenza di un ipotetico uomo veicolandoli ''implicitamente'' negli schemi complicati ed elaboratissimi di un'emulazione letteraria di un personaggio precedente quale Odisseo (per farne un antieroe) avendo cura nel contempo di alludere anche ad una intera letteratura sacra precedente con tanto di doppio significato allegorico da far passare sottobanco, senza dimenticare il più recente messaggio teologico da veicolare in aggiunta? Forse il lettore comincerà a rimpiangere il rasoio di Occam, e a sfrondare le ipotesi inutili, tenendo conto, per riconoscere quali sono, dell'imprescindibile verità: Marco si basò per davvero -- e molto -- sull'Odissea di Omero. Che cosa può avere mai a che fare un Gesù storico, anche solo persino la sua ''ipsissima vox'', se non le sue ipsissima verba, con Odisseo? ZERO ASSOLUTO.


I criteri usati da MacDonald per ritenere probabile la dipendenza di Marco su Omero sono i seguenti:

Accessibilità all'autore del testo potenziale copiato.
Analogia con copiature del medesimo testo fatte da altri autori (la tendenza con la quale quel testo veniva copiato e riadattato sempre sui soliti temi).
Densità dei numeri delle somiglianze tra i testi.
Stesso ordine dei paralleli.
Distintività di speciali aspetti delle storie.
Comprensibilità, la capacità del testo originale di gettar luce su alcuni dettagli del testo clone (ad esempio, perchè il Segreto Messianico in Marco?)


I folli apologeti che criticano i risultati della ricerca di MacDonald dovrebbero, più che nascondersi goffamente dietro il loro dito che punta alle differenze tra Omero e Marco, dimostrare piuttosto che i criteri di cui sopra sono o non corretti oppure non sono stati applicati correttamente.

I poemi di Omero sono poesie di altissima qualità artistica. Il vangelo di Marco appare rozzo, quasi crudo nel suo stile colloquiale. Questa è la ragione principale che spiega perchè la dipendenza di Marco su Omero non è stata notata e fu velocemente persa di vista.


L'Odissea e Marco condividono la stessa trama principale:

Nell'Odissea:


- Un re ritorna dopo una lunga assenza per trovare che:

(a) la sua eredità è usurpata da nobili cattivi
(b) che congiureranno per uccidere suo figlio


Il re tiene nascosta la sua identità fino alla venuta del momento propizio, e ai suoi intimi che lo riconoscono intima di mantenere il segreto.

Il re deve soffrire parecchio prima di riprendersi il suo regno, in particolare deve:

a) soffrire per opera di divinità ostili,
b) peregrinare a lungo,
c) discendere nell'Ade e risalirvi,
d) perdere tutti i suoi compagni di viaggio.

In Marco:

- Un re dopo una lunga assenza invia suo figlio per realizzare che:

(a) la sua casa è usurpata da regnanti cattivi
(b) che congiureranno per ucciderlo


Il re tiene nascosta la sua identità fino alla venuta del momento propizio, e ai pochi che lo riconoscono intima di mantenere il segreto.

Il re deve soffrire parecchio prima di riprendersi il suo regno, in particolare deve:

a) soffrire per opera dei demoni,
b) peregrinare a lungo,
c) discendere nell'Ade e risalirvi
d) perdere tutti i suoi compagni di viaggio (si veda il triplice rinnegamento di Pietro)

Si noti che Gesù soffre più di Odisseo perchè muore alla fine, a differenza del secondo.

L'Odissea e Marco hanno in comune lo stesso incipit.



L'Odissea si apre con una preghiera alle Muse per chiedere la giusta ispirazione, mentre Marco con una divina profezia trovata nelle Scritture che preannuncia Gesù.

L’uomo, cantami, dea, l'eroe del lungo viaggio, colui che errò per tanto tempo dopo che distrusse la città sacra di Ilio. Vide molti paesi, conobbe molti uomini, soffrì molti dolori, nell'animo, sul mare, lottando per salvare la vita a sé, il ritorno ai suoi compagni. Desiderava salvarli, e non riuscì; per la loro follia morirono, gli stolti, che divorarono i buoi sacri del Sole: e Iperione li privò del ritorno.
Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.  Come sta scritto nel profeta Isaia: 
Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: 

egli preparerà la tua via. 
Voce di uno che grida nel deserto: 
Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri.
(Marco 1:1-4)



L'Odissea descrive Atena che da Zeus è inviata da Telemaco per dirgli cosa fare, e dunque ritorna in cielo sottoforma di uccello, laddove Marco descrive lo Spirito Santo scendere come colomba da Dio Padre sul Figlio Gesù. In entrambi i casi solo l'eroe può ascoltare la voce divina.

Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
(Marco 1:9-13)



A lui rispose la dea dagli occhi azzurri:
«Non trattenermi ancora, ho fretta di partire. Il dono che il cuore ti spingeva a darmi, me lo darai al ritorno, perchè io lo porti nella mia casa; scegli un dono bellissimo, ne avrai in cambio uno bello altrettanto».
Disse così e se ne andò, la dea dagli occhi azzurri, sparì veloce come un uccello. Ma nel cuore gli infuse forza e audacia e il ricordo del padre fu per lui più vivo di prima. Pensando fra di sé egli stupiva in cuor suo: aveva capito che si trattava di un nume.


L'Odissea mostra Telemaco che va ad affrontare i Proci laddove Gesù va ad affrontare Satana nel deserto e quindi le autorità che hanno arrestato Giovanni il Battista.
E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto 13e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
(Marco 1:12-15)

Si accostò subito ai Proci, il giovane simile a un dio.
...
Risuonavano le voci dei Pretendenti, nella sala piena di ombre: tutti volevano dividere il letto con lei. E, fra di loro, il saggio Telemaco prese a parlare:
«Principi, che nella vostra superbia smisurata aspirate alla mano di mia madre, non gridate, ora, e godiamoci questo banchetto: perchè è bello ascoltare un grande cantore, come costui, che ha la voce di un dio. Domani all'alba ci riuniremo tutti in consiglio: voglio dirvi apertamente di andarvene dalla mia casa. Altrove cercatevi il cibo, mangiate le vostre sostanze, invitandovi l'uno con l'altro. Se invece vi sembra cosa migliore e più facile distruggere impunemente gli averi di un solo uomo, divorateli allora: io invocherò gli dei che vivono eterni perchè Zeus ci conceda di ricambiare l'opera. Morirete nella mia casa, e non vi sarà vendetta per voi».
Disse così, e tutti si mordevano le labbra, stupiti, perchè audacemente aveva parlato Telemaco. A lui si rivolse Antinoo, figlio di Eupite:
«Telemaco, sono certo gli dei che ti insegnano a paralre con tanta audacia e insolenza. Bada che non ti faccia re di Itaca Zeus, figlio di Crono, di Itaca cinta dal mare, com'è tuo diritto per nascita».
Gli rispose allora il saggio Telemaco:
«Questo io vorrei che Zeus mi concedesse, Antinoo, anche se ti adirerai con me per ciò che dico. Credi forse che sia il peggiore dei mali? Non è un male essere re: ricca è la sua casa ed egli è onorato fra tutti. Ma vi sono, fra gli Achei, altri principi, molti anche in Itaca cinta dal mare, giovani e meno giovani. uno di questi si prenda il regno, poichè è morto il divino Odisseo. Ma della mia casa sarò io il padrone, e anche dei servi, che conquistò per me Odisseo glorioso».
Di rimando gli disse Eurimaco figlio di Polibo:
«Solo gli dei sanno, Telemaco, quale degli Achei regnerà su Itaca cinta dal mare. Tienti le tue ricchezze, regna nella tua casa. Nessun uomo potrebbe spogliarti dei tuoi averi, a forza, tuo malgrado, fin che vi è un abitante nell'isola. Ma sullo straniero io voglio interrogarti, di dove viene, qual è la sua patria, la stirpe. Del ritorno di tuto padre ti reca notizie o per suo proprio interesse è venuto? All'improvviso è sparito, non aspettò di farsi riconoscere: e non sembrava un uomo da poco, a vederlo».
A lui replicò il saggio Telemaco:
«Mio padre non tornerà, Eurimaco. Alle notizie che mi giungono non credo più e non bado alle profezie che mia madre raccoglie, invitando in casa indovini. Lo straniero è di Tafo ed è ospite antico. Si chiama Mente, figlio del saggio Anchialo, e regna sui Tafi che amano il remo».
Così disse Telemaco, ma aveva riconosciuto la dea immortale. Alla danza e al canto dolcissimo i Proci si volsero, lieti, aspettando che si facesse sera.





Ecco come Atena, travestendosi da ''Telemaco'', raccoglie i marinai che accompagneranno Telemaco a Pilo:
 
Ad altro pensava intanto la dea dagli occhi azzurri. Percorse l'intera città somigliando a Telemaco e a ciascuno avvicinandosi rivolgeva la parola, li esortava a riunirsi la sera presso la nave veloce. A Noemone, lo splendido figlio di Fronio, chiese una nave: ed egli gliela promise.

Lo stesso enigmatico automatismo che si riscontra nei primi discepoli di Gesù, al richiamo rivolto loro come fossero cagnolini addomesticati:

Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.
(Marco 1:16-20)



L'Odissea e Marco prevedono entrambi nella prima parte avventure in mare e in zone costiere, con tanto di venti, onde e tempeste.
Entrambi prevedono nella seconda parte il crescendo, drammatico contrasto tra l'eroe e gli usurpatori cattivi che lo vogliono morto.
Entrambi prevedono il tema del Segreto Messianico così da non essere uccisi prematuramente. In entrambi i casi riescono a stento a mantenere il Segreto perchè la loro forza divina cerca in tutti i modi di manifestarsi loro malgrado, costringendoli a silenziare ognuno che apprende chi sono veramente.

I lettori sanno in anticipo che gli eroi, Achille, Ettore e Gesù, moriranno.

I compagni dell'eroe (la ciurma di Odisseo e i discepoli di Gesù) all'inizo son devoti, leali e buoni, ma poi man mano che la trama evolve perdono in misura crescente la loro forza morale nel perseverare di fronte agli ostacoli, e prima ancora della fine hanno già perso la partita.




Sia Odisseo che Gesù erano falegnami. Odisseo costruì il suo palazzo ad Itaca, un letto speciale, le navi e il Cavallo di Troia. Nel caso di Gesù, mirabile sono le parole di Thomas Brodie al riguardo.


Anche l'abilità di falegname di Odisseo è introdotta in un episodio analogo a quello evangelico, per sottolineare la sottile demarcazione tra l'essere e l'apparire, in presenza di personaggi speciali. Una demarcazione che Penelope riesce a superare, ma non i farisei e gli scribi nemici di Gesù in Marco.
Partì di là e venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
(Marco 6:1-6)


Gli rispose la saggia Penelope:
«Non sono superba e non ti disprezzo; non mi meraviglio neppure, so bene com'eri quando partisti da Itaca sulla nave dai lunghi remi. Ma ora preparagli un morbido letto, Euriclea, fuori dal talamo ben costruito che fabbricò con le sue mani: là fuori preparategli il letto e allestite il giaciglio, con pelli di pecora, coperte, tappeti dai mille colori».
Parlò così, e lo metteva alla prova. Irato Odisseo si rivolse alla sposa fedele:
«Donna, hai detto un'amara parola. Chi mai ha spostato il mio letto? Sarebbe difficile anche per un uomo che sa, a meno che un dio non venga e di sua volontà lo collochi altrove. Ma fra gli uomini nessuno al mondo, nenache se molto forte, potrebbe smuoverlo: c'è un gran segreto in quel letto ben lavorato che fabbricai io stesso, e nessun altro. Cresceva, dentro al cortile, un tronco d'olivo dalle foglie sottili, rigoglioso, fiorente, largo come una colonna. Intorno a questo io eressi il talamo, che feci con pietre fittamente connesse e ricoprii con il tetto ben fatto; e la porta applicai, solida e salda. Poi recisi la chioma dell'olivo dalle foglie sottili, il tronco sgrossai dalla radice, lo piallai tutt'intorno con l'ascia di bronzo, abilmente, lo livellai a filo di squadra e ricavai una base che lavorai tutta a traforo. Cominciando da questa levigavo anche il letto, ornandolo d'oro, d'argento, d'avorio. All'interno tesi cinghie di cuoio splendenti di porpora. Ecco, questo è il segreto: e io non so, donna, se è ancora là il mio letto o se l'ha collocato altrove qualcuno, dopo aver tagliato il sostegno di base».
Disse così, e a lei si sciolsero le ginocchia e il cuore, riconoscendo i segni sicuri che le aveva dato Odisseo.



Odisseo è chiamato ''divino'' e ''figlio di Crono''. Gesù invece è il divino Figlio di Dio.
Marco descrive una scena inverosimile dove Gesù ora è sul mare insegnando parabole alla gente sulla riva, e un minuto dopo si trova a dialogare coi suoi 12 discepoli in privato. Anche Odisseo intrattiene il suo uditorio sull'isola galleggiante di Eolia.
Cominciò di nuovo a insegnare lungo il mare. Si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che egli, salito su una barca, si mise a sedere stando in mare, mentre tutta la folla era a terra lungo la riva. Insegnava loro molte cose con parabole e diceva loro nel suo insegnamento: «Ascoltate. Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; e subito germogliò perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde tra i rovi, e i rovi crebbero, la soffocarono e non diede frutto. Altre parti caddero sul terreno buono e diedero frutto: spuntarono, crebbero e resero il trenta, il sessanta, il cento per uno». E diceva: «Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!». Quando poi furono da soli, quelli che erano intorno a lui insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole.
(Marco 4:1-10)


Giungemmo all'isola Eolia dove viveva Eolo figlio di Ippota, caro agli dei immortali. È un'isola che naviga in mare, alta e nuda è la costa e tutt'intorno si erge una muraglia di bronzo, indistruttibile. Dodici figli erano nati a Eolo nella sua casa, sei figlie e sei figli nel fiore degli anni, ai figli aveva dato in spose le figlie. Sempre essi mangiano nella casa del padre e della madre, amatissimi. Davanti a loro molte vivande sono imbandite, di giorno la casa odora di grasso bruciato, il cortile risuona. Di notte, accanto alle spose fedeli, dormono tra le coperte, nei letti a trafori. Alla città di costoro, e alle belle case arrivammo. E per un mese intero Eolo mi ospitava e mi chiedeva ogni cosa, e Ilio e le navi e il ritorno dei Danai. E tutto, nel modo giusto, io gli narrai.

Sia i marinai di Odisseo che i discepoli di Gesù sono folli, dementi, scemi, codardi e ignoranti.
In entrambi i casi quei compagni di viaggio dapprima sembrano leali e buoni, ma gradualmente fanno emergere la loro follia finchè franano totalmente.
Sono tutti eguali l'uno all'altro, nessuno emergendo se non per poche caratteristiche.
Falliscono perchè, a differenza dell'eroe, non sono perseveranti abbastanza.
Pietro recita un ruolo simile ad Euriloco, il vice di Odisseo.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
(Marco 8:31-33)

Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono.
(Marco 14:50)


Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle giovani serve del sommo sacerdote e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo guardò in faccia e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù». Ma egli negò, dicendo: «Non so e non capisco che cosa dici». Poi uscì fuori verso l’ingresso e un gallo cantò. E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è uno di loro». Ma egli di nuovo negava. Poco dopo i presenti dicevano di nuovo a Pietro: «È vero, tu certo sei uno di loro; infatti sei Galileo». Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quest’uomo di cui parlate». E subito, per la seconda volta, un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». E scoppiò in pianto.
(Marco 14:66-72)



Allora divisi tutti i miei forti compagni in due gruppi e ad ambedue diedi un capo, al primo io stesso, all'altro Euriloco simile a un dio. In un elmo di bronzo agitammo le sorti: uscì il segno di Euriloco dall'intrepido cuore. Insieme a ventidue compagni si avviò, piangevano tutti, e noi piangenti si lasciavano dietro. Nella vallata, in un luogo appartato, trovarono la casa di Circe, tutta di pietra liscia. Si aggiravano intorno lupi dei monti e leoni che lei aveva stregato con filtri maligni: non li assalirono ma si levarono ritti, muovendo le lunghe code. Come quando i cani fanno festa al padrone che torna da un pranzo, perchè sempre porta con sé dei buoni bocconi: così scodinzolavano i lupi dalle forti zampe e i leoni, intorno agli uomini. Ed essi tremarono al vedere le terribili belve. Si fermarono nel porticato della dea dai bei capelli, sentivano Circe che dentro cantava con la sua bella voce mentre tesseva una tela grande, divina, come sono quelle che fanno le dee, sottili, splendenti di grazia, perfette. Fra di loro prese la parola Polite, duce di eroi, che fra i compagni era il più amato ed il più saggio.
''Amici, c'è dentro qualcuno che tesse una grande tela e canta con voce bellissima che tutt'intorno risuona, è una donna o forse una dea: facciamoci udire al più presto''.
Parlò così ed essi ad alta voce chiamarono. Lei uscì subito aprendo le porte splendenti e li invitava ad entrare. La seguirono tutti, senza sospetto. Euriloco solo rimase indietro, temendo un tranello. Su troni e seggi li fece sedere e per loro nel vino di Pramno mescolò del formaggio e biondo miele e farina di orzo; ma al cibo unì anche dei filtri magici perchè scordassero la patria, per sempre. E quando l'ebbe offerto loro ed essi ne bevvero, subito con una bacchetta li toccò e nei porcili li chiuse. Dei porci avevano la voce, le setole e tutto il corpo e l'aspetto, ma non la mente, che era quella di prima. Furono così rinchiusi, piangenti: a loro Circe gettava ghiande di leccio e di quercia e corniole, quello che mangiano sempre i maiali, stesi per terra.
Tornò subito Euriloco alla nera nave veloce a dare notizie dei suoi compagni, del loro crudele destino. E non riusciva a pronunciare parola, benchè lo volesse, il cuore stretto da un dolore profondo: aveva gli occhi pieni di lacrime, nell'animo il desiderio di piangere. Ma quando, dopo molte domande, finimmo per adirarci, allora ci narrò la sorte degli altri compagni:
''Andammo nel folto del bosco, come ordinasti, glorioso Odisseo; e nella vallata, in un luogo appartato, trovammo la casa, bella, di pietra liscia. Là dentro qualcuno tesseva una grande tela e cantava con voce chiara, una donna o forse una dea. I compagni a gran voce chiamarono. E subito lei uscì aprendo le porte splendenti e li invitava ad entrare: la seguirono tutti, senza sospetto. Ma io rimasi indietro, temendo un tranello. Sono scomparsi tutti, non è riapparso nessuno: a lungo sono rimasto a guardare''.
Disse così, ed io mi misi a tracolla la grande spada di bronzo, ornata d'argento e l'arco con la faretra e gli ordinai di mostrarmi la strada. Ma lui mi stringeva le ginocchia supplicando e mi diceva piangendo:
''Là non portarmi di forza, divino Odisseo, lasciami qui. Io so che non tornerai, che nessuno ricondurrai, dei compagni. Con questi, che sono qui, fuggiamo presto: forse potremo ancora scampare al giorno fatale''.
Così disse, ma io così gli risposi:
''Euriloco, tu resta pure qui, a bere e a mangiare, vicino alla nave nera; io devo andare, è duro, ma è necessario''.


Dopo che Odisseo riesce a costringere la maga Circe a restituire ai suoi uomini il loro aspetto originario, torna alla nave per invitare il resto dell'equipaggio a sostare dalla maga resa ormai inoffensiva.
''Del tuo ritorno siamo felici, divino Odisseo, come se fossimo giunti a Itaca, nella terra dei padri; ma narraci ora la sorte degli altri compagni''.
Così dicevano, e con dolcezza io rispondevo:
''La nave, per prima cosa, tiriamo sulla battigia e nelle grotte mettiamo i tesori e tutti gli attrezzi; e poi in fretta seguitemi tutti, potrete vedere i vostri compagni che nella dimora di Circe mangiano e bevono in abbondanza''.
Così parlai, e subito essi obbedirono alle mie parole. Soltanto Euriloco cercava di trattenere i compagni e parlava e diceva loro:
''Dove andiamo, infelici? Perchè andate in cerca di mali, entrando in casa di Circe che tutti quanti ci trasformerà in porci, lupi, leoni, perchè nostro malgrado facciamo la guardia alla sua grande dimora? Così fece il Ciclope quando rinchiuse i compagni dopo che entrarono nel suo recinto, e l'audace Odisseo era con loro; anch'essi morirono per la sua follia''.
Così disse, e io nel mio cuore pensai di estrarre la spada affilata e con essa troncargli la testa, gettargliela a terra, benchè fosse un mio stretto parente; ma i compagni, da una parte e dall'altra, mi trattenevano con suadenti parole:
''Divino Odisseo, se tu vuoi, lasceremo costui qui presso la nave, a farle la guardia: guida noi invece alla sacra dimora di Circe''.
Ciò detto si allontanavano dal mare e dalla nave. E neppure Euriloco rimase presso la concava nave, ma ci seguì, spaventato dalla mia furia tremenda.



Ed in un'altra occasione, Euriloco, proprio come Pietro, dà l'ennesima prova della sua incostanza e infedeltà.
Scampati agli scogli, a Scilla e alla tremenda Cariddi, rapidamente giungemmo all'isola bella del Sole: là vi erano le vacche dalla fronte spaziosa e le greggi numerose e fiorenti di Iperione. Mentre ero ancora sul mare, nella mia nave nera, udivo le mucche muggire nei loro recinti, e belare le pecore; e mi ricordai le parole del cieco profeta, di Tiresia tebano e di Circe di Eea, che spesso mi ripeteva di evitare l'isola del Sole che allieta i mortali. Mi rivolsi allora ai compagni, con l'angoscia nel cuore:
''Compagni di sventura, datemi ascolto, le profezie vi dirò di Tiresia e di Circe di Eea: spesso lei mi diceva di evitare l'isola del Sole che allieta i mortali; diceva che qui ci sarebbe toccata una tremenda sciagura. Spingete dunque la nave nera oltre quest'isola''.
Dissi così, e ad essi si spezzò il cuore nel petto. E subito mi rispose Euriloco con odiose parole:
''Terribile sei, Odisseo, grande è la tua forza, le tue membra non cedono. Sei fatto, certo, di ferro, e ai compagni stremati dalla fatica e dal sonno non permetti di scendere a terra, di prepararsi un buon cibo su quest'isola cinta dal mare: ci imponi invece di allontanarci dall'isola e andare errando sul mare oscuro, nella notte profonda: di notte si levano i venti funesti che le navi distruggono. Come potremo sfuggire all'abisso di morte, se all'improvviso si alza una tempesta di vento, di Noto o del violento Zefiro, che, contro il volere degli dei sovrani, possono mandare in pezzi una nave? Cediamo, invece, alla notte nera, e accanto alla nave veloce prepariamo la cena. All'alba ci imbarcheremo e spingeremo la nave sul mare infinito''.
Così disse Euriloco, approvavano gli altri compagni. Capii allora che un dio preparava sventure e, a loro rivolto, dissi queste parole:
''Euriloco, mi costringete a forza, poichè sono solo. Ma allora giuratemi tutti solennemente: se incontriamo una mandria di vacche o un gregge di pecore, nessuno, preso da funesta follia, uccida una mucca o una pecora: mangiate soltanto il cibo che vi diede Circe divina''.
Dissi così e subito essi giurarono come volevo. Dopo che ebbero compiuto il giuramento, ormeggiammo la solida nave in un porto profondo, vicino a una fonte di acqua dolce, scesero dalla nave i miei uomini e prepararono il pasto con cura. Ma quando furono sazi di cibo e bevande, piangevano ricordando gli amati compagni divorati da Scilla che li ghermì dalla concava nave. Un sonno profondo li colse, piangenti.
La notte era all'ultimo terzo, già tramontavano gli astri, quando Zeus suscitò un vento impetuoso, una tremenda tempesta, ricoprì di nuvole il mare e la terra. Un buio fitto scese dal cielo. E quando all'alba apparve l'Aurora lucente, mettemmo la nave all'ancora dentro una grotta profonda, dove le Ninfe danzavano e avevano i loro troni. Tenni allora consiglio e, in mezzo a tutti, parlai:
''Sulla nave, amici, abbiamo cibo e bevande, dalle mandrie teniamoci dunque lontani, che non ci accada qualcosa. Queste vacche e le greggi fiorenti sono di un dio potente, del Sole che tutto vede e tutto sente dall'alto''.
Dissi così, e persuasi il loro animo fiero.
Per tutto il mese soffiava Noto, incessante, e altri venti non si levarono, se non Euro e Noto. Fino a che ebbero cibo e rosso vino, i compagni alle vacche non si accostarono, desiderosi di vivere. E quando i viveri furono tutti esauriti, andavano in giro a cacciare, spinti da necessità, e pesci e uccelli e quel che gli capitava prendevano, coi loro ami ricurvi: mordeva il ventre la fame.
Mi addentrai, allora, nell'isola, per invocare gli dei, se mai mi indicassero il modo di andarmene. E quando, penetrato nell'isola, fui lontano dai miei compagni, in un luogo al riparo dai venti purificai le mani e tutti gli dei supplicavo, che regnano nell'Olimpo: sulle palpebre mi versarono essi un sonno profondo.
Intanto Euriloco dava agli altri un cattivo consiglio:
''Compagni di sventura, ascoltate le mie parole. Odiano, gli uomini, ogni tipo di morte, ma morire di fame è la cosa più atroce. Su, dunque, catturiamo le vacche più belle del Sole e offriamole in sacrificio agli dei che il vasto cielo possiedono. Se mai giungeremo a Itaca, nella terra dei padri, subito eleveremo al Sole un tempio sontuoso e dentro vi collocheremo in gran numero doni votivi, stupendi. Ma se, irato per le sue vacche dalle corna diritte, il dio vorrà annientare la nave e gli altri dei lo approveranno, preferisco allora morire all'istante, con la bocca piena di acqua, piuttosto che languire per tanto tempo su quest'isola abbandonata''.
Così parlò Euriloco, lo approvarono gli altri compagni. E subito catturarono le vacche più belle del Sole -- non lontane dalla nave azzurra, anzi vicine, pascolavano le belle vacche dall'ampia fronte e dalle corna lunate --, le circondavano dunque e invocarono i numi, dopo aver colto le foglie più tenere da una quercia dalle alte fronde, poichè non avevano il bianco orzo sulla nave dai solidi scalmi. E dopo aver pregato, le uccisero e le scuoiarono, tagliarono a pezzi le cosce, nel grasso le avvolsero tutte, le parti scelte vi posero sopra. Non avevano vino da versare sul fuoco, libarono quindi con acqua, ed arrostirono i visceri. E dopo che ebbero bruciato le cosce e mangiato i viveri, tagliarono il resto in piccoli pezzi e li infilarono sugli spiedi.
Fu allora che il sonno profondo abbandonò le mie palpebre. Mi avviai verso la riva del mare, alla nave veloce, ma quando già ero vicino all'agile nave mi giunse un soave odore di grasso. Rivolto agli dei immortali gemevo e gridavo:
''O padre Zeus e voi numi beati che vivete in eterno, per mia disgrazia mi avete immerso in un sonno crudele, e intanto i miei compagni hanno commesso un grave misfatto''.
Rapida andò messaggera a Iperione Lampezia dal lungo peplo, a dirgli che noi gli uccidemmo le vacche. E subito, irato nel cuore, il Sole disse agli dei:
''O padre Zeus e voi numi beati che vivete in eterno, punite i compagni del figlio di Laerte, Odisseo: con tracotanza mi hanno ucciso le vacche alla cui vista godevo salendo verso il cielo stellato o quando dal cielo scendevo di nuovo verso la terra. Se non pagheranno la giusta pena, io scenderò nell'Ade e splenderò per i morti''.
A lui rispose Zeus, signore dei nembi:
''Sole, continua a risplendere per gli dei immortali e per gli uomini, sulla terra feconda, e io, con la mia vivida folgore, gli colpirò la nave veloce, la farò in tanti pezzi sul mare colore del vino''.
Tutto questo l'ho udito narrare da Calipso, la ninfa dai bei capelli. Lei diceva di averlo sentito da Hermes, il Messaggero.
Quando giunsi alla nave ed al mare, rimproveravo i compagni, ora l'uno ora l'altro, ma ormai non c'era rimedio, le vacche erano morte. Prodigi ci manifestavano invece gli dei: le pelli che si muovevano, le carni, crudi o già cotte, che sugli spiedi muggivano, come le vacche. Per sei giorni i fedeli compagni mangiarono, dopo aver catturato le vacche più belle del Sole. Ma quando il figlio di Crono aggiunse il settimo giorno, cessò allora la furia impetuosa del vento e subito noi ci imbarcammo; issato l'albero e spiegate le vele bianche, spingemmo la nave nel mare infinito.
Lasciata l'isola, quando non si vedeva più terra, ma cielo e mare soltanto, allora il figlio di Crono stese una nuvola scura sopra la concava nave, si oscurò anche il mare, di sotto. Correva, la nave, ma non durò a lungo: sopraggiunse all'improvviso Zefiro fischiando furioso, con una grande tempesta. Entrambe le funi dell'albero strappò l'uragano, l'albero cadde all'indietro, nella sentina si rovesciarono tutti gli attrezzi. L'albero a poppa colpì alla testa il pilota fracassandogli, dentro, le ossa, e simile a un tuffatore egli cadde dal ponte, abbandonò le membra il suo animo fiero. Zeus tuonò, e scagliò la sua folgore; colpita, girò su se stessa la nave, esalando odore di zolfo. Precipitarono in acqua i compagni: e intorno alla nave nera come corvi erano trascinati dai flutti, il dio li privò del ritorno.




Al pari di Omero quei fallimenti dei discepoli in Marco sono creazioni letterarie per meglio delineare le virtù dell'eroe protagonista.

Giacomo e Giovanni sono entrambi:

- figli di Zebedeo,
- rinominati come Boanerghes = figli del Tuono,
- pescatori di uomini,
- di Giacomo si disse che perì di morte violenta,
- di Giovanni si disse che sarebbe vissuto fino alla parusia,
- chiedono un posto alla destra e alla sinistra di Gesù nella sua gloria,
- Gesù rifiutò la loro richiesta, a vantaggio dei due ladroni che finirono alla sua destra e alla sua sinistra sulla croce.

Castore e Polluce sono entrambi:

- figli di Leda,
- rinominati Dioscuri = progenie di Zeus, il dio del tuono,
- Argonauti (marinai a bordo della nave Argo),
- di Castore si disse che perì di una morte violenta,
- Polluce poteva esser vissuto per sempre,
- Polluce chiese a Zeus di offrire a lui e a Castore il dono dell'immortalità,
- Zeus soddisfò la loro richiesta al punto che Castore e Polluce erano spesso dipinti alla destra e alla sinistra di Zeus.


Luca parlò dei Dioscuri in Atti come i protettori della nave di Paolo:
Tre mesi dopo, ci imbarcammo su una nave alessandrina, recante l'insegna di Castore e Polluce, la quale aveva svernato nell'isola.
(Atti degli Apostoli 28:11)



Luca aggiunge la storia di Giacomo e Giovanni desiderosi di rovesciare un fuoco inceneritore dal cielo per distruggere un villaggio di samaritani, e anche Castore e Polluce avevano fama di espugnatori di città.
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
(Luca 9:51-56)

Si confrontino i seguenti ''episodi'':
Giona fugge da Dio.
Sorge una tempesta.
I marinai sono terrorizzati.
Giona dorme sotto coperta.
Il capitano della nave lo risveglia.
Giona è gettato in mare.
La tempesta cessa.
La ciurma ha paura e adora Dio.

In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
(Marco 4:35-41)

Quando poi anch'io gli chiesi di darmi una scorta per il ritorno, non disse di no e me la preparava. Un otre mi diede, fatto con la pelle di nove anni, dove aveva racchiuso le vie dei venti impetuosi: perchè dei venti il figlio di Crono l'aveva fatto custode, poteva placarli o suscitarli quando voleva. Con una catena d'argento, lucente, lo legò sulla concava nave, perchè non ne uscisse nemmeno un soffio. Per me fece spirare il vento di Zefiro, che portasse le navi e noi stessi. Ma così non sarebbe accaduto: ci perdemmo, per nostra follia.
Per nove giorni navigammo, di giorno, di notte, il decimo già si vedeva la terra dei padri, i custodi dei fuochi vedevamo, vicini. Allora il dolce sonno mi colse, ero sfinito. Sempre ero stato al timone, non lo cedevo a nessuno degli altri compagni, affinchè più rapidamente giungessimo in patria. Ma i compagni fra di loro parlavano, dicevano che io mi portavo a casa oro e argento donati dal generoso figlio di Ippota. E, rivolto al vicino, così diceva qualcuno:
''Ma guarda come costui è amato e onorato da tutti gli uomini quando giunge alla loro città, alla loro terra. Molti oggetti preziosi si porta da Troia, bottino di guerra; e invece noi che la sua stessa strada abbiamo percorso, ce ne torniamo a casa a mani vuote. Ora quest'otre gli ha dato Eolo, per amicizia. Orsù, presto, vediamo cos'è, quanto oro e argento c'è dentro quest'otre''.
Così dicevano, e il cattivo consiglio dei compagni prevalse. Aprirono l'otre, tutti i venti ne uscirono, e il turbine li afferrò all'improvviso e li riportò al largo, piangenti, lontano dalla patria terra. Mi risvegliai, e fui incerto nel cuore se gettarmi giù dalla nave e morire nel mare o sopportare in silenzio e restare ancora fra i vivi. Sopportai e rimasi: avvolto nel mantello, giacqui sulla mia nave. La furiosa tempesta di vento trascinò le navi di nuovo all'isola Eolia, i miei compagni piangevano. Scendemmo sul lido e facemmo provvista di acqua, poi, presso le navi veloci, presero il pasto i compagni. Ma quando ci fummo saziati di cibo e bevande, allora presi con me l'araldo e uno degli uomini e mi recai alla dimora gloriosa di Eolo. Lo trovai che mangiava accanto alla moglie ed ai figli. Entrati in casa sedemmo sulla soglia accanto agli stipiti. Ed essi ci domandavano, stupefatti:
''Sei di ritorno, Odisseo? Quale demone malvagio ti colse? Eppure con cura preparammo il tuo viaggio perchè tu potessi tornare in patria, a casa, dovunque volessi''.
Così dissero. E io risposi con l'animo afflitto:
''Cattivi compagni mi hanno perduto, e insieme a loro il sonno odiosissimo. Cercate voi di rimediare, amici: voi ne avete il potere''.
Così dicevo, con parole suadenti. Essi rimasero muti. Infine il padre rispose:
''Vattene da quest'isola, presto, obbrorio degli uomini. Non è giusto che io offra aiuto e scorta ad un uomo che è in odio agli dei beati. Vattene, è per l'odio degli immortali che sei qui di ritorno''.
Disse così, e mi scacciò dalla sua casa, piangente.


La trama è la stessa.
Perchè Marco ci tiene a menzionare che Gesù salpò con i suoi discepoli con un numero di barche? Si tratta di un chiaro indizio che Marco ha in mente l'episodio di Odisseo.
La principale differenza è che Marco ha reso Gesù leggermente più grande di Odisseo per forza morale. D'altro canto, anche nell'Odissea alla fine si riconosce nel dio Eolo il dominio sui venti, quindi emerge il tema finale del riconoscimento della potenza divina.


Due episodi dell'Odissea servirono a Marco per modellare l'episodio dell'esorcismo di Legione.


Giunsero all’altra riva del mare, nel paese dei Gerasèni. Sceso dalla barca, subito dai sepolcri gli venne incontro un uomo posseduto da uno spirito impuro. Costui aveva la sua dimora fra le tombe e nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo. Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi 7e, urlando a gran voce, disse: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!». Gli diceva infatti: «Esci, spirito impuro, da quest’uomo!». E gli domandò: «Qual è il tuo nome?». «Il mio nome è Legione – gli rispose – perché siamo in molti». E lo scongiurava con insistenza perché non li cacciasse fuori dal paese. C’era là, sul monte, una numerosa mandria di porci al pascolo. E lo scongiurarono: «Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi». Glielo permise. E gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare; erano circa duemila e affogarono nel mare.  I loro mandriani allora fuggirono, portarono la notizia nella città e nelle campagne e la gente venne a vedere che cosa fosse accaduto. Giunsero da Gesù, videro l’indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. Quelli che avevano visto, spiegarono loro che cosa era accaduto all’indemoniato e il fatto dei porci. Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio. 
(Marco 5:1-17)

Vediamo quali sono questi due episodi.
Il primo è l'episodio di Odisseo e la maga Circe: se Circe trasformò i compagni di Odisseo in porci, Gesù cacciò nei porci i demoni. E Circe si arrende a Odisseo al modo in cui i demoni, attraverso la voce dell'indemoniato geraseno, si arrendono al Figlio di Dio. Sia Circe che i demoni in Marco riconobbero chi stava loro di fronte senza bisogno di presentazioni: ma Circe implorò pietà perchè aveva un motivo per sentirsi in colpa, laddove Marco non riesce a spiegare la necessità di un ''compromesso'' con tanto di ''trattative'' con Gesù da parte dei demoni.

Sulla porta della dea dai bei capelli mi fermai e qui emisi un grido, lei udì la mia voce. Subito uscì dalla casa aprendo le porte splendenti e mi invitava ad entrare: la seguii con l'angoscia nel cuore. Mi condusse a sedere su un trono ornato d'argento, prezioso, bellissimo: per i piedi vi era, sotto, uno sgabello. Preparò per me la bevanda in una coppa d'oro, perchè la bevessi, e vi gettò il farmaco, meditando l'inganno nel cuore. Me la diede, la bevvi e poichè non mi stregava, lei mi toccò con la bacchetta e mi disse:
''Va, ora, al porcile, stenditi con gli altri compagni''.
Disse, e io estrassi la spada affilata e mi slanciai su di lei come se volessi ucciderla. Si sottrasse Circe gridando, mi abbracciò le ginocchia e piangendo mi rivolse queste parole:
''Chi sei, da dove vieni? Dove sono la tua città, i genitori? Stupore mi prende perchè hai bevuto il mio filtro e non sei stato stregato. Nessun altro al mondo ha mai resistito a questo farmaco, una volta che l'abbia bevuto, quando esso ha oltrepassato la barriera dei denti. Ma la tua mente resiste agli incanti. Certo tu sei Odisseo, l'eroe del lungo viaggio: sempre me lo diceva il Messaggero dalla bacchetta d'oro, che saresti giunto, di ritorno da Troia, sulla nera nave veloce. Ma ora rimetti la spafa nel fodero e sul mio letto saliamo, affinchè, dopo esserci uniti in amore, possiamo fidarci l'uno dell'altra''.



Sia Circe che i demoni erano misteriosamente a conoscenza del nome dell'eroe che stava loro rispettivamente di fronte e si rivolgono a lui in modo simile, implorando grazia. Nell'Odissea Circe aveva ragione a temere una vendetta da parte di Odisseo per aver trasformato in porci i suoi uomini, ma in Marco non si spiega perchè i demoni avrebbero temuto alcunchè, eppure chiedono a Gesù di non essere tormentati, così Marco ha dovuto aggiungere il particolare di una via di scampo da lasciare ai demoni facendoli migrare nei porci. Quest'anomalia nacque per aver imitato Omero?
Il secondo episodio riguarda Odisseo e i Ciclopi. L'indemoniato geraseno nella sua delirante solitudine ricorda in tutto e per tutto lo stile di vita del Ciclope Polifemo. I demoni chiedono a Gesù di non essere da lui tormentati, allo stesso modo Polifemo chiede a Odisseo se gli volesse del male. Interessante cosa significa ''Polifemo'', nonostante il Ciclope avesse UN SOLO occhio: ''Polifemo'' significa ''Molti Occhi''. I demoni in Marco, seppure concentrati in un solo individuo, sono ''Legione''. Gesù chiede al demone il suo nome, e anche Polifemo chiede ad Odisseo il suo nome, ottenendo in tutta risposta: NESSUNO.

Gesù è astuto nello scacciare i demoni nei porci, proprio come Odisseo.
Gli abitanti di Genesaret si meravigliano dell'indemoniato, una volta guarito. Proprio come gli altri Ciclopi si meravigliano dello strano comportamento di Polifemo, al suo continuo accusare ''Nessuno''. Sia l'indemoniato sia il Ciclope erano nudi. L'indemoniato, una volta guarito, volle salpare a bordo della barca di Gesù & company, ottenendo il suo secco rifiuto, laddove anche Odisseo replicò di no ad un Polifemo che gli intimava di ritornare sul posto, preferendo prendere il largo.
E Odisseo esortò infine Polifemo a dire a tutti che era stato lui ad accecarlo, proprio come Gesù disse all'indemoniato di proclamare a tutti la sua guarigione.

E quando fummo giunti a quella terra vicina, là, proprio sul mare, al limite estremo, vedemmo una grotta enorme, ricoperta di alloro. Molte greggi, di pecore e capre, dormivano là; vi era, intorno, un alto recinto di massi interrati e lunghi tronchi di pino e querce dalle alte fronde. Qui viveva un essere enorme che pascolava le greggi da solo, lontano da tutti, e non frequentava nessuno ma se ne stava in disparte e non conosceva giustizia. Era un gigante mostruoso che non somigliava agli uomini che mangiano pane ma alla cima selvosa di un monte altissimo, che tutte le altre sovrasta. Dissi allora ai miei fedeli compagni di rimanere a custodire la nave. Io invece mi avviai con dodici uomini scelti, i migliori: presi con me un otre di pelle di capra pieno di vino nero, dolcissimo, che mi donò Marone, figlio di Evante, sacerdote di Apollo che era dio protettore di Ismaro; noi risparmiammo la vita a lui, alla sua sposa e ai figli, per rispetto del dio: egli infatti viveva nel bosco sacro di Apollo e mi offrì splendidi doni, sette talenti d'oro pregiato, una coppa tutta d'argento e poi dodici anfore piene di vino, puro, dolcissimo, divina bevanda di cui nessuno, in casa, sapeva, né servitori, né ancelle, lo conosceva lui solo e la moglie e la dispensiera fedele. Quando bevevano questo rosso vino dolcissimo, ne mescolava una tazza con venti misure d'acqua e dalla coppa emanava un profumo soave, divino: non avresti voluto, allora, starne lontano. Questo vino portavo in un grande otre, e dei cibi in un canestro: perchè mi diceva il mio forte cuore che avrei trovato un uomo dotato di forza immensa, selvaggio, che non conosceva né giustizia né legge.
Rapidi giungemmo all'antro ma dentro non lo trovammo, era al pascolo con le sue greggi fiorenti. Entrati, guardavamo con meraviglia ogni cosa: i graticci carichi di formaggi, i recinti pieni di agnelli e capretti, separati gli uni dagli altri, i primi nati e poi i secondi e ancora i lattanti. Erano piene di latte le brocche ben lavorate e i vasi e i secchi nei quali mungeva. Mi pregavano allora i compagni di afferrare per prima cosa i formaggi e tornare indietro e poi, dopo aver sospinto velocemente agnelli e capretti dai loro recinti verso la nave, prendere di nuovo il largo sul mare. Ma io non li ascoltai -- sarebbe stato assai meglio -- perchè volevo vedere se il mostro mi avrebbe offerto i doni ospitali. Ma quando fosse comparso non si sarebbe mostrato amabile con i compagni.
Acceso il fuoco offrimmo dei sacrifici, poi prendemmo e mangiammo i formaggi e dentro lo aspettammo seduti, finchè ritornò con le greggi. Portava un pesante fardello di legna secca che gli serviva per la sua cena. Lo gettò dentro la grotta con grande fracasso. In fondo all'antro noi fuggimmo, atterriti. Nell'ampia spelonca egli sospinse le floride bestie che doveva mungere, i maschi li lasciò fuori, capri e montoni, all'interno del vasto recinto. Sollevò poi un masso, grande e pesante, che chiudesse l'entrata: ventidue solidi carri a quattro ruote non l'avrebbero smossa, quella pietra enorme che sulla soglia collocò come porta. Seduto, mungeva le pecore e le capre belanti, una dopo l'altra, e spingeva il lattante sotto ciascuna. Fece cagliare subito metà del bianco latte, lo raccolse e lo mise in canestri di vimini, l'altra metà la versò nei vasi per la sua cena, per poterne prendere e bere. Dopo che ebbe sbrigato rapidamente il lavoro, accese il fuoco. E allora ci vide e ci domandò:
''Stranieri, chi siete? Da dove venite, navigando sulle vie d'acqua? Avete qualche commercio o senza meta vagate sul mare come i predoni che vanno, rischiando la vita e a tutti portando rovina?''.
Così parlò, e a noi si spezzò il cuore nel petto per il terrore di quel gigante, della sua voce profonda. E tuttavia gli risposi e gli dissi:
''Siamo Achei, di ritorno da Troia, che i venti hanno deviato sul grande abisso del mare. A casa eravamo diretti ma altre vie, altri cammini abbiamo seguito, per volere di Zeus. Siamo guerrieri di Agamennone figlio di Atreo, la cui fama grandissima va fino al cielo: ha distrutto una grande città, e molti uomini ha ucciso. Alle tue ginocchia noi siamo, a supplicarti, che tu ci dia ospitalità oppure un dono ci offra, come si usa per gli ospiti. Degli dei, signore, abbi rispetto: noi siamo tuoi supplici. Stranieri e supplici è Zeus che li vendica, il dio degli ospiti che li accompagna''.
Così io dicevo, subito egli rispose con cuore spietato:
''Sei stolto, straniero, o vieni da molto lontano se mi inviti a temere gli dei. Di Zeus, signore dell'egida, non si curano affatto i Ciclopi, degli dei beati neppure: noi siamo molto più forti. Non salverò certo la vita né a te né ai tuoi compagni per evitare l'odio di Zeus, se non vuole farlo il mio cuore. Ma dimmi dove ormeggiasti la nave ben costruita, lontano oppure vicino, voglio saperlo''.
Disse così, mi tendeva un tranello, ma non ingannò il mio animo esperto e a lui risposi con false parole:
''Poseidone che scuote la terra spezzò la mia nave gettandola contro le rocce ai confini di questa terra, addosso a un promontorio. La portava il vento, dal mare. Sono sfuggito alla morte io solo, con questi compagni''.
Dissi così, nulla rispose quell'uomo dal cuore spietato, ma con un balzo gettò le mani sui miei compagni, due ne afferrò e, come cuccioli, li sbatteva al suolo: dalla testa schizzava fuori il cervello, bagnava la terra. Poi li fece a pezzi e si preparava la cena. Come un leone dei monti li divorava -- non lasciò nulla -- viscere carne ossa midollo. Piangendo alzavamo le braccia al cielo davanti all'orrendo spettacolo: non potevamo far nulla. Quando ebbe riempito il suo ventre enorme, il Ciclope, mangiando carne umana e bevendo latte purissimo, giacque nell'antro lungo disteso in mezzo alle pecore. E io meditavo nel cuore di andargli vicino e sguainando la spada affilata conficcarla, a tastoni, nel petto, là dov'è il fegato, chiuso dentro il diaframma. Ma mi trattenne un altro pensiero: saremmo morti di orribile morte anche noi, là dentro, non potevamo con le nostre braccia spostare dall'alta apertura il masso pesante che vi aveva posto il Ciclope. Piangendo allora aspettammo l'Aurora divina.
Quando all'alba apparve l'Aurora splendente, egli accese il fuoco di nuovo e mungeva le pecore belle, una dopo l'altra, con ordine, e spingeva il lattante sotto ciascuna. Ma dopo che ebbe rapidamente sbrigato il lavoro, afferrò altri due uomini e preparava il suo pranzo. Mangiato che ebbe, spingeva fuori dall'antro le floride pecore e senza fatica spostò la grossa pietra; ma subito la rimise a posto, come si mette il coperchio alla faretra. Con un fischio acuto fece volgere al monte le greggi fiorenti, il Ciclope. Ed io rimasi a meditare vendetta, se mai potessi punirlo, se questa gloria mi concedesse Pallade Atena. Questa infine mi parve la soluzione migliore. C'era, accanto al recinto, un grande tronco, verde, di olivo: l'aveva tagliato per farne un bastone quando si fosse seccato. Ci sembrava, a vederlo, come l'albero di una nera nave da venti remi, un'ampia nave da carico che attraversa l'abisso del mare: tanto era lungo, tanto era grosso a vedere. Mi avvicinai, ne tagliai un pezzo lungo due braccia e lo diedi ai compagni, dissi loro di assottigliarlo; essi lo fecero liscio ed io, vicino a loro, ne aguzzai la punta e la misi a indurire sul fuoco ardente. Poi lo nascosi bene, ponendolo sotto il letame che in gran quantità era sparso nella spelonca. E agli altri ordinai di tirare a sorte chi avrebbe avuto il coraggio di sollevare quel palo insieme a me e conficcarlo nell'occhio del mostro, quando l'avesse colto il sonno soave. La sorte toccò a quei quattro che avrei scelto io stesso, quinto mi contai insieme a loro.
A sera tornò dal pascolo con le pecore dal folto vello, subito spinse nell'antro le bestie fiorenti, tutte, non ne lasciò nessuna fuori dall'alto recinto: meditava qualcosa o così volle un dio. Sollevò alto e rimise a posto il masso enorme, poi si sedette a mungere pecore e capre belanti, una dopo l'altra con ordine, e spinse il lattante sotto ciascuna. Ma dopo che ebbe sbrigato il lavoro, afferrò altri due uomini e preparò la sua cena. Allora io mi avvicinai al Ciclope, tenendo in mano una coppa di vino nero, e gli dissi:
''Bevi questo vino, Ciclope, ora che hai mangiato carne umana, così vedrai quale bevanda c'era sulla mia nave; la portavo a te come offerta, se tu avessi avuto pietà di me e mi avessi fatto tornare. Ma la tua è follia intollerabile. Quale altro uomo in futuro potrà venire da te, sciagurato? Non hai agito secondo giustizia''.
Dissi così. Lui prese la coppa e bevve. Terribilmente gli piacque il dolce vino e ancora me ne chiedeva:
''Dammene ancora, ti prego, e dimmi il tuo nome, subito, ora, perchè possa darti un dono osptiale che ti dia gioia. Anche ai Ciclopi la terra feconda dà vino di ottime viti che crescono sotto la pioggia di Zeus. Ma questo è come nettare o ambrosia divina''.
Così diceva. Ed io ancora gli offrii il vino fulgente. Gliene diedi tre volte, tre volte bevve, come uno stolto. Ma quando il vino gli fu sceso nel cuore, allora mi rivolsi a lui con dolci parole:
''tu chiedi il mio nome glorioso, Ciclope; io te lo dirò, ma tu dammi il dono che mi hai promesso. Nessuno è il mio nome, Nessuno mi chiamano padre e madre e tutti gli altri compagni''.
Così dissi e mi rispose quell'uomo dal cuore crudele:
''Per ultimo io mangerò Nessuno, dopo i compagni, gli altri li mangerò prima. Questo è il mio dono ospitale''.
Disse, e cadde all'indietro, lungo disteso con il grosso collo piegato: lo vinceva il sonno che doma ogni cosa. Dalla gola sgorgava il vino e pezzi di carne umana: era ubriaco e ruttava. Allora io spinsi il palo sotto la brace finchè fu incandescente; e facevo coraggio a tutti i compagni perchè non si tirassero indietro, atterriti. E quando il tronco d'olivo, che pure era verde, stava per prendere fuoco e riluceva paurosamente, allora lo tolsi dal fuoco, i compagni mi erano intorno, iddio ci infuse un grande coraggio. Alzarono il tronco d'olivo dalla punta aguzza e nell'occhio lo conficcarono: dall'alto io lo facevo girare, come quando un uomo perfora il legno di una nave col trapano che altri da sotto muovono con una cinghia, tenendola da entrambe le parti: avanza il trapano senza fermarsi. Così noi, tenendo infitto nell'occhio il tronco rovente, lo facevamo girare, scorreva il sangue intorno alla punta. La vampa della pupilla bruciata gli arse le palpebre, le sopracciglia; crepitavano al fuoco le radici dell'occhio. Come quando un fabbro immerge nell'acqua gelida una grande scure o un'ascia, che manda sibili acuti, e la tempra così, pochè questa è la forza del ferro, così strideva l'occhio intorno al tronco d'olivo. Gettò un grido pauroso il Ciclope, risuonò tutta la grotta, noi fuggimmo atterriti. Dall'occhio si strappò con le mani il palo macchiato di sangue e lo gettò lontano da sé, come un folle. Chiamava a gran voce i Ciclopi che abitavano intorno nelle spelonche, sulle cime battute dai venti. Ed essi, udendo il suo grido, da ogni parte accorrevano, e stando intorno alla grotta chiedevano che cosa gli capitasse di male:
''Perchè, Polifemo, con tanta angoscia hai gridato, nella notte divina, e non ci lasci dormire? Forse qualcuno ti ruba, tuo malgrado, le pecore? Forse qualcuno ti vuole uccidere con la violenza o l'inganno?''.
E dalla grotta rispose loro Polifemo possente:
''Nessuno mi uccide amici, con l'inganno, non con la violenza''.
Di rimando essi risposero:
''Se nessuno ti usa violenza e sei solo, il male che viene da Zeus non puoi evitarlo, prega piuttosto il dio Poseidone, tuo padre''.
Così dissero, e se ne andarono: rise il mio cuore perchè il mio nome e la mia mente astuta l'avevano tratto in inganno. Gemendo e soffrendo per il dolore il Ciclope, con le mani, a tentoni, tolse il masso dall'apertura e sulla soglia sedette egli stesso tendendo le braccia, se mai potesse afferrare qualcuno che usciva insieme alle pecore. Sperava che così sciocco io fossi, nell'animo. Io intanto pensavo quale fosse il piano migliore, se potevo trovare scampo alla morte per me e per i compagni; e ogni sorta di inganni tessevo, e di astuzie, come quando si rischia la vita: incombeva una grande sciagura. Questo mi sembrò nell'animo il piano migliore. C'erano dei montoni, grandi e bellissimi, nutriti bene e con il folto vello colore di viola. Io li legai assieme in silenzio, tre alla volta, con i vimini bene intrecciati sui quali dormiva il Ciclope gigante, che non conosceva giustizia: e quello che stava nel mezzo portava un compagno, gli altri, camminando a fianco, gli facevano scudo. Tre montoni portavano un solo uomo. Io invece afferrai sul dorso un ariete, di tutto il gregge il più grande, e sotto il suo ventre lanoso mi spinsi, al vello meraviglioso mi tenevo saldamente aggrappato con cuore tenace. Così aspettavamo piangendo l'Aurora divina.
E quando all'alba si levò l'Aurora splendente, fece uscire allora i montoni; nei recinti le femmine, che non erano munte, belavano con le mammelle rigonfie. Straziato da aucti tormenti il padrone tastava il dorso di tutte le pecore che stavano ritte: e non capì, lo stolto, che al petto delle bestie lanose erano legati gli uomini. Ultimo uscì dalla porta l'ariete, il vello gravato da me, uomo di arditi pensieri. E il forte Polifemo gli diceva, tastandolo:
''Mio prediletto montone, perchè dall'antro esci per ultimo? Non restavi dietro alle pecore, prima, ma eri il primo a brucare la tenera erba, balzando avanti, alle acque del fiume giungevi per primo, eri il primo a ritornare al recinto, la sera. Ed ora sei l'ultimo. Forse piangi l'occhio del tuo padrone? Un vile mi ha accecato, insieme ai funesti compagni, dopo avermi ubriacato col vino -- Nessuno -- che credo non sia ancora scampato alla morte. Se tu potessi capire, se tu potessi parlare e dirmi dov'è quell'uomo che sfugge alla mia furia! Gli spaccherei il cervello sbattendolo al suolo per la caverna, da una parte e dall'altra, così avrebbe sollievo il mio cuore dalle sventure che mi procurò questo Nessuno da nulla''.
Disse così, e spinse fuori il montone. Quando fummo di poco lontani dal cortile e dalla spelonca, per primo dall'ariete mi sciolsi e poi sciolsi i compagni. Rapidi spingevamo le floride pecore dalle lunghe zampe, continuamente riunendole, finchè giungemmo alla nave. Furono lieti di rivederci, i compagni, poichè eravamo scampati alla morte, ma piangevano gli altri, gemendo. Non permettevo loro di piangere, a cenni lo vietavo a ciascuno: ordinai che spingessero in fretta sulla nave le pecore belle e prendessero il largo sul mare. Subito essi salirono e si sedettero ai banchi: l'uno vicino all'altro battevano il mare coi remi. Ma quando fummo distanti un tiro di voce, allora gridai al Ciclope con parole di scherno:
''Non era un vile, Ciclope, l'uomo di cui divorasti con violenza brutale i compagni nella tua concava grotta. Su di te doveva ricadere il misfatto, sciagurato, che osasti mangiare gli ospiti nella tua casa: per questo Zeus ti ha punito, e con lui gli altri dei''.
Dissi così, e ancor più egli si infuriava nel cuore. La cima di un monte alto divelse e la scagliò davanti alla nave dalla prora azzurrina: si sollevò l'acqua al cadere del masso e rifluendo l'onda portava indietro la nave, verso la riva, a terra il flusso del mare la sospinse di nuovo. Allora io afferrai con le mani una pertica lunga e spinsi la nave di fianco: e i compagni esortavo e incitavo con cenni del capo che facessero forza sui remi per scampare al disastro: essi remavano con tutte le forze. Ma quando, navigando sul mare, fummo a distanza doppia di prima, di nuovo io gridai al Ciclope; e intorno i compagni mi trattenevano da una parte e dall'altra, con parole suadenti:
''Perchè, sventurato, vuoi eccitare quell'uomo selvaggio? Ha appena scagliato in mare quel masso che ha riportato a terra la nave, pensavamo che fosse la fine. Se ti sente parlare, gridare, scaglierà un altro masso appuntito, fracassando le nostre teste e la nave: tanto lontano riesce a tirare''.
Così dicevano, ma non persuasero il mio cuore audace, e pieno d'ira gli gridai di nuovo:
''Ciclope, se fra i mortali ti chiede qualcuno di quest'occhio orrendamente accecato, rispondi che te l'ha tolto Odisseo, distruttore di città, il figlio di Laerte, che in Itaca ha la dimora''.



Morte di Giovanni il Battista e di Agamennone:


Stesso flashback per riportare l'episodio.
Stesso tema della moglie infedele al marito.
Stesso tema dell'intenzione omicida verso chi minaccia la relazione amorosa non consentita.
Stesso tema del bacchetto reale macchiato da un assassinio (e Clitennestra veniva spesso dipinta mentre decapitava Agamennone).
Stesso presagio nel tema della morte del disgraziato di turno per il destino del protagonista principale: Odisseo dovrà temere la sua vita come Agamennone, e Gesù dovrà morire come Giovanni il Battista.
Il re Erode sentì parlare di Gesù, perché il suo nome era diventato famoso. Si diceva: «Giovanni il Battista è risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi». Altri invece dicevano: «È Elia». Altri ancora dicevano: «È un profeta, come uno dei profeti». Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!». Proprio Erode, infatti, aveva mandato ad arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata. Giovanni infatti diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello». Per questo Erodìade lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri. Venne però il giorno propizio, quando Erode, per il suo compleanno, fece un banchetto per i più alti funzionari della sua corte, gli ufficiali dell’esercito e i notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla fanciulla: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». E le giurò più volte: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». Ella uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». E subito, entrata di corsa dal re, fece la richiesta, dicendo: «Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento  e dei commensali non volle opporle un rifiuto. E subito il re mandò una guardia e ordinò che gli fosse portata la testa di Giovanni. La guardia andò, lo decapitò in prigione e ne portò la testa su un vassoio, la diede alla fanciulla e la fanciulla la diede a sua madre. I discepoli di Giovanni, saputo il fatto, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro.
(Marco 6:14-29)

Quando la dea Persefone ebbe disperso le anime delle donne, da una parte e dal'altra, giunse l'anima afflitta di Agamennone figlio di Atreo. E intorno gli si stringevano quelle di coloro che insieme a lui nella dimora di Egisto incontrarono la morte e il destino. Non appena mi vide, subito mi riconobbe: e amaramente piangeva, versando lacrime fitte, e tendeva le braccia verso di me, voleva abbracciarmi. Ma non aveva più la forza e il vigore di prima nelle sue agili membra. Piansi, vedendolo, provai pena nel cuore e rivolto a lui gli dissi queste parole:
''Glorioso figlio di Atreo, Agamennone, signore di eroi, quale destino di morte crudele ti ha vinto? Poseidone ti ha forse travolto, insieme alle navi, dopo aver suscitato un'orrenda tempesta di venti? O a terra ti uccise gente nemica, mentre rubavi dei buoi o greggi di pecore belle? O mentre ti battevi per una città, per le sue donne?''.
Così dissi, e subito egli rispose:
''Divino figlio di Laerte, Odisseo ricco d'ingegno, no, non fu Poseidone a travolgermi insieme alle navi dopo aver suscitato un'orrenda tempesta di venti, né sulla terra mi ha ucciso gente nemica: Egisto ha costruito il mio destino di morte, Egisto insieme alla mia sposa malvagia, dopo avermi invitato a casa, a banchetto, come si uccide un toro alla greppia. Questa è stata la mia tristissima sorte. E intorno a me cadevano uno dopo l'altro i compagni, come porci dalle bianche zanne che in casa di un uomo ricco e potente vengono uccisi per una festa di nozze, o un pranzo in comune, o un ricco banchetto. Alla strage di molti guerrieri fosti presente, uccisi in duello o nella battaglia violenta: ma molto di più avresti pianto vedendo quello scempio, noi che giacevamo nella sala, intorno alla grande coppa del vino e alle tavole imbandite, e tutto il pavimento fumava di sangue. Udii il grido straziante della figlia di Priamo, Cassandra, che sul mio corpo la perfida Clitennestra uccideva. E io, dalla spada trafitto, morendo, colpivo la terra con le mie mani, ma quella cagna si allontanò e mentre scendevo nell'Ade non volle chiudermi gli occhi e la bocca. Nulla c'è di più odioso ed infame di una donna che nella mente concepisce tali misfatti, come lei che un orrendo delitto tramò dando la morte al suo sposo. E io pensavo che sarei ritornato a casa per la gioia dei figli, dei servi. Ma lei, che conobbe la perfidia più grande, di vergogna ha coperto se stessa e tutte le donne che verranno dopo, anche se oneste''.
Così disse, e io così gli risposi:
''Ahimè, tremendamente Zeus, signore del tuono, ha odiato la stirpe di Atreo, perseguitandola con trame di donne, fin dal principio. A causa di Elena siamo morti in tanti. E a te quest'inganno ordì Clitennestra, mentre eri lodato''.
Dissi così, e subito lui mi rispose:
''E dunque anche tu non essere buono con la tua sposa, non confidarle tutto quello che sai, dille una cosa, un'altra nascondi. Ma a te, Odisseo, non darà morte la sposa: è molto accorta, pensieri assennati ha nell'animo la figlia di Icario, la saggia Penelope. Era giovane quando noi la lasciammo, partendo per la guerra; aveva al petto un bambino che ora certo siede fra gli uomini. Giovane fortunato! Il padre lo vedrà al suo ritorno e lui potrà abbracciare suo padre così com'è giusto. Ma la mia sposa non ha lasciato che mi saziassi gli occhi guardando mio figlio; prima che lo vedessi mi ha ucciso. E un'altra cosa ti voglio dire, tu imprimila nella tua mente: la nave, falla approdare alla tua terra di nascosto, non in modo palese: delle donne non bisogna fidarsi. Ma ora dimmi questo, e parla sinceramente: è ancor vivo mio figlio, e dov'è, forse a Orcomeno, o a Pilo sabbiosa o presso Menelao nella grande città di Sparta? Perchè certo non è morto ancora, su questa terra, il divino Oreste''.
Così disse e io così gli risposi:
''Figlio di Atreo, perchè me lo domandi? Se è vivo o morto, non so; non è bene far chiacchiere inutili''.
Così noi scambiavamo tristi parole, con l'animo afflitto, versando molte lacrime.

Ecco l'episodio evangelico della prima moltiplicazione dei pani:



Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare». Ma egli rispose loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Gli dissero: «Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?». Ma egli disse loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». Si informarono e dissero: «Cinque, e due pesci». E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde. E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta. Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti. Tutti mangiarono a sazietà, e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini.
(Marco 6:34-44)

Anche nell'Odissea si ripete in due occasioni il tema di un banchetto di massa davvero simile a quello evangelico. Gesù e i suoi discepoli salpano e approdano in un luogo, proprio come Telemaco e Atena, trovando migliaia di uomini: 5000 in Marco e 4500 nell'Odissea. Gesù ordina di sedersi in gruppi di 100 e di 50 ciascuno, laddove la folla a cui va incontro Telemaco siede in 9 gruppi di 500 ciascuno. Anche Telemaco e il suo compagno dovevano sedersi, proprio come la folla di Gesù. In entrambi i casi si tratta di un banchetto sacro, con tanto di ringraziamento a Dio in Marco e di sacrificio agli dei nell'Odissea. In entrambi i casi si è sazi di cibo, per il potere di Gesù in Marco e per la ricchezza dell'ospite nell'Odissea, ma Gesù è superiore perchè fa avanzare del cibo.
Gli ospiti di Nestore siedono ''sopra morbide pelli di pecora'', mentre la folla di Marco approfitta a sedersi ''sull'erba verde''.

Si levò il Sole, lasciando il mare bellissimo, salì verso il cielo colore del bronzo per dare luce agli dei e agli uomini sulla terra feconda. Ed essi giunsero a Pilo, la bella città di Neleo. Sulla riva del mare la gente di Pilo sacrificava dei tori neri a Poseidone che scuote la terra, il dio dai bruni capelli. Erano nove le sedi sacrificate, cinquecento persone in ciascuna, nove tori offrivano in ognuna di esse. Avevano appena gustato i visceri, arrostite le cosce degli animali in onore del dio, quando essi approdarono e, ammainate le vele della nave perfetta, l'ormeggiarono, sbarcarono poi essi stessi. Dalla nave scese Telemaco, lo precedeva Pallade Atena.

...

Disse così e rapida lo precedette Pallade Atena: lui seguiva i suoi passi. Giunsero al luogo dov'era riunita la gente di Pilo, dove sedeva Nestore insieme ai figli; e intorno i compagni preparavano il pasto, arrostivano pezzi di carne, ne infilavano altri sugli spiedi. Ma quando videro gli ospiti, tutti accorsero in folla, li salutarono, li invitarono a prendere posto. Pisistrato, figlio di Nestore, si avvicinò per primo, prese la mano ad entrambi, li fece sedere al banchetto, là sulla sabbia, in riva al mare, sopra morbide pelli di pecora, accanto al fratello Trasimede e a suo padre.  Diede loro una parte dei visceri, versò il vino in un calice d'oro e alzandolo disse ad Atena, la figlia di Zeus signore dell'egida:
«Ora invoca, straniero, Poseidone sovrano: è in suo onore il banchetto che avete trovato, giungendo. E dopo aver libato e pregato -- così com'è d'uso -- offri anche a costui la coppa di vino dolcissimo perchè possa libare; anch'egli, penso, vorrà pregare gli dei: degli dei tutti gli uomini hanno bisogno. Ma lui è più giovane, ha la mia età: per questo a te per primo offrirò il calice d'oro».
Disse così, e pose nelle sue mani la coppa di vino dolcissimo. Atena fu lieta perchè quell'uomo giusto e sapiente a lei per prima offrì il calice d'oro; e subito, fervidamente, invocò Poseidone sovrano:
«Ascoltami, dio che scuoti la terra, non rifiutarti a noi che ti preghiamo di compiere queste cose: a Nestore per prima cosa ed ai suoi figli dona la gloria, e a tutti gli altri, alla gente di Pilo, concedi una ricompensa gradita per questa sontuosa ecatombe. E fa che Telemaco, e io con lui, possiamo tornare dopo aver ottenuto ciò che per cui siamo venuti qui sulla nera nave veloce».
Così pregava, ed era lei stessa che tutto compiva. Porse a Telemaco la bella coppa a due manici e come lei pregò anche il figlio di Odisseo. Quando ebbero cotto e tolto dal fuoco la carne migliore, fecero le parti e consumarono un sontuoso banchetto. Ma quando furono sazi di cibo e bevande, allora fra loro incominciò a parlare Nerone, il vecchio guidatore di carri.


...
«Due stranieri ci sono, Menelao divino, due uomini che sembrano discendere dal sommo Zeus. Dimmi, dobbiamo staccare dal carro i loro cavalli veloci o li mandiamo da un altro che possa ospitarli?».
A lui il rispose il biondo Menelao, sdegnato:
«Non eri stupido un tempo, Eteoneo figlio di Boetoo; ma adesso dici sciocchezze, come un bambino. Eppure anche noi siamo tornati a casa dopo aver spesso mangiato alla mensa ospitale di gente straniera, nella speranza che Zeus ponesse fine alle nostre pene. Sciogli dunque i cavalli degli ospiti e conducili poi a mangiare».
Disse così e lui attraversò la sala e si mosse e ad altri solerti scudieri ordinava che lo seguissero. Dal giogo sciolsero i cavalli grondanti sudore, li legarono alle greppie, gettarono accanto a loro la spelta mista al candido orzo, alle pareti lucenti accostarono il carro e nella dimora splendida condussero gli ospiti.
Guardavano essi e stupivano nel palazzo del re di stirpe divina. Splendeva, come luce di sole o di luna, l'alta dimora di Menelao glorioso. Dopo aver saziato gli occhi guardando, entrarono nelle vasche ben levigate e fecero il bagno. Li lavarono e li unsero d'olio le ancelle, poi li avvolsero in tuniche e mantelli di lana e su dei troni essi sedettero, accanto a Menelao figlio di Atreo. Venne un'ancella a portare l'acqua, versandola da una brocca d'oro, bellissima, in un bacile d'argento, perchè si lavassero; e pose accanto un tavolo ben levigato. Venne la dispensiera a portare il pane e molte vivande che con larghezza dispose. Piatti di carne scelta, di vari tipi, offrì il servitore e delle coppe d'oro mise loro davanti. E allora il biondo Menelao li salutò con queste parole:
«Prendete il cibo e gustatelo. Quando vi sarete saziati, allora chi chiederò chi siete. Non è certo estinta la vostra stirpe, siete della razza dei re che da Zeus discendono, i re che portano lo scettro; dei vili non avrebbero generato figli simili a voi».
Disse così e con le sue mani prese e offrì loro le grasse carni del dorso di bue che a lui avevano dato, come parte d'onore. Sui cibi pronti e imbanditi tesero essi le mani. Ma quando furono sazi di cibo e bevande, allora Telemaco parlò al figlio di Nestore, accostando la testa alla sua, perchè non udissero gli altri.





Gesù che cammina sulle acque ed Ermes che vola sui propri sandali alati.


Gesù e Zeus vedono i loro rispettivi supplici in difficoltà (su una barca e su un carro), ovvero i discepoli e re Priamo, dall'alto di un monte (il monte Olimpo nel caso di Zeus) di notte. Zeus mandò Ermes a incrociare Priamo ed Ermes, nel suo strano modo di locomozione (una specie di ''teletrasporto'' con i sandali alati) ricorda certamente lo strano modo di locomozione di Gesù, il quale cammina nientemeno che sulle acque! Emres e Gesù rassicurano i loro cari, unendosi con loro (sul loro carro e sulla loro barca, rispettivamente nell'Iliade e in Marco), arrivando tranquillamente a destinazione (rispettivamente: senza farsi vedere dalle guardie achee nell'Iliade e su un mare calmo in Marco).
E subito costrinse i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, a Betsàida, finché non avesse congedato la folla. Quando li ebbe congedati, andò sul monte a pregare. Venuta la sera, la barca era in mezzo al mare ed egli, da solo, a terra. Vedendoli però affaticati nel remare, perché avevano il vento contrario, sul finire della notte egli andò verso di loro, camminando sul mare, e voleva oltrepassarli. Essi, vedendolo camminare sul mare, pensarono: «È un fantasma!», e si misero a gridare, perché tutti lo avevano visto e ne erano rimasti sconvolti. Ma egli subito parlò loro e disse: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». E salì sulla barca con loro e il vento cessò. E dentro di sé erano fortemente meravigliati, perché non avevano compreso il fatto dei pani: il loro cuore era indurito.
(Marco 6:45-52)


Al loro apparire nel piano, non sfuggirono, quei due, a Zeus dall’ampia voce di tuono. Guardò il vecchio e ne ebbe pietà. E subito si rivolgeva ad Ermes, suo figlio:
«Ermes, a te è caro, lo sappiamo, più che a ogni altro, farti compagno di viaggio dei mortali: ed esaudisci chi vuoi. Vai, su, allora e mena Priamo alle navi degli Achei! Ma fa’ in modo che nessuno degli altri Danai tutti lo scorga e riconosca, prima di arrivar dal Pelide.»
 Così parlava: e prontamente ubbidì il messaggero Argicida.   Subito ai piedi si allacciò i bei calzari divini, d’oro. Essi lo portavano sul mare e sulla terra sconfinata, insieme con i soffi del vento.   Prese la verga con la quale incanta gli occhi degli uomini, a chi vuole: altri invece risveglia anche dal sonno.   Tenendola in mano, volava il forte Argicida.   Ed ecco, in un attimo arrivò nella regione di Troia, all’Ellesponto, e prese a camminare: somigliava a un giovanetto di famiglia reale, al quale spunta la prima barba, e la cui adolescenza è piena di grazia. 
Intanto i due avevano oltrepassato il grande sepolcro di Ilo, e fermavano muli e cavalli al guado del fiume, a farli bere: il buio era ormai sceso sulla terra.   Fu allora che l’araldo, a un’occhiata, notò lì vicino Ermes, e diceva a Priamo:
«Attento, o Dardanide! Qua ci vuole prudenza. Vedo uno: fra poco saremo trucidati, questo è certo. Su, presto, fuggiamo via col cocchio! O se no, moviamoci a toccargli le ginocchia e a supplicarlo! Può darsi che abbia pietà di noi.» 
Così parlava. E al vecchio si confuse la mente: ebbe una grande paura. Gli si rizzarono i peli nelle curve membra, e rimase là sbigottito.   Ma lui, il dio soccorritore, si fece da presso. Prendeva, al vecchio, la mano e gli domandava:
«Dove vai, babbo, guidando così i cavalli e i muli attraverso la notte divina, quando dormono gli altri mortali? Come! non hai paura degli Achei decisi a tutto, che ti son vicini qui, ostili e feroci? Se ti vedesse uno di loro con un tale carico di tesori nel buio della notte, dimmi, come te la metti? Fa tanto presto essa a passare! Tu, vedi, non sei più giovane, e qui ti accompagna uno troppo vecchio per difenderti da chi per primo vi molesta. Ma io non intendo farti del male, anzi sono pronto a darti una mano contro altri. Mi par di vedere in te mio. padre.» 
E a lui rispondeva allora il vecchio Priamo, simile a un dio:
«È proprio così, figlio mio, come dici. Ma qualche divinità tiene ancora su di me la sua mano, se mi ha fatto incontrare un viandante come te, di buon augurio e bello di aspetto. E sei anche assennato. Sono ben fortunati i genitori che hai!»
Gli rispondeva il messaggero Argicida:
«Sì, tutto questo è vero, o vecchio: hai parlato bene. Ma dimmi una cosa, e rivela con franchezza se cerchi di esportare da qualche parte tanti oggetti preziosi e di valore, all’estero, per averli al sicuro: o se ormai abbandonate tutti la sacra Ilio per la paura. È caduto, lo so, un grande guerriero, il più valoroso di tutti: tuo figlio, sì. E non era, credimi, da meno degli Achei in battaglia.» 
E a lui rispondeva allora il vecchio Priamo, simile a un dio:
«Ma tu chi sei, amico? chi sono i tuoi genitori? Con quanta delicatezza hai accennato alla morte del figlio sventurato!» 
Gli diceva allora il messaggero Argicida:
 «Vuoi mettermi alla prova, o vecchio, domandandomi del divino Ettore. Ebbene, sì, l’ho veduto più di una volta nella battaglia che dà gloria agli eroi: anche quando cacciava gli Argivi tra le navi e li uccideva, facendoli a pezzi con l’acuta arma di bronzo. E noi stavamo là fermi ad ammirarlo: Achille, sai, non ci lasciava combattere, in collera com’era con l’Atride. Ecco, vedi, io sono un suo aiutante in campo: ci ha condotti qui la stessa nave. Faccio parte dei Mirmidoni: mio padre si chiama Polittore. È ricco, sì, ma ormai vecchio, come sei tu. Ed ha sei figli, sette con me. E tra loro fui sorteggiato ad accompagnare qua Achille. Adesso poi vengo dalle navi qui nella pianura. Vedi, domani mattina gli Achei intorno alla città attaccheranno. Sai, si spazientiscono, loro là, a star fermi, e non riescono più, i principi degli Achei, a trattenerli, con la smania che hanno di combattere.» 
Gli rispondeva allora il vecchio Priamo, simile a un dio:
«Se tu sei davvero un aiutante del Pelide Achille, via, dimmi tutta la verità: mio figlio c’è ancora presso le navi, o Achille l’ha già tagliato a pezzi dandolo in pasto alle sue cagne?»   E a lui allora disse il messaggero Argicida:
«No, vecchio, fin adesso non l’hanno divorato né cani né uccellacci, ma giace ancora là, accanto alla nave di Achille, come prima. Sono dodici giorni che sta al suolo, e non gli marcisce il corpo, né lo mangiano i vermi che divorano gli eroi uccisi in battaglia. È vero, sì, che lui lo trascina brutalmente intorno al sepolcro del suo amico, quando appare l’aurora in cielo, ogni mattina: ma non riesce a guastarlo. Lo vedrai anche tu all’arrivo: è fresco come la rugiada, è stato ripulito con acqua del fango intorno, non ha una macchia da nessuna parte. Si sono chiuse tutte le ferite che gli sono state inferte. E furono in molti, sai, a cacciargli l’arma in corpo. Tanta è la cura che si prendono gli dei beati del tuo prode figlio, anche dopo morto. Era loro, si vede, molto caro.» 
Così diceva. Ed ebbe un moto di gioia il vecchio e rispose:
«Figliolo, sì, è una buona cosa fare agli immortali le dovute offerte! Ecco, vedi, mai una volta mio figlio - se pur egli è esistito un giorno - si dimenticava, nella nostra casa, degli dei che abitano l’Olimpo. E perciò si ricordarono di lui, pure nel destino di morte. Ma via, prendi qui da me, eccola, una bella coppa, e proteggimi! Fammi da guida, con l’aiuto degli dei! Devo arrivare all’alloggio del Pelide.»
Gli rispose il messaggero Argicida:
«Mi tenti, o vecchio. Sono più giovane, sì, ma è inutile tu insista. Ecco, m’inviti ad accettare un dono all’insaputa di Achille. Ma io non me la sento, e mi guardo bene dal derubarlo: non vorrei che mi capitasse, un domani, qualche guaio. Ma son pronto a farti da guida, magari fino alla famosa Argo, accompagnandoti con ogni premura su una nave o a piedi. E nessuno, penso, avrà l’ardire di disprezzare il tuo accompagnatore e di attaccar briga con te.» 
Disse e d’un balzo, il dio soccorritore, fu sul cocchio. Prendeva svelto in mano la frusta e le briglie, e mise addosso ai cavalli e ai muli una gagliarda energia.   Giungevano alla fossa e al muro del campo acheo: le guardie da poco si affaccendavano a preparare la cena.   Su di loro il messaggero Argicida diffuse il sonno: sopra tutti, sì. E poi aperse la porta spingendo indietro le sbarre, e fece entrare Priamo e gli splendidi doni sul carro.   Arrivarono così all’alloggio del Pelide. Alto era: l’avevano costruito i Mirmidoni per il loro signore, sgrossando tronchi di pino. Di sopra l’avevano ricoperto con canne piumose, raccolte in un prato. Tutt’intorno gli avevano fatto un grande cortile con una fitta palizzata. Una sola stanga di pino teneva ferma la porta. Ci volevano in tre per metterla a posto, e in tre per rimuoverla — quella grossa sbarra dei due battenti. Tre degli altri, s’intende: Achille la spostava anche da solo.   E allora Ermes il soccorritore apriva al vecchio, e faceva entrare i magnifici doni destinati al Pelide. Ecco, saltò giù dal cocchio a terra e disse:
«Vecchio, io sono, sappilo, un dio venuto qui da te. Sì, Ermes sono. Mi ha mandato, vedi, a farti da guida, il padre. Ora io tornerò indietro. Non intendo venire al cospetto di Achille. Sarebbe una sconvenienza che un dio immortale trattasse familiarmente così, faccia a faccia, con uomini mortali. Ma tu entra pure, e toccagli, al Pelide, le ginocchia! E pregalo in nome del padre e della madre dalle belle chiome, e anche del figlio! Vedrai che lo commuovi.» 
Così diceva Ermes, e se ne andò via verso l’alto Olimpo.



Seconda moltiplicazione dei pani.

Come Gesù giunge al mar di Galilea, così Telemaco giunge a Sparta. Una volta di nuovo, incontrati da una grande folla. In ciascun caso l'ospite è riluttante a non sfamare gli invitati: 4000 da Gesù e molti uomini e donne da Menelao, tutti quanti seduti. Come Gesù distribuì pane e pesce, così Menelao distribuì carne, vino e altre pietanze. Tutti mangiarono a sazietà. Il tema dell'importanza dell'ospitalità e della generosità è comune ad entrambe le storie.



In quei giorni, poiché vi era di nuovo molta folla e non avevano da mangiare, chiamò a sé i discepoli e disse loro: «Sento compassione per la folla; ormai da tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare. Se li rimando digiuni alle loro case, verranno meno lungo il cammino; e alcuni di loro sono venuti da lontano». Gli risposero i suoi discepoli: «Come riuscire a sfamarli di pane qui, in un deserto?». Domandò loro: «Quanti pani avete?». Dissero: «Sette». Ordinò alla folla di sedersi per terra. Prese i sette pani, rese grazie, li spezzò e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero; ed essi li distribuirono alla folla. Avevano anche pochi pesciolini; recitò la benedizione su di essi e fece distribuire anche quelli. Mangiarono a sazietà e portarono via i pezzi avanzati: sette sporte. Erano circa quattromila. E li congedò.
(Marco 8:1-9)


E giunsero a Lacedemone, incuneata fra i monti, e si diressero alla dimora di Menelao glorioso. Lo trovarono al banchetto che ad amici e parenti offriva per le nozze del figlio e delle figlie, nella sua casa.
...
Così banchettavano lieti, nell'ampia dimora dagli alti soffitti, gli amici e i parenti di Menelao glorioso.
...
Nel cortile davanti alla casa si fermarono con i vacalli, il forte Telemaco e il glorioso figlio di Nestore.
...
«Due stranieri ci sono, Menelao divino, due uomini che sembrano discendere dal sommo Zeus. Dimmi, dobbiamo staccare dal carro i loro cavalli veloci o li mandiamo da un altro che possa ospitarli?».
A lui il rispose il biondo Menelao, sdegnato:
«Non eri stupido un tempo, Eteoneo figlio di Boetoo; ma adesso dici sciocchezze, come un bambino. Eppure anche noi siamo tornati a casa dopo aver spesso mangiato alla mensa ospitale di gente straniera, nella speranza che Zeus ponesse fine alle nostre pene. Sciogli dunque i cavalli degli ospiti e conducili poi a mangiare».
Disse così e lui attraversò la sala e si mosse e ad altri solerti scudieri ordinava che lo seguissero. Dal giogo sciolsero i cavalli grondanti sudore, li legarono alle greppie, gettarono accanto a loro la spelta mista al candido orzo, alle pareti lucenti accostarono il carro e nella dimora splendida condussero gli ospiti.
Guardavano essi e stupivano nel palazzo del re di stirpe divina. Splendeva, come luce di sole o di luna, l'alta dimora di Menelao glorioso. Dopo aver saziato gli occhi guardando, entrarono nelle vasche ben levigate e fecero il bagno. Li lavarono e li unsero d'olio le ancelle, poi li avvolsero in tuniche e mantelli di lana e su dei troni essi sedettero, accanto a Menelao figlio di Atreo. Venne un'ancella a portare l'acqua, versandola da una brocca d'oro, bellissima, in un bacile d'argento, perchè si lavassero; e pose accanto un tavolo ben levigato. Venne la dispensiera a portare il pane e molte vivande che con larghezza dispose. Piatti di carne scelta, di vari tipi, offrì il servitore e delle coppe d'oro mise loro davanti. E allora il biondo Menelao li salutò con queste parole:
«Prendete il cibo e gustatelo. Quando vi sarete saziati, allora chi chiederò chi siete. Non è certo estinta la vostra stirpe, siete della razza dei re che da Zeus discendono, i re che portano lo scettro; dei vili non avrebbero generato figli simili a voi».
Disse così e con le sue mani prese e offrì loro le grasse carni del dorso di bue che a lui avevano dato, come parte d'onore. Sui cibi pronti e imbanditi tesero essi le mani. Ma quando furono sazi di cibo e bevande, allora Telemaco parlò al figlio di Nestore, accostando la testa alla sua, perchè non udissero gli altri.



Riconoscimento della vera identità.


Non c'è bisogno di spiegazioni:



Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
(Marco 8:27-30)




Quella ferita toccò con le mani aperte la vecchia, toccandola la riconobbe e lasciò andare il piede. Nel bacile cadde la gamba, risuonò il recipiente di bronzo e si inclinò da un a parte: l'acqua si versava per terra. Gioia e dolore insieme le presero il cuore, le si empirono gli occhi di lacrime, le venne a mancare la voce. E toccando il mento di Odisseo, così parlava:
«Tu sei Odisseo, figlio mio caro: e prima non ti riconobbi, non riconobbi il mio re, prima di averlo toccato».
Disse, e volse gli occhi a Penelope per dirle che il suo amato sposo era lì, nella casa. Ma lei non poteva guardarla in viso e comprendere, le distole la mente Pallade Atena. Con una mano allora Odisseo l'afferrò alla gola, e con l'altra la trasse a sé e le disse:
«Madre, vuoi la mia morte, tu, che mi hai nutrito al tuo petto? Sono giunto nella mia terra dopo vent'anni, e ho sofferto molti dolori. Ma poichè hai compreso, un dio te l'ha messo nel cuore, taci, che nessun altro in casa lo venga a sapere. E questo ti dirò, e questo avrà compimento: se un dio per mano mia abbatterà i nobili Pretendenti, non risparmierò te, che sei la mia nutrice, quando le altre donne ucciderò nella casa».
Gli rispose la saggia Euriclea:
Figlio mio, quale parola ti è uscita di bocca? Tu sai com'è saldo il mio volere, e inflessibile: sarò come dura roccia o come ferro. E ti dirò una cosa, imprimila bene nel cuore: se per mano tua un dio abbatterà i nobili Pretendenti, io ti indicherò quali sono in casa le donne che non ti rispettano e quelle prive di colpa».
Le rispose l'accorto Odisseo:
«Perchè vorresti dirmi chi sono? Non è necessario; io stesso lo capirò, conoscerò io stesso ciascuna. Tu conserva il segreto e affidati agli dei».


Destino e accettazione.

Gesù predisse che egli doveva molto soffrire, scatenando per reazione le obiezioni di Pietro. Anche Odisseo fu sempre descritto come destinato a molte sofferenze. Achille nell'Iliade coraggiosamente accettò il suo destino di morte. I discepoli erano invece come Ettore, perchè ignorarono il monito e i presagi di Gesù e peccarono di ottimismo, finendo come Ettore in fuga in prossimità dell'inevitabile. E tuttavia anche Ettore fu favorito dagli dèi.


E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo.
(Marco 8:31-32)



E allora l’eroe parlò all’irreprensibile Pelide:
«Hai sbagliato il colpo! E così, Achille — tu simile agli dei — non la sapevi ancora, da Zeus, la mia sorte: eppure, vedi, l’hai detto! Ecco, un fanfarone tu eri, scaltro a parole: volevi che per paura di te scordassi energia e coraggio. No, non mi pianterai durante la fuga l’asta nella schiena, ma qui dentro, in petto, me la devi cacciare nell’impeto del mio assalto, se te l’ha concesso un dio. E ora a te! Schivala, la mia lancia di bronzo! Oh, potessi tu prenderla tutta in corpo! Allora si farebbe anche meno pesante la guerra per i Troiani, dopo la tua fine:
ora per loro tu sei la più grande sciagura.» 
Disse, e traendo indietro la lancia dalla lunga ombra la scagliò, e colpiva in pieno lo scudo di Achille senza sbagliare. Ma l’asta rimbalzò via lontano. Ci rimase male, Ettore, al vedere che il colpo gli era uscito di mano a vuoto, e restò là costernato: un’altra asta di frassino non ce l’aveva. E allora chiamava a gran voce Deifobo dal bianco scudo: gli chiedeva una lunga lancia. Ma lui non gli era più vicino!   Comprese Ettore nel suo intimo e disse:
«Ohimè! Sì, lo vedo, m’han chiamato, gli dei, a morte. E io che credevo mi fosse accanto il guerriero Deifobo! Ma egli è dentro le mura: e me qui ingannò Atena. Ora, lo so, mi è vicina la triste fine, non sta tanto a venire. E non c’è scampo. Si, tutto è chiaro: da tempo così volevano Zeus e il figlio di Zeus, l’Arciere, che pur in passato mi proteggevano benevoli. Oggi, ecco, mi raggiunge il destino. Ma non devo, no, perire senza lotta e senza gloria. Voglio compiere qualcosa di grande, che anche i posteri vengano a sapere.»


Scene di trasfigurazione.

Gesù e Odisseo vengono entrambi trasformati, per rivelare la loro vera identità ai loro rispettivi intimi (Pietro, Giacomo e Giovanni per Gesù, Telemaco per Odisseo).
Sia Telemaco che Pietro intesero adorare il dio che sembravano avere di fronte, al punto da credere il primo di avere di fronte un dio a cui offrire doni, e il secondo di dover costruire una tenda per l'adorazione.
''Con una tunica e un mantello nuovissimo'' Atena rivestì Odisseo, laddove nel caso di Gesù ''le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche''.
Come Odisseo rifiutò i doni da Telemaco e rivelò di essere suo padre, così una voce rimprovera Pietro e disse che Gesù era il Figlio di Dio.
Ovviamente, con tanto della ripetizione del tema del Segreto Messianico!




Diceva loro: «In verità io vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza». Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti.
(Marco 9:1-9)





Atena gli disse:
«Figlio di Laerte, divino Odisseo, dal grande ingegno, parla, ora, a tuo figlio, non nasconderti più. Morte e rovina dovete ordire ai Pretendenti e insieme recarvi alla città gloriosa. Io stessa sarò vicina a voi, pronta a combattere».
Disse così, e con la bacchetta d'oro lo toccò, la dea Atena. E per prima cosa lo rivestì con una tunica e un mantello nuovissimo, e poi lo fece giovane e bello: bruno, di nuovo, il colorito, tesa la pelle del volto, scura la barba intorno al mento. Dopo aver fatto questo, andò via. Tornava nella capanna Odisseo. Restò stupefatto suo figlio, distolse lo sguardo temendo che fosse un dio, e rivolgendogli la parola gli disse:
«Diverso mi sembri, ospite, da come eri prima, altre vesti indossi, non è più lo stesso il colore del volto. Certo tu sei un dio, di quelli che il vasto cielo possiedono. Sii dunque propizio, ti faremo sacrifici graditi, e oro ben lavorato ti offriremo in dono: abbi pietà di noi».
Gli rispose il paziente, divino Odisseo:
«Non sono un dio. Perchè mi paragoni a un immortale? Sono tuo padre, quello per cui tu piangi e soffri tanto dolore, subendo la violenza dei Proci».
Disse così, e baciò suo figlio, mentre dalle guance gli cadevano a terra le lacrime che prima aveva sempre frenato.
E ancora gli disse Telemaco, non credendo che fosse suo padre:
«No, tu non sei Odisseo, non sei mio padre, è un dio che mi illude perchè io soffra e pianga ancora di più. Non può fare questi prodigi un uomo mortale, da solo, se non interviene un dio che facilmente può renderlo giovane o vecchio, se vuole. Tu poco fa eri un vecchio e vestivi miseri cenci: e ora somigli agli dei che il vasto cielo possiedono».
A lui rispose l'accorto Odisseo:
«Non è bello, Telemaco, che ti stupisca e ti meravigli a tal punto perchè tuo padre è tornato. Qui non giungerà mai più un altro Odisseo: sono io che, dopo aver tanto errato e tanto sofferto, sono giunto dopo vent'anni alla terra dei padri. E questa è opera di Atena, la predatrice, che mi ha trasformato come voleva -- lei infatti può farlo -- e ora mi ha fatto simile a un mendicante, ora a un giovane uomo che indossa le vesti bellissime. È facile per gli dei, che il vasto cielo possiedono, fare splendido o miserabile un uomo mortale».
Così disse, e si mise a sedere. E Telemaco, abbracciando il padre glorioso, versava lacrime fitte. Entrambi avevano voglia di piangere, e piangevano forte, gemendo più degli uccelli, più delle aquile o degli avvoltoi dagli artigli ricurvi a cui i contadini rubarono i piccoli prima che avessero messo le ali. Così, pietosamente, versavano lacrime da sotto le ciglia.

Non posso fare a meno di notare un sottile indizio gnostico nella scena della Trasfigurazione: Mosè, Elia e Gesù e Pietro e Giovanni e Giacomo sembrano come messi in riga, per sentire da Dio che il suo unico figlio prediletto è Gesù: non Mosè, non Elia, non Pietro, non Giovanni, non Giacomo, MA SOLO GESÙ.



Due ciechi che recuperano la vista.


Gesù è circondato da molta folla mentre Odisseo da molte anime dei defunti. Gesù incontra il cieco Bartimeo mentre va per morire a Gerusalemme e Odisseo Tiresia, il cieco veggente nell'Ade. Bartimeo, anche se cieco, riconosce in Gesù il ''figlio di Davide''. Tiresia, anche se cieco, riconosce in Odisseo il figlio di Laerte. Bartimeo recupera la vista e segue Gesù, laddove Odisseo lascia Tiresia non potendo fare nulla per lui. Bartimeo getta il suo mantello, simbolo della morte. Timeo Bartimeo significa ''Timeo figlio di Timeo'', ed oltre ad alludere al titolo omonimo di un dialogo platonico (che parla guardacaso della vista) e a spiegare implicitamente al lettore cosa significa in aramaico ''bar'' (ovvero ''figlio di'') così da consentirgli di riconoscere chi era ''Gesù Barabba'', è l'unico nome dato ad uno che viene guarito da Gesù, in Marco, gli altri miracolati essendo tutti anonimi. Tiresia è un nome simbolico, a significare ''segno'' o ''portento'', ed è curioso notare come Clemente di Alessandria racconta che Cristo arrivò addirittura a guarire Tiresia dalla sua cecità e a fargli lasciare l'Ade per salire in paradiso: evidentemente Cristo era riuscito dove persino Odisseo aveva fallito!



E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
(Marco 10:46-52)


Giunse infine l'anima del tebano Tiresia: impugnava uno scettro d'oro, mi riconobbe e mi disse:
''Divino figlio di Laerte, Odisseo dal grande ingegno, perchè hai lasciato la luce del sole, perchè sei venuto a vedere i morti in questo tristissimo luogo? Ma dalla fossa allontanati, allontana la spada affilata, perchè io possa bere il sangue e dirti le verità''.
Così parlò e io indietreggiai e riposi nel fodero la spada ornata d'argento. Dopo che ebbe bevuto il sangue scuro, allora il nobile profeta mi disse:
''Un dolce ritorno tu cerchi, glorioso Odisseo; amaro invece te lo farà un dio. Non credo che potrai sfuggire a Poseidone, all'ira che cova nel cuore perchè gli accecasti suo figlio. Ma anche così, tra molte sventure, potrai arrivare se riuscirai a frenare l'animo tuo e dei compagni quando con la solida nave approderai all'isola Trinachia, sfuggendo al mare dai riflessi violacei: là troverete al pascolo le vacche e le pecore fiorenti del Sole, che vede e sente ogni cosa. Se non tocchi le bestie, se pensi al ritorno, allora, pur tra molti dolori, potrete giungere a Itaca. Ma se fai loro del male, allora io ti dico che sarà la fine per te, per la nave e per i tuoi uomini. Troverai, nella tua casa, sciagure, uomini tracotanti che ti divorano i beni, corteggiano la tua sposa divina, le offrono doni. Della loro violenza ti vendicherai, al tuo ritorno. Ma quando, nella tua casa, avrai ucciso i Pretendenti, con l'inganno o affrontandoli con le armi taglienti, prendi allora il remo e rimettiti in viaggio fino a che giungerai presso genti che non conoscono il mare, da uomini che non mangiano cibi conditi col sale, che non conoscono navi dalle prore dipinte di rosso, né gli agili remi che sono ali alle navi. Ti indicherò un chiaro segno, che non potrà sfuggirti: quando un altro viandante, incontrandoti, ti dirà che sulla spalla porti un ventilabro, pianta allora in terra il tuo agile remo, offri al dio Poseidone sacrifici perfetti -- un montone, un tooro, un verro che monta le scrofe -- e fa ritorno a casa: qui offri sacre ecatombi agli dei immortali che possiedono il cielo infinito, a tutti, senza escludere alcuno. La morte verrà per te lontano dal mare, ti coglierà nella vecchiaia ricca di beni, e sarà dolce. Avrai, intorno a te, un popolo felice. Questa è la verità che ti dico''.
...
Così disse e tornò nelle case di Ade l'anima di Tiresia, dopo che ebbe dato il responso.



Punto di svolta: 

l'arrivo a Gerusalemme/l'arrivo ad Itaca

Una volta arrivato ad Itaca, Odisseo dovrà vedersela solo con nemici mortali e non più mostri o divinità.
Una volta arrivato a Gerusalemme, Gesù dovrà affrontare ben altra specie di demoni: i suoi nemici che avevano fatto della sua casa ''un covo di ladri''.


Parodia di entrate trionfali.

Dennis MacDonald ricorda come l'entrata furtiva di Odisseo nella città dei Feaci era tutto fuorchè un modello per come si dà il benvenuto agli stranieri. Dunque, una classica parodia dell'autentica ospitalità da dare all'ospite, in quanto Odisseo fino all'ultimo teme di non essere ben accolto. Se Marco si servì di questa parodia per inventarsi l'ingresso pomposo di Gesù a Gerusalemme, allora aveva due obiettivi: quell'ingresso non era affatto simile a quello di tanti altri comuni messianisti dell'epoca a Gerusalemme, perchè Gesù non era un semplice ''figlio di Davide'' ma era il Figlio di Dio, e quell'ingresso doveva essere pomposo il più possibile per indurre all'ironia quando messo a confronto con l'uscita di Gesù da Gerusalemme, che di lì a poco avverrà, sulla via per il Golgotha. Questo smonta completamente la fiducia dell'apologeta cristiano Mauro Pesce nella storicità dell'ingresso trionfale in Gerusalemme, reo di non riconoscere adeguatamente la strategia narrativa dietro di essa, che riduce virtualmente a zero il suo preteso (dal folle apologeta) ''alto tasso di storicità''.

Stesso arrivo come straniero e privo di mezzi.
Stesso invio di qualcuno per trovare ciò di cui si ha bisogno (Gesù di un asino, Nausicaa di pulire i panni per ordine di Atena).
Uno straniero soddisfa la richiesta (i discepoli trovano l'asino col permesso del suo padrone, e Nausicaa ottiene il permesso del padre).
I discepoli pongono i mantelli sull'asino e vi montano sopra Gesù, mentre Nausicaa colloca i vestiti sul carro e lo conduce.

Gesù è salutato come un re ma entra inappropriatamente a dorso di un asino non suo e con mantelli dei discepoli a mò di sella: è una parodia dell'idea che Gesù fosse un mero re davidico? Una parodia della falsa ospitalità che riceverà come mero re davidico, contrapposta ironicamente alla sua drammatica uscita da Gerusalemme?

Odisseo, anche se è un re, fa il suo ingresso nella città dei Feaci indossando vestiti altrui e sedendo su un carro che trasporta il bucato.

La folla saluta il messia davidico, senza sapere che la stessa folla approverà la morte di Gesù. Una parodia dell'attesa ebraica del Messia davidico tradizionale?
I Feaci pensano che Odisseo fosse una divinità, e che il suo arrivo fosse volontà di Zeus.

Gesù quindi entra nel Tempio, guardando ''ogni cosa attorno''. Anche Odisseo entra nella città dei Feaci e nel palazzo reale, guardando ogni cosa ''con stupore'', ''stupito''''tutto ammirato nell'animo''. L'Odissea si dilunga a descrivere ogni particolare che vide....

...compreso alberi di fico che portano frutto fuori stagione.

Lo stesso albero che Gesù vide. E maledì.

E intanto non posso fare anche a meno di notare che Nausicaa incontra Odisseo dopo aver lavato i vestiti al fiume, per coprire puntualmente la sua nudità: anche nel quarto vangelo Gesù incontra la Samaritana al pozzo, per soddisfare puntualmente la sua sete, evidentemente perchè non gli servivano, a differenza di Odisseo, dei vestiti!




Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: “Perché fate questo?”, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”». Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate questo puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare. Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano:
«Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!».  Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, uscì con i Dodici verso Betània. La mattina seguente, mentre uscivano da Betània, ebbe fame. Avendo visto da lontano un albero di fichi che aveva delle foglie, si avvicinò per vedere se per caso vi trovasse qualcosa ma, quando vi giunse vicino, non trovò altro che foglie. Non era infatti la stagione dei fichi. Rivolto all’albero, disse: «Nessuno mai più in eterno mangi i tuoi frutti!». E i suoi discepoli l’udirono.

(Marco 11:1-14)




Là dormiva così, i paziente divino Odisseo, vinto dalla stanchezza e dal sonno.
Atena si recò intanto alla città dei Feaci.
...
Andò verso la casa dai ricchi ornamenti dove dormiva -- simile a una dea nel volto e nella figura -- una fanciulla, Nausicaa, figlia del grande Alcinoo.
...
A lei somigliando disse la dea dagli occhi lucenti:
«Perchè sei così negligente, Nausicaa? Giacciono trascurate le splendide vesti, e il giorno delle tue nozze è vicino, quando dovrai indossarle tu stessa, e offrirle a coloro che ti condurranno lontano. È così che grande fama si diffonde tra gli uomini, e padre e madre ne sono lieti. Appena sorge l'alba, andiamo a lavare le vesti. Io ti seguirò e ti aiuterò perchè tu sia pronta al più presto. Non resterai a lungo fanciulla: da tempo ti chiedono in sposa i migliori fra tutti i Feaci, alla cui stirpe tu stessa appartieni. Orsù, chiedi al tuo nobile padre che ti prepari, all'alba, il carro e le mule, per trasportare  vesti, pepli e mantelli stupendi; per te sarà molto meglio che andare a piedi, sono molto lontani dalla città i lavatoi».
...
E si levò l'Aurora dal bellissimo trono, destando Nausicaa dal peplo leggiadro. Stupì del sogno, e si avviò attraverso la casa per annunciarlo ai genitori, al padre e alla madre amatissimi.
...
Non voleva parlare di nozze a suo padre, ma lui capì tutto e rispose:
 «Non ti nego certo le mule, figlia, né nessun'altra cosa. Va. I servi ti prepareranno un carro alto, munito di sponde e ruote scorrevoli».
...
Ma quando alle belle acque del fiume furono giunte, dov'erano i lavatoi perenni, e molta limpida acqua scorrva, tanta da riplire anche vesti assai sporche, allora sciolsero dal carro le mule e verso il fiume impetuoso le spinsero, a pascolare l'erba dolcissima. Dal carro poi presero tutte le vesti, le immersero nell'acqua bruna e fecero a gara per pigiarle velocemente dentro le pozze. E dopo che ebbero lavato e ripulito tutto lo sporco, le distesero in fila in riva al mare, là dove l'acqua lava e rilava i ciottoli sulla battigia.
...
Ma quando giunse il momento di fare ritorno a casa, dopo aver aggiogato le mule e piegato le bellissime vesti, allora Aena dagli occhi lucenti pensò a fare in modo che si svegliasse Odisseo, vedesse la bella fanciulla e che lei lo guidasse alla città dei Feaci.
...
A lui rispose Nausicaa dalle candide braccia:
«Straniero, tu non mi sembri né malvagio né folle. La fortuna, è Zeus che la distribuisce agli uomini, ai buoni e ai malvagi, come vuole, a ciascuno. A te ha dato in sorte questo, bisogna che tu lo sopporti. Ma ora, poichè alla nostra città, alla nostra terra sei giunto, non ti mancheranno le vesti né nessun'altra cosa di ciò che è giusto riceva un supplice, un infelice. Ti indicherò la città, ti dirò il nome del popolo. Abitano questa città e questa terra i Feaci, e io sono la figlia del generoso Alcinoo, che tra i Feaci ha il potere supremo».
...
Mentre così pregava il paziente, divino Odisseo, le mule forti portavano in città la fanciulla Nausicaa.
...
Allora si mosse Odisseo per andare in città. E intorno a lui Atena sollecita diffuse una nebbia fittissima perchè nessuno dei fieri Feaci, incontrandolo, gli chiedesse chi era, gli rivolgesse parole di scherno.
...
E i Feaci dalle navi famose non lo videro mentre andava per la città, in mezzo a loro; non lo permisse Atena dai bei capelli -- la potentissima dea -- che, per il suo bene, lo circondò di magica nebbia.
Con stupore guardava Odisseo i porti, le navi perfette, le piazze di quella gente e le mura, alte, lunghissime, rinforzate da pali, meravigliose a vedersi.
...
Andava intanto Odisseo verso la reggia famosa di Alcinoo; e meditava a lungo nel cuore mentre sostava immobile, prima di toccare la soglia di bronzo.
Come fulgore di sole o di luna, così era l'alta dimora del generoso Alcinoo. Correvano ai lati muri di bronzo, dalla soglia fino all'interno, con un fregio di pietra azzurra all'intorno. Porte dorate chiudevano, dentro, la casa ben costruita. D'argento erano gli stipiti, sulla soglia di bronzo, d'argento l'architrave al di sopra, d'oro l'anello alla porta. Cani d'oro e d'argento stavano, all'uno e all'altro lato: li fabbricò l'arte ingegnosa di Efesto perchè fossero di guardia alla reggia del grande Alcinoo, immortali e giovani sempre. Sull'una parete e sull'altra poggiavano i troni, dalla soglia all'interno, in fila, e sopra posavano drappi sottili, tessuti con cura, lavoro di donne. Qui sedevano i principi dei Feaci, per mangiare e per bere in abbondanza. Su piedistalli ben fatti si ergevano dei giovinetti d'oro che tra le mani portavano fiaccole ardenti, illuminando la notte a coloro che pranzavano dentro la casa. Cinquanta sono le donne che servono in casa di Alcinoo. Alcune macinano alle mole il grano maturo, altre tessono tele e fanno girare il fuso e, così sedute, sembrano foglie di altissimo pioppo. Stilla il limpido olio dai fili appesi al telaio. Come gli uomini sono più di ogni altro esperti a condurre le navi veloci sul mare, così le donne sono abili a tessere tele; a loro più che a ogni altra Atena ha concesso il dono di fare opere splendide e di avere saggi pensieri.
Fuori dall'atrio, vicino alle porte, si apre un vasto giardino: da una parte e dall'altra lo cinge una siepe. Grandi alberi crescono qui rigogliosi, peri, melograni, meli dai frutti lucenti, fichi dolcissimi, olivi fiorenti. Non finiscono mai di dar frutto, per tutto l'anno fioriscono, d'inverno e d'estate per tutto l'anno e sempre il soffio di Zefiro fa nascere alcuni, altri matura. La pera sulla pera invecchia, sulla mela la mela, l'uva sull'uva, il fico sul fico. C'è una vigna piena di grappoli, alcuni sono messi a seccare al sole, in luogo aperto, di altri fanno vendemmia, altri ancora li pigiano; ma vi sono anche grappoli acerbi, appena fioriti, e altri che cominciano a maturare. Lungo l'estremo filare crescono, ben ordinate, piante di ogni sorta che fioriscono per tutto l'anno. E vi sono due fonti, una scorre per tutto il giardino, l'altra, da parte opposta, sotto la soglia dell'atrio scorrendo raggiunge l'alto palazzo: qui i cittadini attingono l'acqua.
Questi erano i doni splendidi che gli dei fecero alla casa di Alcinoo.
Immobile, guardava stupito il paziente divino Odisseo, ma quando ebbe tutto ammirato nell'animo, rapido varcò la soglia ed entrò nella casa. Torvò principi e consiglieri feaci che libavano al Messaggero dall'occhio acuto: era l'ultimo a cui libavano, quando pensavano al sonno. Attraversò la sala il paziente divino Odisseo, avvolto nella nebbia che Atena gli versava intorno, e giunse accanto al re Alcinoo e ad Arete.Alle ginocchia di Arete stese le braccia Odisseo ed ecco allora la magica nebbia si sciolse. Tacquero tutti nella sala, al vederlo, lo guardavano con meraviglia. Intanto pregava Odisseo:
«Figlia del divino Rexenore, Arete, alle ginocchia tue e del tuo sposo io vengo, dopo aver molto sofferto, davanti a questi invitati: gli dei concedano loro la fortuna di vivere e di lasciare ai figli la ricchezza in casa e l'onore concesso dal popolo. A me date invece una scorta, che al più presto possa giungere in patria perchè da tempo, lontano dalla famiglia, vado soffrendo».
Disse così, e sul focolare sedette, nella cenere, vicino al fuoco. Tutti rimasero muti, in silenzio, Prese infine a parlare il vecchio Echenoo, un anziano che sapeva molte e antiche cose e nel parlare eccelleva. Con saggezza fra loro prese a parlare e disse:
«Non è bello, Alcinoo, non è degno di te che un ospite sieda per terra, nella cenere del focolare. Tutti aspettano che tu parli. E duqnue fa alzare l'ospite e fallo sedere su un trono ornato d'argento, agli araldi da' ordine di versare il vino, affinchè libiamo al Signore del fulmine che accompagna i supplici sacri. E all'ospite la dispensiera offra la cena, con quello che c'è nella casa».
Udite queste parole, il re potente prese la mano di Odisseo, saggio ed accorto, lo levò dal focolare e lo mise a sedere sul trono lucente, dopo aver fatto alzare il forte Laodamante suo figlio, che gli sedeva vicino e che a lui più di ogni altro era caro. Venne un'ancella portando l'acqua lustrale in una brocca d'oro, bellissima, e in un bacile d'argento la versò perchè si lavasse. Accanto pose un tavolo ben levigato. Venne la dispensiera portando del pane e molte vivande che con larghezza dispose. E il divino Odisseo mangiava e beveva.


Purificazione del tempio/Strage dei Proci.


La casa di Gesù e di Odisseo era infestata da ladri. Un pò di casino era necessario, con tanto di tavoli e sedie capovolti.



Entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e quelli che compravano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe e non permetteva che si trasportassero cose attraverso il tempio. E insegnava loro dicendo: «Non sta forse scritto:
La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni? 
Voi invece ne avete fatto un covo di ladri».
Lo udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutta la folla era stupita del suo insegnamento. Quando venne la sera, uscirono fuori dalla città.

(Marco 11:15-17)



E Odisseo ferì da vicino Agelao con l'asta lunghissima; Telemaco colpì al ventre Leocrito figlio di Evenore e spinse l'arma a fondo; cadde bocconi Leocrito e col volto percosse la terra. Allora in alto, sul soffitto, Atena sollevò l'egida che annienta i mortali. Si sconvolsero le menti dei Proci. Fuggivano per la sala come le vacche di una mandria che il tafano veloce assale e scompiglia a primavera, quando i giorni si allungano. E gli altri erano come avvoltoi dagli artigli e dal becco ricurvo che dai monti calano e sugli uccelli si avventano: questi volano bassi nella pianura fuggendo le nuvole ma gli altri piombano su di loro e li uccidono, non c'è difesa né scampo; gode la gente a vedere la caccia. Così essi assalivano i Pretendenti nella sala e li colpivano da ogni parte; saliva penoso il lamento, il suolo fumava di sangue.


Parabola degli amministratori disonesti:

Anche Odisseo edificò la sua casa. Anche Odisseo lasciò i suoi servi in custodia. Anche Odisseo partì per Troia. Anche i Proci abusarono dei servi del padrone.
Anche i Proci abusarono dei beni del padrone. Anche Telemaco rivendicò il possesso della sua autorità.
Anche i Proci tramarono per uccidere Telemaco, così da impossessarsi di Itaca. Anche i Proci tendono un agguato a Telemaco ma lui riesce ad eluderlo. Anche Odisseo ritorna. Anche Odisseo stermina i Proci. Anche i Proci temevano il popolo di Itaca così agirono con cautela, laddove i farisei temono la folla così non arrestano di giorno Gesù, ma di notte, come in ogni cospirazione che si rispetti.



Si mise a parlare loro con parabole: «Un uomo piantò una vigna, la circondò con una siepe, scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Al momento opportuno mandò un servo dai contadini a ritirare da loro la sua parte del raccolto della vigna. Ma essi lo presero, lo bastonarono e lo mandarono via a mani vuote. Mandò loro di nuovo un altro servo: anche quello lo picchiarono sulla testa e lo insultarono. Ne mandò un altro, e questo lo uccisero; poi molti altri: alcuni li bastonarono, altri li uccisero. Ne aveva ancora uno, un figlio amato; lo inviò loro per ultimo, dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma quei contadini dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e l’eredità sarà nostra!”. Lo presero, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna. Che cosa farà dunque il padrone della vigna? Verrà e farà morire i contadini e darà la vigna ad altri. Non avete letto questa Scrittura:
La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore  ed è una meraviglia ai nostri occhi?».
E cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano capito infatti che aveva detto quella parabola contro di loro. Lo lasciarono e se ne andarono.

(Marco 12:1-12)


Il dono della vedova

A divorare le ricchezze della vedove non erano solo i farisei ma anche i Proci, specie quando la vedova in questione è Penelope, la cui generosità verso uno straniero, in particolare, serviva ad illuminare, per contrasto, la cupidigia dei suoi pretendenti.


Diceva loro nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa». Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
(Marco 12:38-44)


Incominciò infine Agelao di Damastore:
«Amici, a chi ha parlato in modo giusto, non rispondete con parole aggressive». Non maltrattate più lo straniero, e nessun altro dei servi, nella dimora del divino Odisseo. A Telemaco e a sua madre io vorrei dare un moderato consiglio, che sia gradito al cuore di entrambi. Finchè speravate, nell'animo vostro, che tornasse nella sua casa il saggio Odisseo, non era ingiusto aspettarlo e in casa tenere a bada i Proci, anzi era meglio così, se Odisseo ritornava, se giungeva alla sua casa. Ma ormai è ben chiaro, egli non tornerà. Siediti dunque accanto a tua madre e dille di sposare il Pretendente più illustre, che le offre più doni; così tu, lieto, governerai i beni paterni, mangiando e bevendo, e lei curerà la casa di un altro».
Gli rispose il saggio Telemaco:
«O Agelao, in nome di Zeus e di mio padre infelice, che forse lontano da Itaca è morto o ancora va errando, io non impedisco le nozze anzi spingo mia madre a sposare chi vuole e le offro doni infiniti. Ma suo malgrado non voglio mandarlo via dalla casa, obbligandola: dio non lo voglia».
Così disse Telemaco.
E Pallade Atena sconvolse la mente dei Proci, che ridevano sfrenatamente; ridevano in modo strano e mangiavano carne; gli occhi erano pieni di lacrime, sentivano voglia di piangere.

Marco 13.

È per antonomasia il capitolo più apocalittico di Marco.
I discepoli sono meravigliati dinanzi alla grandezza del tempio, proprio come Telemaco lo fu di una luce improvvisa che illuminò la sua casa, per essere entrambi ammoniti dalle loro rispettive guide. E se Gesù si rinuì da solo in privato con soli 4 intimi sul Getsemani, così pure Odisseo fu interrogato in privato da Penelope. Come Gesù assicurò di dare segni del suo ritorno così Odisseo rassicurò Penelope fornendo segni del suo prossimo ritorno. Gesù rese un presagio la maledizione dell'albero di fico, laddove Odisseo parlò del segno profetico di una ''divina quercia''. E da ultimo, sia Gesù che Odisseo pronunciano a momenti quasi la stessa frase:


''egli è vicino... [il cielo e la terra] passeranno'' (Gesù).

''egli è vivo e tornerà molto presto... queste cose si compiranno'' (Odisseo)


Mentre usciva dal tempio, uno dei suoi discepoli gli disse: «Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!». Gesù gli rispose: «Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta». Mentre stava sul monte degli Ulivi, seduto di fronte al tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte: «Di’ a noi: quando accadranno queste cose e quale sarà il segno quando tutte queste cose staranno per compiersi?». Gesù si mise a dire loro: «Badate che nessuno v’inganni! Molti verranno nel mio nome, dicendo: “Sono io”, e trarranno molti in inganno. E quando sentirete di guerre e di rumori di guerre, non allarmatevi; deve avvenire, ma non è ancora la fine. Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno terremoti in diversi luoghi e vi saranno carestie: questo è l’inizio dei dolori. Ma voi badate a voi stessi! Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe e comparirete davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro. Ma prima è necessario che il Vangelo sia proclamato a tutte le nazioni. E quando vi condurranno via per consegnarvi, non preoccupatevi prima di quello che direte, ma dite ciò che in quell’ora vi sarà dato: perché non siete voi a parlare, ma lo Spirito Santo. Il fratello farà morire il fratello, il padre il figlio, e i figli si alzeranno ad accusare i genitori e li uccideranno. Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato. Quando vedrete l’abominio della devastazione presente là dove non è lecito – chi legge, comprenda –, allora quelli che si trovano nella Giudea fuggano sui monti, chi si trova sulla terrazza non scenda e non entri a prendere qualcosa nella sua casa, e chi si trova nel campo non torni indietro a prendersi il mantello. In quei giorni guai alle donne incinte e a quelle che allattano!  Pregate che ciò non accada d’inverno; perché quelli saranno giorni di tribolazione, quale non vi è mai stata dall’inizio della creazione, fatta da Dio, fino ad ora, e mai più vi sarà. E se il Signore non abbreviasse quei giorni, nessuno si salverebbe. Ma, grazie agli eletti che egli si è scelto, ha abbreviato quei giorni.  Allora, se qualcuno vi dirà: “Ecco, il Cristo è qui; ecco, è là”, voi non credeteci; perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno segni e prodigi per ingannare, se possibile, gli eletti. Voi, però, fate attenzione! Io vi ho predetto tutto. In quei giorni, dopo quella tribolazione,
il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.  Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.  In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.

(Marco 13:1-31)



Si levarono allora, Odisseo e il suo splendido figlio, e dentro riposero gli elmi e gli scudi convessi e le lance di legno di faggio: davanti a loro Pallade Atena con una lucerna d'oro faceva una luce bellissima. Allora Telemaco disse a suo padre:
«Padre mio, quale spettacolo vedono mai i miei occhi: mi sembra che le mura di tutta la casa, e le belle campate, le travi di legno di pino e le alte colonne splendano come fuoco che arde. Qui dentro c'è uno dei numi che possiedono il cielo vastissimo».
Gli rispose l'accorto Odisseo:
«Taci, trattieni i pensieri, non fare domande: così fanno gli dei, signori d'Olimpo. Tu ora va a dormire, io invece rimarrò qui, per mettere ancora alla prova le ancelle e tua madre: lei mi chiederà ogni cosa, piangendo».
...
Le rispose l'accorto Odisseo:
«Nobile sposa del figlio di Laerte, Odisseo, non sciupare più il tuo bel viso, non consumare il tuo cuore piangendo lo sposo. Io non ti biasimo: piange qualunque donna abbia perduto il suo sposo, l'uomo che ha amato e a cui ha dato dei figli, anche se non è Odisseo, che dicono fosse pari agli dei. Tuttavia smetti di piangere e ascolta le mie parole. Sinceramente ti dico, non te lo nascondo, che del ritorno di Odisseo ho udito parlare qui vicino, nella ricca terra dei Tesproti: egli è vivo, e porta con sè molte, preziose ricchezze, che ha raccolto fra il popolo. Ma ha perduto i fedeli compagni e la concava nave sul mare colore del vino quando partì dall'isola Trinachia: erano irati con lui Zeus ed il Sole, perchè i suoi compagni uccisero le vacche del Sole».
...
Così mi narrava il re dei Tesproti, Fidone: e mi giurava, libando nella sua casa, ch'era già in mare la nave ed erano pronti gli uomini che l'avrebbero ricondotto nella terra dei padri. Ma prima fece peartire me: c'era una nave dei Tesproti che andava a Dulichio ricca di grano. E mi mostrò le ricchezze che aveva raccolto Odisseo: potrebbero mantenere un uomo fino alla decima generazione tutti i tesori che egli aveva nella dimora del re. E disse che era andato a Dodona per domandare allla quercia divina dalle altissime fronde il consiglio di Zeus, come poteva tornare alla terra dei padri da cui era lontano da tempo, se apertamente oppure in segreto. E dunque egli è vivo e tornerà molto presto, non resterà a lungo lontano dai suoi, dalla sua terra. E ora farò un giuramento, Zeus, per primo lo sappia, che fra gli dei è il più grande, e il focolare del nobile Odisseo a cui sono giunto: queste cose si compiranno come io dico. Quando una luna cala e l'altra incomincia, in questo tempo farà ritorno Odisseo».


Parabola dei servi che aspettano il ritorno del padrone.

Non c'è bisogno di rammentare la trama dell'Odissea.


Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».
(Marco 13:33-37)


Unzione del capo di Gesù / Lavaggio dei piedi di Odisseo

Euriclea entra con un bacile d'acqua per lavare i piedi di un mendicante, che è Odisseo sotto mentite spoglie. Gesù entra in casa di un lebbroso e subito dopo entra una donna con un vaso di alabastro pieno di olio costoso, con cui ungere il capo di Gesù, previa rottura di quel vaso, e parimenti anche il bacile di Euriclea si rovesciò, riversando per terra l'acqua. Anche Euriclea doveva poi ungere d'olio Odisseo. La donna anonima soltanto riconobbe Gesù, e solo Euriclea riconobbe l'identità di Odisseo tra i presenti. Gesù promette alla donna anonima che sarà ricordata in tutto il mondo, parimenti il nome ''Euriclea'' significa "scopritrice di gloria": kléos infatti vuol dire "fama", "gloria", mentre "eurein" vuol dire "scoprire", "trovare", "inventare". Giuda poi si precipitò dai sacerdoti per tradire Gesù, e allo stesso modo Euriclea si ripromette di dire a Odisseo quali delle ancelle lo stavano tradendo alleandosi con i Proci.



Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo.  Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto». Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù.
(Marco 14:3-10)


Quella ferita toccò con le mani aperte la vecchia, toccandola la riconobbe e lasciò andare il piede. Nel bacile cadde la gamba, risuonò il recipiente di bronzo e si inclinò da un a parte: l'acqua si versava per terra. Gioia e dolore insieme le presero il cuore, le si empirono gli occhi di lacrime, le venne a mancare la voce. E toccando il mento di Odisseo, così parlava:
«Tu sei Odisseo, figlio mio caro: e prima non ti riconobbi, non riconobbi il mio re, prima di averlo toccato».
Disse, e volse gli occhi a Penelope per dirle che il suo amato sposo era lì, nella casa. Ma lei non poteva guardarla in viso e comprendere, le distole la mente Pallade Atena. Con una mano allora Odisseo l'afferrò alla gola, e con l'altra la trasse a sé e le disse:
«Madre, vuoi la mia morte, tu, che mi hai nutrito al tuo petto? Sono giunto nella mia terra dopo vent'anni, e ho sofferto molti dolori. Ma poichè hai compreso, un dio te l'ha messo nel cuore, taci, che nessun altro in casa lo venga a sapere. E questo ti dirò, e questo avrà compimento: se un dio per mano mia abbatterà i nobili Pretendenti, non risparmierò te, che sei la mia nutrice, quando le altre donne ucciderò nella casa».
Gli rispose la saggia Euriclea:
Figlio mio, quale parola ti è uscita di bocca? Tu sai com'è saldo il mio volere, e inflessibile: sarò come dura roccia o come ferro. E ti dirò una cosa, imprimila bene nel cuore: se per mano tua un dio abbatterà i nobili Pretendenti, io ti indicherò quali sono in casa le donne che non ti rispettano e quelle prive di colpa».
Le rispose l'accorto Odisseo:
«Perchè vorresti dirmi chi sono? Non è necessario; io stesso lo capirò, conoscerò io stesso ciascuna. Tu conserva il segreto e affidati agli dei».





Nella casa del lebbroso.


Ad accogliere Odisseo è un disprezzato guardiano di porci, Eumeo. E anche l'ospite di Gesù era un fuoricasta.


Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso.
(Marco 14:3)

«O vecchio, per poco non ti sbranavano i cani e tu mi avresti coperto di insulti. Altri dolori ancora, altre pene mi hanno inflitto gli dei: me ne sto qui a soffrire e a piangere il mio divino padrone, mentre per gente estranea nutro grassi maiali perchè se li mangino: e lui forse non ha bisogno di cibo e se ne va errando in città e paesi stranieri, se pure è ancora vivo e vede la luce del sole. Ma ora seguimi, vecchio, entriamo nella capanna perchè ti sazi di cibo e bevanda e possa dirmi poi da dove vieni e quali pene hai sofferto».
Disse così, il divino guardiano, e nella capanna lo precedeva, lo fece entrare e sedere, ammucchiò delle frasche e sopra vi stese il suo stesso giaciglio, il vello ampio e folto di una capra selvatica. Fu lieto Odisseo che lo accogliesse così, e gli rivolse la parola dicendo:
«Zeus e gli altri immortali ti concedano, ospite, quello che più desideri, perchè mi hai accolto con amicizia».




Teofagia & cannibalismo

Gesù e Odisseo mandano due uomini per preparare il terreno (per celebrare la Pasqua il primo e per investigare sugli abitanti dell'isola il secondo).
I due uomini trovano in ciascun caso qualcuno che trasporta acqua, all'ingresso della città (rispettivamente un uomo e una fanciulla). E se in Marco trovarono ''al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta'' nell'Odissea trovarono un'''alta dimora'' e una ''casa sontuosa''. E se in Marco prepararono per la Pasqua, ovvero il mistero dell'Eucarestia con tanto di carne e sangue di Gesù da mangiare simbolicamente, nell'Odissea i Lestrigoni mangiarono uno dei due esploratori di Odisseo.



Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
(Marco 14:12-16)





Allora mandai dei compagni a informarsi chi fossero gli uomini che su quella terra vivevano. Scelsi due uomini, terzo aggiunsi l'araldo. Sbarcati, andavano per la via piana dove passano i carri che dagli alti monti portano legna in città. E, davanti alla città, incontrarono una fanciulla che andava ad attingere acqua, era la nobile figlia di Antifate re dei Lestrigoni: andava alla fonte Artachia dalla bella corrente, da dove portavano l'acqua fino in città. Ed essi le si avvicinarono e chiesero chi fosse il re di quel paese e su chi regnasse. Subito lei indicò l'alta dimora del padre. Ma quando furono giunti alla casa sontuosa, una donna trovarono, grande come una montagna, e ne ebbero terrore. Subito lei dalla piazza chiamò il glorioso Antifate che era il suo sposo e che preparò per loro una misera fine. Uno dei miei compagni afferrò, e ne fece il suo pasto; si diedero gli altri alla fuga e giunsero fino alle navi. Ma il re lanciò un richiamo per la città: e, udendolo, i forti Lestrigoni accorrevano da ogni parte, a migliaia, e non somigliavano a uomini, ma a Giganti. Scagliavano dalle rocce dei massi che un uomo non può sollevare: e sulle navi si levava un frastuono tremendo di uomini uccisi, di navi spezzate.




Ultima cena prima della morte.


L'ultima cena per Gesù e discepoli corrisponde al banchetto finale con Circe per Odisseo e la sua ciurma.
Dopo il pasto in entrambe le scene si va a dormire.
Mentre l'eroe di turno, in un caso va a pregare Dio e nell'altro caso quasi implora Circe di poter tornare finalmente a casa.
...Per poi realizzare il proprio vero destino: la morte per Gesù, la discesa nell'Ade per Odisseo.
L'eroe di turno in ciascun caso si dispera a morte.
...Per poi rassegnarsi al proprio destino.
...E ritrovare i propri uomini ancora a dormire (i discepoli di Gesù al Getsemani).
Con tanto di monito continuo a risvegliarsi perchè si son riposati abbastanza e devono ancora e ancora viaggiare, perchè il viaggio è lungi dall'essersi concluso.
E non aveva appena finito di parlare, che un giovane fugge (in Marco) e muore (in Odisseo).


E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». 
 ...
Giunsero a un podere chiamato Getsèmani ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu». Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole. Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».
...
Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo. 
(Marco 14:22-25, 32-42, 51-52)


E per quel giorno, fino al tramonto del sole, sedevamo mangiando carne in quantità e vino dolcissimo. Ma quando tramontò il sole e giunse la tenebra, si addormentarono nelle stanze piene di ombra. E io salii sullo splendido letto di Circe e presi a supplicarla -- la dea mi ascoltava -- le parlai e le dissi:
''O Circe, compi la tua promessa, fammi tornare. Lo desidera ormai il mio cuore e quello degli altri compagni che mi tormentano l'animo piangendomi intorno, appena tu ti allontani''.
Così dicevo, e subito mi rispose la dea:
''Divino figlio di Laerte, Odisseo dal grande ingegno, non dovete più rimanere per forza nella mia casa. Ma prima c'è un altro viaggio da compiere, dovete andare alla dimora di Ade e della tremenda Persefone, a interrogare l'anima del tebano Tiresia, il cieco profeta dalla mente perfetta: a lui solo ha concesso la dea di conservare la sua sapienza anche dolo la morte. Gli altri sono ombre che vagano''.
Disse così, e a me si spezzò il cuore. Seduto sul letto, piangevo, e non volevo più vivere e vedere la luce del sole.
...
Io intanto andavo per la casa e incitavo i compagni con parole suadenti, avvicinando ciascuno:
''Non dormite più, ora, non indugiate nel sonno, andiamo! La dea Circe l'ha detto!''.
Così dicevo, e persuasi il loro animo fiero. Ma neppure di là ricondussi salvi i compagni. Elpenore era il più giovane, non molto forte in guerra, non troppo saldo nell'animo; lontano dagli altri e gravato dal vino, nella sacra dimora di Circe si era disteso, cercando un pò di frescura. Udendo le voci e i rumori dei compagni che si muovevano, si alzò di scatto e scordò, nel suo cuore, di tornare alla lunga scala per scendere. A capofitto cadde dal tetto. Gli si spezzò l'osso del collo, l'anima piombò nell'Ade.
Ai compagni che si radunavano io dicevo intanto:
''Voi credete di andare a casa, nell'amata terra dei padri: ma un altro viaggio ci impone Circe, alla dimora di Ade e della tremenda Persefone, per interrogare l'anima del tebano Tiresia''.
Così parlai, e ad essi si spezzò il cuore nel petto, seduti per terra si strappavano i capelli piangendo. Ma non c'era nessun vantaggio, nel pianto. Alla riva del mare e alla nave veloce andavamo, pieni di angoscia, versando lacrime fitte, e venne anche Circe, che presso la nave legò un ariete nero e una nera pecora, senza farsi vedere: e chi mai potrebbe vedere un dio che non vuole essere visto, dovunque egli vada?

L'agonia di Gesù
Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava ... E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!
(Marco 14:35-36)


E io salii sullo splendido letto di Circe e presi a supplicarla -- la dea mi ascoltava -- le parlai e le dissi:
''O Circe, compi la tua promessa, fammi tornare.....''.


Così disse il Messaggero e mi diede l'erba che aveva strappato da terra, mi fece vedere com'era: nera la radice, bianco candido il fuore. Gli dei la chiamano moly. Estrarla non è facile, per i mortali: ma gli dei possono tutto.


...e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. ... allontana da me questo calice!... ».

(Marco 14:33-36)


...e a me si spezzò il cuore. Seduto sul letto, piangevo, e non volevo più vivere e vedere la luce del sole. Ma quando fui sazio di agitarmi e di piangere, allora le risposi con queste parole: 
''O Circe, ma chi mi guiderà per questa via?... all'Ade ...''.




La fuga del giovane nudo / La morte di Elpenore


Elpenore, ''non troppo saldo nell'animo'', ricorda da vicino il giovane nudo in Marco. La sua anima scenderà nell'Ade per incontrare lì di nuovo Odisseo. E così, il giovane riapparirebbe in Marco vestito di bianco al Sepolcro, testimone della risurrezione. Si tratta di un episodio che verrà ripreso e adattato da Platone, Virgilio, Plutarco, Apuleio, Luca e tanti altri autori cristiani.


Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.
(Marco 14:51-52)

Elpenore era il più giovane, non molto forte in guerra, non troppo saldo nell'animo; lontano dagli altri e gravato dal vino, nella sacra dimora di Circe si era disteso, cercando un pò di frescura. Udendo le voci e i rumori dei compagni che si muovevano, si alzò di scatto e scordò, nel suo cuore, di tornare alla lunga scala per scendere. A capofitto cadde dal tetto. Gli si spezzò l'osso del collo, l'anima piombò nell'Ade.




Giuda e Melanzio


Stesso ruolo di servo/seguace dell'eroe.
Stesso simbolismo del nome: Giuda allude ai giudei, Melanzio significa Nero.
Stesso amore per una maggiore ricompensa, a costo di tradire l'eroe.
Melanzio venne ricompensato con un posto a tavola tra i Proci durante le loro gozzoviglie, e anche a Giuda fu concesso un posto a tavola, nell'ultima cena, in ambo i casi immeritatamente.
Melanzio fu quasi sul punto di riconoscere Odisseo dietro quel finto mendicante sotto mentite spoglie che era, laddove anche il tradimento di Giuda consisteva nel riconoscerlo, ed il fatto che Marco non fornisce nessuna ragione del perchè servirsi di Giuda per riconoscere Gesù è un indizio che non riesce bene a incastrare il ruolo del traditore, copiato da Melanzio, nella trama che vuole costruire.
Stesso aiuto concesso ai cattivi: Melanzio rifornendo di armi i Proci, Giuda facendo da guida ad una folla armata.
Gesù augurò a Giuda di non essere mai nato, e Melanzio soffrì la più orribile e umiliante delle torture, come punizione per il suo tradimento.



Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.
(Marco 14:10-11)


Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà». Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?». Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».
(Marco 14:17-21)


E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. Il traditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta». Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò.
(Marco 14:43-45)



Subito entrò e andava a sedersi fra i Proci davanti a Eurimaco, che molto lo amava. Una porzione di carne gli offrirono i servi, la dispensiera venne a portargli il pane perchè mangiasse.
...
Impietositi essi gli davano, e stupiti, guardandolo, chiedevano l'uno all'altro chi fosse mai e da dove venisse. Prese allora a parlare Melanzio, pastore di capre:
«Pretendenti della gloriosa regina, ascoltate me, su questo straniero: io l'ho già visto. Qui l'ha portato il guardiano di porci, ma non so chiaramente chi sia».
Così parlò, ed Antinoo rimproverava il porcaro:
«Tu, disgraziato guardiano, perchè mai l'hai portato in città? Non abbiamo forse anche troppi vagabondi, pezzenti molesti, divoratori di avanzi? Ti lamenti perchè, qui riuniti, mangiamo gli averi del tuo padrone, e hai invitato costui?».
...
E ai Pretendenti si rivolse Agelao dicendo:
«Amici, non c'è nessuno che salirà alla porta, per avvertire la gente e dare l'allarme al più presto? Allora davvero costui avrebbe scagliato le frecce per l'ultima volta».
Gli rispose Melanzio, pastore di capre:
«Divino Agelao, non è possibile; sono troppo vicine le belle porte dell'atrio, è difficile l'ingresso al passaggio: anche un uomo solo, se è forte, potrebbe tener testa a tutti. Ma io dal talamo vi porterò le armi perchè le indossiate; là dentro, io credo, e non altrove, le hanno nascoste Odisseo e il suo figlio glorioso».
Così disse Melanzio, pastore di capre, e attraverso i corridoi saliva alle stanze di Odisseo. Qui prese dodici scudi, dodici lance, dodici elmi di bronzo dal folto pennacchio; e rapido ritornava e le dava ai Pretendenti. Allora Odisseo si sentì mancare il cuore e le ginocchia, come li vide vestire le armi e brandire le lance lunghissime: troppo grande gli parve l'impresa.
...
Anche Melanzio portarono fuori dall'atrio: e naso e orecchie gli troncarono col bronzo spietato e i genitali strapparono col bronzo spietato e i genitali strapparono per darli in pasto ai cani, e mani e piedi tagliarono, furenti nell'animo.





Silenzio di fronte agli accusatori & schernitori


Gesù di fronte ai sinedriti e a Pilato, Odisseo di fronte a Proci e a Melanzio che lo schernivano.


Il sommo sacerdote, alzatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». Ma egli taceva e non rispondeva nulla.
(Marco 14:60-61)

Pilato gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. Pilato lo interrogò di nuovo dicendo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!». Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito.
(Marco 15:2-5)

E venne vicino Melanzio, pastore di capre, spingendo le capre più belle del gregge per il pasto dei Proci; erano con lui due pastori; le legò sotto il portico pieno di echi e si rivolse a Odisseo con parole di scherno:
«Sei ancora qui, straniero, a dar noia per casa, mendicando tra i principi, non te ne sei andato dunque? Non ci separeremo, penso, noi due, prima di aver fatto a pugni, perchè non mendichi come si deve. Anche altrove vi sono banchetti di Achei».
Disse così, nulla rispose l'accorto Odisseo, ma scosse la testa, meditando sciagure.



Disvelamento della vera identità dell'eroe con minaccia di tremendo giudizio

Stessa minaccia di tremendo giudizio imminente, allorchè Gesù e Odisseo ruppero finalmente il silenzio di fronte ai loro nemici.


Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Gesù rispose: «Io lo sono!
E vedrete il Figlio dell’uomo
seduto alla destra della Potenza
e venire con le nubi del cielo
»
.
Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte.

(Marco 14:61-64)


E allora dai censi si spogliò, l'accorto Odisseo, e sulla grande soglia balzò impugnando l'arco e la faretra piena di frecce, poi rovescò per terra i rapidi dardi, lì, davanti ai suoi piedi, e disse ai Pretendenti:
«La gara funesta è finita. Ora un altro bersaglio, quale nessuno mai ha colpito, io coglierò, se riesco, se Apollo mi concede la gloria».
Disse, e su Antinoo puntò il dardo amaro: lui stava alzando una coppa a due anse, d'oro, bellissima, la teneva tra le mani per bere il vino; e non pensava alla morte. Chi avrebbe immaginato che, tra gli uomini seduti al banchetto, uno solo, sia pure fortissimo, gli avrebbe inflitto il nero destino di morte? Odisseo lo prese di mira e lo colse col dardo alla gola, la punta trapassò il morbido collo. Colpito, si piegò all'indietro, la coppa gli cadde di mano, un denso fiotto di sangue scorreva dalle narici. Col piede respinse la tavola, rovesciando i cibi per terra, si insozzarono il pane e i pezzi di carne. Urlarono, i Proci, quando videro l'uomo cadere, balzarono dai loro seggi e si agitavano dentro la sala guardando ovunque verso i muri ben fatti: ma non vi era nessuno scudo, nessuna lancia. Con irate parole assalivano ancora Odisseo:
«Straniero, tu colpisci gli uomini, è male; non affronterai più altre gare, ora devi morire. Hai ucciso un uomo che era il migliore fra i giovani d'Itaca: qui gli avvoltoi ti divoreranno».
Così dicevano perchè pensavano che avesse ucciso senza volere; e non capivano, gli stolti, che erano giunti ormai al confine di morte. Con ira guardandoli disse l'accorto Odisseo:
«Cani, non pensavate che dalla terra troiana io facessi ritorno a casa, voi che divorate i miei beni, entrate a forza nel letto delle mie schiave e, me vivo, mi corteggiate la sposa senza temere gli dei che il vasto cielo possiedono, e neppure la tarda vendetta degli uomini».
Disse, e lividi per il terrore divennero tutti, ognuno guardava dove potesse scampare all'abisso di morte.



Barabba e Iro il re-mendicante


Barabba (che significa ''figlio del padre'') fu il sedizioso presentato come alternativa al vero re e Figlio del Padre Gesù. Le folle condannano a Gesù, con tanto di scherno: è l'unico punto dove Marco usa la parola ''Salve, re dei giudei''. L'ironia è che Gesù era davvero il loro legittimo Re. Le somiglianze tra Gesù e Barabba servivano proprio ad aumentare il tasso di ironia puramente allegorica della scena.

Anche Odisseo deve confrontarsi davanti a tutti con Iro, che aspira ad essere una sorta di re dei mendicanti. Anche le folle di Proci tifano per lui nella zuffa con Odisseo. Alla fine vince Odisseo che ottiene così la simpatia dei Proci: ''Salve a te, ospite''.

Così si esprime Richard Carrier nella sua recensione del libro di Dennis MacDonald:


Naturalmente, Barabba significa ''figlio del padre'', e quindi è un ovvio gioco di parole su Cristo stesso. Lui anche rappresenta il rivoluzionario violento, come opposto al tipo davvero diverso di salvatore in Gesù (il reale ''Salvatore''). D'altra parte, Iro era un soprannome derivato da una dea (Iride), e MacDonald manca di sottolineare che il suo nome significa ''arcobaleno'', che a Marco avrebbe ricordato il segno dato da Dio a Noè che non ci sarebbe mai più stato di nuovo un diluvio (Genesi 9:12-13). Inoltre, il nome reale di Iro era Arneo, ''l'Agnello''. Quale modello più perfetto per Marco? I giudei quindi scelsero lo sbagliato ''figlio del padre'' che rappresenta l'Antica Alleanza (simboleggiata dall'arcobaleno, e rappresentata dal'ideale del messia militare che libera Israele), così come i lcapro espiatorio (l'agnello) spedito nel deserto a portare via i peccati del popolo, mentre il suo gemello viene sacrificato (Levitico 16:8-10, 23:27-32, Ebrei 8-9). La personale analisi di MacDonald è realmente confermata da questo aggiuntivo parallelo che lui mancò di realizzare, e questo è impressionante.



A ogni festa, egli era solito rimettere in libertà per loro un carcerato, a loro richiesta. Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio. La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere. Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Sapeva infatti che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia. Ma i capi dei sacerdoti incitarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba. Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?». Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?». Ma essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!». Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso. Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa. Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo. Poi presero a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui. Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo.
(Marco 15:6-20)


Sopraggiunse un accattone del luogo, che mendicava in città, a Itaca, ed era noto per la fame insaziabile che lo spingeva a mangiare e bere senza misura. Non aveva vigore né forza, solo d'aspetto era grande e grosso a vedersi. Arneo era il suo nome, questo gli impose la madre alla nascita; ma Iro solevano chiamarlo i giovani, perchè andava a portare messaggi, se glielo ordinava qualcuno. Giunse, e voleva scacciare dalla sua casa Odisseo, e ingiuriandolo, diceva queste parole:
«Via dalla porta, vecchio, o presto ti trascinerò io per un piede. Non vedi che tutti mi fanno cenno e mi esortano perchè ti trascini? E tuttavia non mi sento di farlo. Vattene dunque, che per questa contesa non veniamo anche alle mani».
Lo guardò con odio e gli disse l'accorto Odisseo:
«Sciagurato, io non faccio e non dico nulla di male, e a nessuno impedisco di farti dei doni, anche molti. Su questa soglia possiamo restare entrambi e tu non devi invidiare ciò che gli altri possiedono. Un vagabondo sei, come me, così mi sembra: la nostra fortuna è nelle mani di dio. E non provocarmi troppo alla rissa, non farmi irritare, bada che, pur essendo vecchio, non ti riempia il petto e la bocca di sangue. Sarei più tranquillo domani perchè non credo che per la seconda volta ritorneresti alla casa del figlio di Laerte, Odisseo».
Gli rispose, furente, Iro, il girovago:
«Mio dio, come parla questo mangione, sembra una vecchia fornaia: potrei ridurlo male colpendolo con entrambe le mani e tutti i denti strappargli dalle mascelle, come a una scrofa che distrugge il raccolto. Ora raccogli le vesti alla cintura perchè tutti costoro ci vedano mentre lottiamo: ma come potrai batterti con un uomo più giovane?».
Così essi, davanti alle alte porte, sulla soglia ben fatta, litigavano violentemente. Li udì il nobile Antinoo e ridendo di cuore diceva ai pretendenti:
«Amici, nulla di simile è mai successo, che godimento ci hanno portato in casa gli dei; Iro e lo straniero si stanno sfidando alla lotta. Presto, andiamo ad aizzarli l'uno contro l'altro».
Così parlò, si alzarono tutti ridendo, e si raccolsero intorno ai due mendicanti cenciosi. E Antinoo prese a parlare, figlio di Eupite:
«Nobili Pretendenti, ascoltate quello che dico. Vi sono, sul fuoco, queste salsicce che, per la cena, abbiamo riempito di grasso e di sangue. Chi dei due riporterà la vittoria, si sceglierà lui stesso quella che vuole: e siederà sempre a banchetto con noi, nessun altro lasceremo che mendichi dentro la casa».
Così disse Antinoo, piacquero le sue parole. Ma a loro disse, astutamente, l'accorto Odisseo:
«Miei signori, non è possibile che con un giovane lotti un vecchio oppresso dalla sventura; è la maledetta fame che mi costringe a subire. Ma pronunciate ora voi tutti un giuramento solenne: nessuno, per favorire Iro, oserà colpirmi con mano pesante, nessuno a forza mi farà sottomettere a lui».
Disse così, ed essi giurarono come voleva. Ma quando ebbero fatto e compiuto il giuramento, il nobile e forte Telemaco disse, fra loro:
«Straniero, se il cuore e l'animo audace ti spingono a difenderti contro di lui, degli altri Achei però non avere paura, perchè con molti dovrà battersi chi ti colpisce. Io sono l'ospite, ma anche i principi approvano, Eurimaco ed Antinoo, che sono saggi».
Così parlò, e furono tutti d'accordo. Strinse intanto Odisseo intorno all'inguine i cenci e scoprì le cosce solide e belle, le spalle si rivelarono, larghe, robusti il petto e le braccia. Atena -- che gli era vicina --- fece più grandi le membra al signore di popoli. I Pretendenti guardavano con grande stupore e, rivolto al suo vicino, qualcuno diceva:
«Ah, presto Iro non sarà più Iro e avrà il fatto suo, guarda le gambe del vecchio che i cenci hanno scoperto».
Così dicevano, si turbò il cuore di Iro; ma gli legarono, i servi, le vesti e a forza lo trascinavano, pieno di angoscia: la carne gli tremava sul corpo. E Antinoo, rimproverandolo, disse:
«Dovresti essere morto, spaccone, o non essere nato, se hai tanta paura e tremi di fronte a un vecchio oppresso dalla sventura. Ma questo io ti dico, e questo avrà compimento: se vincerà, se sarà il migliore, su una nave nera ti getterò e ti manderò in terraferma, dal re Echeto, flagello degli uomini, che naso e orecchie ti taglierà con il bronzo crudele, ti strapperà i genitali e li darà in pasto ai cani».
Così disse, e a lui ancor più le ginocchia tremarono. Nel mezzo lo spinsero. Entrambi levarono i pugni. Ed era incerto allora il paziente, divino Odisseo, se colpirlo così che cadesse e lo abbandonasse la vita, o coglierlo soltanto di striscio, in modo da stenderlo a terra. E mentre così pensava gli sembrò che la cosa migliore fosse dargli un colpo leggero, affinchè i Danai non potessero sospettare chi era. Alzarono allora le braccia e Iro gli sferrò un pugno sulla spalla destra; al collo sotto l'orecchio lo colpì invece Odisseo e gli spezzò, dentro, le ossa; subito il rosso sangue gli uscì dalla bocca, cadde gemendo e digrignava i denti scalciando contro la terra. I Pretendenti gloriosi, levando al cielo le braccia, morivano dalle risate. Lo afferrò per un piede Odisseo e lo trascinò fuori dal portico, fino al cortile ed alle porte esterne; contro il muro di cinta lo appoggiava, seduto, in mano gli mise un bastone e gli parlò dicendo:
«Ora qui resta seduto, tieni lontani i cani e i maiali, e con gli stranieri e i mendicanti non fare il padrone, tu che sei un miserabile, se non vuoi che ti capiti anche di peggio».
Parlò così, e sulle spalle gli gettò la bisaccia logora, piena di strappi che aveva una corda come tracolla. Di nuovo andò sulla soglia e sedette. Tornarono indietro ridendo di cuore i Proci, e gli rendevano omaggio dicendo:
«Zeus ti conceda, straniero -- e con lui gli altri dei immortali -- ciò che più di ogni cosa desideri e che ti è caro al tuo cuore, perchè hai fatto sì che quest'uomo insaziabile la finisca di mendicare fra il popolo; ora lo spediremo in terraferma, dal re Echeto, flagello degli uomini».
Così dicevano, e il divino Odisseo gioiva all'augurio. Accanto Antinoo gli pose una grossa salsiccia, piena di sangue e di grasso. Anfinomo prese due pani dal canestro e glieli offriva, poi con la coppa d'oro gli rese omaggio dicendo:
«Salve a te, ospite; possa tu essere felice un giorno, perchè molte sventure ti opprimono».




L'alto grido al momento della morte

Anche Ettore morì con la medesima rassegnazione di Gesù.


Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere». Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
(Marco 15:34-37)


Così parlava e la morte lo avvolse. L’anima volando via dalle membra se n’andò alla casa di Ade, e lamentava la sua sorte nel lasciar la forza virile e la giovinezza.



Il legame tra la morte dell'eroe e la capitolazione delle città

''Da cima a fondo'' è un'espressione che non compare quasi mai da nessun'altra parte per indicare la distruzione di una città, se non nell'Iliade. Ma anche il velo del Tempio si strappò ''da cima a fondo''. Troppo impossibile per essere una coincidenza. Dunque, per definizione, non lo è affatto.



Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo.
(Marco 15:38)



Veniva, Ettore, trascinato, e se ne levava un polverone: di qua e di là si sparpagliavano le chiome brune, per intero posava sul suolo la testa, un tempo piena di grazia. Ma allora Zeus permise ai nemici di far strazio dell’eroe, là nella terra dei suoi padri.   Così era tutto una polvere il suo capo. Ed ecco che la madre si strappava i capelli, buttò via lontano il nitido velo, e diede in un urlo di lamento, lunghissimo, al veder il figlio. Proruppe in grida di pianto, suo padre, da stringere il cuore: e tutt’intorno la popolazione si abbandonava a ululi e gemiti per la città. Era proprio come se Ilio intera, sull’altura, bruciasse tra le fiamme da cima a fondo.

Derisione della vittima

Achille infierì sul cadavere di Ettore, con tanto di scherno. Anche nelle parole del centurione romano si può intravedere dello scherno verso il cadavere di Gesù appeso sulla croce, ma è possibile anche un'altra lettura, più ironicamente sottile: Marco ha trasformato il commento di scherno del centurione in un sincero riconoscimento dell'identità di Gesù.


Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».
(Marco 15:39)

Ma a lui, anche dopo morto, diceva il grande Achille: «Per adesso stai lì tu! E il mio destino io l’accoglierò quando Zeus vorrà mandarlo - insieme con gli altri dei immortali.»   Così parlò: estrasse dal cadavere la lancia di bronzo, e la pose da parte. Poi gli toglieva di dosso l’armatura insanguinata.   Accorsero lì intorno gli altri figli degli Achei, ed ecco, presero a contemplare la statura e l’aspetto mirabile di Ettore. Né alcuno gli si accostò senza ferirlo.   E più d’uno diceva volgendo lo sguardo al vicino: «Oh, sì, è proprio più tenero, sapete, a palparlo, Ettore qui, di quando incendiò le navi con il fuoco ardente!»   Così dicevano, e andavano colpendolo da vicino.



Le donne assistono poco distanti


Non c'è bisogno di spiegazioni:


Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.
(Marco 15:40-41)

Veniva, Ettore, trascinato, e se ne levava un polverone: di qua e di là si sparpagliavano le chiome brune, per intero posava sul suolo la testa, un tempo piena di grazia. Ma allora Zeus permise ai nemici di far strazio dell’eroe, là nella terra dei suoi padri.   Così era tutto una polvere il suo capo. Ed ecco che la madre si strappava i capelli, buttò via lontano il nitido velo, e diede in un urlo di lamento, lunghissimo, al veder il figlio. Proruppe in grida di pianto, suo padre, da stringere il cuore: e tutt’intorno la popolazione si abbandonava a ululi e gemiti per la città. Era proprio come se Ilio intera, sull’altura, bruciasse tra le fiamme da cima a fondo.
...
Fra le Troiane Ecuba intonava il suo alto lamento: «Figlio! O povera me! Cosa vivo a fare dopo questa disgrazia? ora che sei morto? Tu eri per me, giorno e notte, il mio orgoglio nella città, ed eri anche il sostegno di tutti i Troiani e le Troiane qui in Ilio. Come un dio ti salutavano con la mano. Si, devo ben dirlo, pure per loro eri un grande vanto, quando vivevi: ora invece ti ha raggiunto il destino di morte.»
Così diceva piangendo. E la sposa nulla ancora sapeva di Ettore: non era andato da lei nessun
messaggero a dirle francamente che suo marito era rimasto fuori dalle porte.
...
Sentì urla e lamenti dalla parte della torre: le tremarono le membra, le cadde a terra la spola.
...
E quando arrivò alla torre e tra la folla dei guerrieri, guardava ansiosa, là, ferma sulle mura: e vide lui trascinato così davanti alla città, i veloci cavalli lo tiravano brutalmente verso le concave navi degli Achei.   Le calava sugli occhi la notte oscura e l’avvolse. Stramazzò all’indietro svenuta: pareva morta.
...
Così diceva piangendo: e le donne rispondevano con i loro lamenti.



Sepoltura dell'eroe

Re Priamo decise di avventurarsi di notte nel campo acheo pur di riprendersi da Achille il cadavere del suo figlio Ettore e dargli un'onorevole sepoltura. Anche Giuseppe d'Arimatea, prima ancora del crepuscolo, va da Pilato a chiedere umilmente il cadavere di Gesù. Pilato era impressionato dal fatto che Gesù fosse già morto, laddove Achille fu impressionato nel vedere Priamo accedere nel suo campo. Pilato mandò un centurione a prendere il cadavere (che era già stato unto) per darlo a Giuseppe d'Arimatea, laddove Achille invia i soldati a prendere il riscatto e le ancelle a ungere il cadavere di Ettore. Entrambi i corpi furono così salvati dalla corruzione, ed entrambi i corpi furono avvolti in una sindone prima di essere deposti in una tomba (da Giuseppe d'Arimatea) o in una bara (da Achille). Il corpo di Ettore fu infine deposto in un ossario sottoterra e coperto di pietre.



Venuta ormai la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù. Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo. Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. Egli allora, comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro. Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto.
(Marco 15:42-47)



E dopo che ebbero cacciato via la voglia di mangiare e di bere, allora il Dardanide Priamo guardava sì Achille con meraviglia: quanto era grande e bello! Assomigliava davvero agli dei.   A sua volta Achille contemplava stupito Priamo il Dardanide: ne veniva osservando il nobile aspetto e ne ascoltava le parole. 
Quando si furono rallegrati a mirarsi a vicenda, a lui per primo parlava il vecchio Priamo, simile a un dio:
«Fammi andar a letto adesso, subito, o discendente di Zeus! Ormai dobbiamo riposare godendoci il dolce sonno. Non ho chiuso, sai, ancora occhio da quando mio figlio ha perso la vita sotto le tue braccia: ma non faccio altro che lamentarmi di continuo e patire ogni sorta di pene, rotolandomi dentro il recinto della corte nella immondizia. Solo oggi ho toccato cibo, e ho mandato giù per la gola il rosso vino: prima non avevo preso niente.» 
Disse.
E subito Achille dava ordine ai compagni e alle ancelle di collocare le lettiere sotto il portico, e di metterci tappeti belli, color porpora, e di stenderci sopra coltri e mantelli di lana per coprirsi. E loro andavano fuor dalla stanza tenendo una fiaccola in mano, e prepararono prontamente, con sollecitudine, i due letti.

 E a lui diceva, in tono scherzoso, Achille dai piedi veloci: «Vedi, devi dormir fuori, o caro vecchio! Ho paura che capiti qui all’improvviso qualche capo degli Achei, di quelli che vengono di continuo a sedersi da me e a scambiare pareri, come è giusto. Se uno di loro ti vedesse nel buio della notte, subito lo riferirebbe ad Agamennone pastore di popoli, e allora il riscatto della salma subirebbe un ritardo. Ma via, dimmi una cosa e parla con franchezza: per quanti giorni hai in mente di rendere gli onori funebri al divino Ettore? Così io non mi muovo dal campo, e vi trattengo anche l’esercito.» Gli
rispondeva allora il vecchio Priamo, simile a un dio: «Se proprio sei disposto a lasciarmi celebrare le esequie del divino Ettore, ebbene, regolati così, o Achille, e mi farai un grande piacere. Ecco, tu sai che siamo bloccati in città, e lontana è la legna da trasportare dal monte, e i Troiani hanno molta paura. Così, per nove giorni vorremmo piangerlo in casa: al decimo faremmo il funerale, e il popolo banchetterebbe: nell’undicesimo giorno innalzeremmo il tumulo. Poi al dodicesimo riprenderemo le ostilità, se proprio è necessario.»   E a lui rispondeva allora il divino Achille dai piedi gagliardi: «Sarà fatto, o vecchio Priamo, come vuoi tu. Sì, sospenderò le azioni di guerra per il tempo che richiedi.» Così parlava, e prese la mano destra del vecchio fino al polso: non voleva che nutrisse qualche timore.   Ed essi dormivano là nel vestibolo dell’alloggio, l’araldo e Priamo, con i loro pensieri. Achille invece riposava nella parte più interna della solida baracca: e accanto a lui si coricò la Briseide dalle belle guance.   Così allora tutti gli altri dei e i guerrieri combattenti dai carri dormivano la notte intera, vinti da un molle sopore. Ma Ermes soccorritore non lo afferrava il sonno: veniva pensando come condurre fuori dal campo il re Priamo, di nascosto ai forti guardiani delle porte.   Gli si fermò in alto, sopra la testa, e diceva: «O vecchio, non pensi proprio, a quanto pare, al pericolo che corri! Ecco, tu dormi ancora in mezzo a nemici, solo perché Achille ti ha lasciato stare. Sì, è vero, hai riscattato ora tuo figlio, hai offerto molti doni. Ma tre volte tanti, ti dico, dovranno darne i figli tuoi rimasti in casa per riavere te vivo, se l’Atride Agamennone ti sapesse qui, e lo venissero a sapere tutti gli altri Achei.»   Così parlava. E il vecchio ebbe paura: faceva alzare l’araldo.   Allora Ermes aggiogò loro i cavalli e i muli, e li conduceva in fretta attraverso il campo. Nessuno li riconobbe.   Ma quando arrivarono al guado del fiume dalla bella corrente, al Santo vorticoso di cui è padre Zeus immortale, Ermes se ne andò all’alto Olimpo.   Aurora dal peplo color arancione si diffondeva su tutta la terra: e loro guidavano i cavalli verso la città, piangendo e singhiozzando. Il cadavere lo trasportavano i muli. E nessun altro degli uomini li vide, nessuno delle donne dalla bella cintura, prima di Cassandra.   Ecco, lei era salita, simile all’aurea Afrodite, sulla rocca di Pergamo, e subito riconobbe suo padre in piedi sul cocchio, e l’araldo banditore della città. Lui poi, lo scorse sul carro dei muli, steso sopra il suo letto di morte.   Proruppe allora in un urlo di lamento, e gridava per tutta la città: «Venite a vedere Ettore, o Troiani e Troiane! Tante volte, quando era vivo, gli facevate festa al suo ritorno dalla battaglia. Era la grande gioia della città e dell’intero paese.»   Così diceva. E nessuno restava lì in città: non un uomo, non una donna. Tutti li invase un dolore irrefrenabile. 
...
E come al mattino apparì Aurora dalle dita di rosa, si riuniva il popolo intorno alla pira del grande Ettore.   Appena adunati, cominciavano a spegnere con il rosso vino il rogo dappertutto, fin dove era giunta la violenza del fuoco. Raccoglievano le bianche ossa i fratelli e gli amici, tra sospiri: grosse lacrime gli colavano dalle guance. E le ossa andavano a riporle in un’urna d’oro, avvolgendole dentro morbide stoffe color porpora. Poi deposero la cassetta in fondo a una fossa e la coprirono con un letto di grosse pietre, ben compaginato. E in fretta innalzarono un tumulo: intorno stavano sentinelle da ogni parte, per paura che gli Achei attaccassero prima del tempo.   Finito il sepolcro, tornarono indietro. E allora si riunivano a pranzare magnificamente, in un solenne banchetto, nel palazzo di Priamo, il re discendente di Zeus.
  Così loro là celebravano il funerale di Ettore domatore di cavalli.


Donne al sepolcro

Non c'è bisogno di spiegazioni, salvo far notare che tre donne con tanto di nomi vogliono ungere un corpo senza sapere che è stato già unto da una donna anonima:


Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto. Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a ungerlo.
(Marco 15:47, 16:1)



Aurora dal peplo color arancione si diffondeva su tutta la terra: e loro guidavano i cavalli verso la città, piangendo e singhiozzando. Il cadavere lo trasportavano i muli. E nessun altro degli uomini li vide, nessuno delle donne dalla bella cintura, prima di Cassandra.   Ecco, lei era salita, simile all’aurea Afrodite, sulla rocca di Pergamo, e subito riconobbe suo padre in piedi sul cocchio, e l’araldo banditore della città. Lui poi, lo scorse sul carro dei muli, steso sopra il suo letto di morte. 
...
Quando essi ebbero menato Ettore dentro il famoso palazzo, lo deposero allora sopra un letto traforato. Poi fecero venire i cantori a intonare il lamento funebre. E questi levavano un triste canto, e rispondevano le donne coi loro gemiti e sospiri.   E tra esse diceva in pianto Andromaca dalle bianche braccia, tenendo fra le mani la testa di Ettore sterminatore di guerrieri.
...
Così diceva piangendo. E subito dietro a lei, sospiravano e gemevano le altre donne.   E tra loro poi Ecuba intonava il suo lamento.
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 Così diceva in lacrime, e suscitava un pianto senza fine. E tra di esse allora Elena fu la terza a intonare il suo lamento.
...
   Così diceva piangendo: e con lei gemeva la folla immensa.




La Pietra all'ingresso del sepolcro

Si tratta della stessa pietra che Polifemo spostò per chiudere l'accesso alla sua caverna.


Dicevano tra loro: «Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?». Alzando lo sguardo, osservarono che la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande.
(Marco 16:3-4)



 Sollevò poi un masso, grande e pesante, che chiudesse l'entrata: ventidue solidi carri a quattro ruote non l'avrebbero smossa, quella pietra enorme che sulla soglia collocò come porta.

Il mito di Er


Platone riutilizzò l'episodio della morte di Elpenore nell'Odissea per introdurre la dottrina della reincarnazione, vale a dire il mito di Er.


«Tuttavia», incominciai, «non ti farò un racconto di Alcinoo, bensì di un uomo valoroso, Er figlio di Armenio, di origine panfilica. Costui era morto in guerra e quando, al decimo giorno, si portarono via dal campo i cadaveri già decomposti, fu raccolto intatto e ricondotto a casa per essere sepolto; al dodicesimo giorno, quando si trovava già disteso sulla pira, ritornò in vita e raccontò quello che aveva visto laggiù. Disse che la sua anima, dopo essere uscita dal corpo, si mise in viaggio assieme a molte altre, finché giunsero a un luogo meraviglioso nel quale si aprivano due voragini contigue nel terreno e altre due, corrispondenti alle prime, in alto nel cielo. In mezzo ad esse stavano seduti dei giudici, i quali, dopo aver pronunciato la loro sentenza, ordinavano ai giusti di prendere la strada a destra che saliva verso il cielo, con un contrassegno della sentenza attaccato sul petto, agli ingiusti di prendere la strada a sinistra che scendeva verso il basso, anch'essi con un contrassegno sulla schiena dove erano indicate tutte le colpe che avevano commesso. Giunto il suo turno, i giudici dissero a Er che avrebbe dovuto riferire agli uomini ciò che accadeva laggiù e gli ordinarono di ascoltare e osservare ogni cosa di quel luogo. Così vide le anime che, dopo essere state giudicate, partivano verso una delle due voragini del cielo o della terra; dall'altra voragine della terra risalivano anime piene di lordura e di polvere, dall'altra posta nel cielo scendevano anime pure. Quelle che via via arrivavano sembravano reduci come da un lungo viaggio; liete di essere giunte a quel prato, vi si accampavano come in un'adunanza festiva. Le anime che si conoscevano si abbracciavano e quelle provenienti dalla terra chiedevano alle altre notizie del mondo celeste, e viceversa. Nello scambiarsi i racconti delle proprie vicende le une gemevano e piangevano, al ricordo di quante e quali sofferenze avevano patito e veduto durante il viaggio sottoterra (un viaggio di mille anni), mentre quelle provenienti dal cielo riferivano le visioni di beatitudine e di straordinaria bellezza che avevano contemplato. Ma per farne un resoconto minuzioso, Glaucone, ci vorrebbe troppo tempo; in ogni caso la sostanza, stando al racconto di Er, è la seguente: per ogni ingiustizia commessa e ogni persona offesa le anime avevano scontato una pena decupla; ciascuna pena era calcolata in cento anni, perché tale è la durata della vita umana, in modo che pagassero un fio dieci volte superiore alla colpa. Ad esempio, se alcuni erano stati responsabili della morte di molte persone, perché avevano tradito città o eserciti precipitandoli nella schiavitù o si erano resi colpevoli di qualche altro delitto, per ciascuna di queste colpe subivano patimenti dieci volte maggiori; se invece avevano fatto dei benefici e si erano comportati in modo giusto e pio, ricevevano la debita ricompensa nella stessa misura. Sul conto di quelli morti appena nati o vissuti per poco tempo disse altre cose che non vale la pena di ricordare. Aggiunse che la pietà e l'empietà verso gli dèi e i genitori e l'omicidio erano ripagati in misura ancora maggiore.
(Platone, Repubblica)



Luca parimenti riprese il medesimo personaggio di Elpenore per farne un Eutico, una sorta di Elpenore RISORTO:


Elpenore era il più giovane, non molto forte in guerra, non troppo saldo nell'animo; lontano dagli altri e gravato dal vino, nella sacra dimora di Circe si era disteso, cercando un pò di frescura. Udendo le voci e i rumori dei compagni che si muovevano, si alzò di scatto e scordò, nel suo cuore, di tornare alla lunga scala per scendere. A capofitto cadde dal tetto. Gli si spezzò l'osso del collo, l'anima piombò nell'Ade.



Il primo giorno della settimana, mentre eravamo riuniti per spezzare il pane, Paolo, dovendo partire il giorno seguente, parlava ai discepoli, e prolungò il discorso fino a mezzanotte. Nella sala di sopra, dov'eravamo riuniti, c'erano molte lampade; un giovane di nome Eutico, che stava seduto sul davanzale della finestra, fu colto da un sonno profondo, poichè Paolo tirava in lungo il suo dire; egli, sopraffatto dal sonno, precipitò giù dal terzo piano, e venne raccolto morto. Ma Paolo scese, si gettò su di li, e, abbracciandolo, disse: «Non vi turbate, perchè è ancora in vita». Poi risalì, spezzò il pane e prese cibo; e dopo aver ragionato lungamente sino all'alba, partì. Il giovane fu ricondotto vivo, ed essi ne furono oltremodo consolati.
(Atti degli Apostoli 20:7-12)

Elpenore e il giovane nudo in Marco sono entrambi νεανίσκος, entrambi con addosso un mantello (la coperta per dormire nel caso di Elpenore). I due giovani in Marco racchiudono la Passione di Gesù: prima del suo processo il primo, dopo la sua risurrezione il secondo, il primo di notte, il secondo all'alba. Il primo è con i discepoli fuggendo da Gesù, il secondo è con le donne che vengono incontro a Gesù. Il primo perde il suo vestito di lino e fugge nudo, per riapparire  nei panni bianchi del secondo?
Anche Gesù fu spogliato alla sua crocifissione, ma il suo corpo fu avvolto nella sindone alla sua sepoltura. Gesù fu esaltato alla destra di Dio, il giovane uomo fu trovato seduto a destra del sepolcro. La drammatica storia di Elpenore dell'Odissea, che ha un triste epilogo, si ritrova ad avere un finale lieto in Marco, diventando una storia di risurrezione. Marco mancava di apparizioni di Gesù post-mortem (perchè non credeva ad una risurrezione fisica e letterale di Gesù, ovviamente, essendo la sua solo un'allegoria) così egli creò apposta il giovane vestito di bianco a simboleggiare la risurrezione di Gesù.



Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”». Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite.
(Marco 16:5-8)


Non posso che concordare con la conclusione di Richard Carrier, nella sua recensione del libro di Dennis MacDonald, perchè è sufficiente applicare fin d'ora il Principio di Contaminazione del Dubbio di Stephen Law:


Avendo letto questo libro, sono ora sicuro che la storicità dei vangeli e di Atti è quasi impossibile da stabilire. Gli obiettivi didattici e i metodi degli autori hanno così annebbiato la verità con motivi letterari e allusioni e storielle paraboliche che non possiamo sapere cosa è fatto e cosa è finzione. Io non credo che questo implichi che Gesù sia un mito, comunque -- e lo stesso MacDonald non è un miticista, ma ipotizza che qualcosa di un Gesù storico risieda sotto le finzioni di Marco. Nonostante il libro di MacDonald possa essere utilizzato per contribuire ad una dimostrazione del miticista, ogni cosa che questo libro prova circa Marco è ancora compatibile con l'esserci stato un uomo reale, un maestro, persino un reale ''taumaturgo'' in un senso soggettivo, o un evento reale che ha inspirato la fiducia in qualche tipo di risurrezione, e così via, che fu poi adeguatamente riverniciato di allegoria e simbolo.

Comunque, la conclusione inevitabile è che abbiamo del tutto perduto questa storia per sempre. I vangeli non possono più a lungo favorire una fiducia razionale in ogni cosa asseriscono essere accaduta, almeno non senza una corroborazione esterna, non pregiudicata, di cui siamo privi per ognuno dei dettagli essenziali, tantomeno soprannaturali, della storia. E se Alvar Ellegård avesse ragione (Jesus One Hundred Years Before Christ, Overlook, 1999), Marco fu quasi interamente finzione, scritto dopo la presa di Gerusalemme per scolpire in prosa simbolica il messaggio metaforico del cristianesimo, una fede che iniziò con un Gesù condannato molto tempo prima della conquista romana, che poi apparve in visioni (come quella che convertì Paolo) un secolo più tardi, al tempo di Pilato, per ispirare una nuova fede. Quello che è importante non è che questo possa essere  provato in maniera decisiva -- nulla lo può, in quanto la nostra informazione è troppo sottile, troppo scarsa, troppo inaffidabile per provare in modo decisivo qualcosa circa le origini del cristianesimo. Quello che è importante è che le teorie come quelle di Ellegård non possono essere smentite, in ogni caso -- si tratta di una sola tra numerose possibili spiegazioni distinte di quello che realmente accadde all'alba del cristianesimo, che il libro di MacDonald ora rende persino più plausibile. E nella misura in cui rimane possibile, persino plausibile, che il nucleo di Marco sia finzione, la fiducia contraria che sia un fatto non può mai essere sicura.

(mia libera traduzione e mia enfasi)