sabato 26 aprile 2014

Una critica al libro «La morte di Gesù: Indagine su un mistero» di Mauro Pesce: o del perchè il Gesù di Mauro Pesce non ha bisogno di morire

Dal rapido scorcio all'ultimo libro di Adriana Destro e Mario Pesce, La morte di Gesù: Indagine su un mistero (Rizzoli 2014), fin dall'inizio emerge dell'autore la certezza assoluta, dogmatica, della storicità di Gesù, e del Gesù dei vangeli. E tuttavia stupisce che l'autore quasi provi vergogna di questo eccessivo, fulmineo dogmatismo iniziale, da sentir immediatamente dopo l'esigenza di annacquarlo a dovere. Infatti così esordisce, nell'Introduzione (mia enfasi):
L'uccisione di Gesù è un fatto storicamente indubitabile, ma i fatti che la circondano sono tutt'altro che chiariti. Resta una vicenda complessa coperta di oscurità.

La natura avversativa di quel ''ma'' però non fa affatto leva sul legittimo dubbio contaminante ogni cosa originatosi da una chiara allegoria, e ha tutta l'aria di un esperimento dall'esito incerto, dove le stesse premesse sono incerte ma si fa finta di adottarle ugualmente il perchè non è dato dirlo.


E nè quello che segue conforta il lettore critico, anzi aumenta ogni motivo di dubitare:
Crediamo che nei racconti dei Vangeli siano rimaste delle tracce non cancellate che ci consentono in certi casi di intravedere ciò che accadde. Le tracce sono segni certi di ciò che è avvenuto in passato. Come quando la marea si ritira e la sabbia terrosa della laguna è piena di impronte, di indizi più o meno nitidi di vite che non ci sono più.
Sappiamo però che c'erano.

Pardon? ''Crediamo''?!? Così, senza prima domandarsi un sacrosanto e legittimo PERCHÈ dobbiamo credere. La metafora della marea che si ritira lasciando tracce è l'ennesimo modo di ridicolizzare la questione, perchè evita furbamente di fare la distinzione tra le reali, concrete tracce dell'inventore, e le tracce invisibili dell'inventato.


Se si scade al livello del ''credere'', cosa mi trattiene dal ''credere'' a mia volta che l'iniziale maiuscola per i vangeli in Mauro Pesce non sia l'ennesimo segno della sua riverenza cripto-religiosa per una figura allegorica che si ''SENTE'' storica senza tuttavia riuscire a provarlo in modo ''indubitabile''? Vorrei sperare però che quel ''crediamo'' rimanga un gesto di amorevole, educata tolleranza verso il lettore che ha il solo torto di non possedere il ''dono'' della fede. Della fede nell'allegoria chiamata vangelo.





Continuo la lettura.

E non posso far a meno di congratularmi con l'autore per le vere tracce, quelle sì reali, che riesce a trovare:
Mettere in luce il messaggio per ''quelli di fuori'' è necessario, secondo Marco, per valorizzare e legittimare il gruppo scelto, cui è stata affidata l'interpretazione autentica del regno. Egli non scriverebbe  probabilmente il suo Vangelo se non esistesse un'interpretazione ''altra'' di Gesù, divergente da quella di coloro che gli sono vicini. Il suo obiettivo è proprio quello di correggerla e integrarla.

Parole sante. E aggiungerei che non solo Marco, ma ogni cristiano cesserebbe di colpo di scrivere vangeli qualora ogni scomodo vangelo eretico, che si appelli alle parole messe in bocca ad un ''Gesù storico'', venisse in ultima istanza cooptato o corretto o censurato o dimenticato. Come poi è accaduto. In quel punto Pesce è davvero ad un passo dallo scoprire una delle ragioni principali per le quali fu inventato un ''Gesù'' storico. In fondo, come disse l'accademico Arthur Droge (Jesus Agnostic) ''per fondare una religione, tutto quello di cui hai bisogno è solo un NOME''.
Per dimostrare di conoscere l'interpretazione più profonda del messaggio di Gesù, infatti, Marco sostiene di basarsi su una trasmissione riservata o privata che risalirebbe a un insegnamento diretto, impartito alla sua cerchia più ristretta, in disparte. Scrive, quindi, nella consapevolezza di un conflitto tra le varie interpretazioni della vicenda di Gesù. ''Quelli di fuori'' avevano ricevuto un ammaestramento, ma in modo velato, Gesù con loro era stato enigmatico. Sono gli esterni, i lontani, a cui:
tutto viene esposto in parabole, perchè: guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano, perchè non si convertano e venga loro perdonato (Mc 4, 12).

In sostanza, Marco sembra riferirsi ai Dodici come garanti, istituiti per essere testimoni di ciò che si sapeva di Gesù, anche se poi solo per pochi casi si sa cosa essi abbiano concretamente ascoltato.

Un vero peccato che Mauro Pesce non abbia fatto qui i dovuti compiti a casa: gli avesse fatti, si sarebbe accorto che Marco fa fare esattamente ai Dodici le figuracce da totali IDIOTI, GOFFI, SCEMI, GONZI E INNATURALMENTE STUPIDI che secondo le parole di Pesce avremmo dovuto attenderci al contrario da ''quelli di fuori'' all'oscuro della vera identità di Gesù. Coll'ironico risultato che sono semmai ''quelli di fuori'' a sfiorare di poco l'identità di Gesù (si veda l'anonima suocera di Pietro, o l'anonima che lo unge sul capo, o il centurione romano anonimo ai piedi della croce, o il cieco anonimo di Betsaida, o il giovane vestito di bianco al sepolcro anch'egli anonimo, e ci si chieda perchè sono tutti ANONIMI), che non i suoi presunti, E SOLO PRESUNTI, aspiranti ''insiders''. Spero (invano, come il lettore scoprirà tra non molto) che Pesce si sia lasciato così grossolanamente fraintendere su questo punto, perchè il suo libro è solo divulgativo.
In Luca, invece, i Dodici sono degli inviati (in greco apostoloi), un termine che mette sullo stesso piano tutti quelli che sono stati scelti per fare qualcosa in nome o al posto di Gesù. È un titolo collettivo che mostrerebbe l'intenzione di assegnare loro la funzione di messaggeri-rappresentanti.


Esattamente. Messaggeri-rappresentanti decisamente utili per chi come Luca non vuole altro che legittimare la propria fittizia e ridicola proto-cattolica Successione Apostolica assoldando tutti quanti, ''di dentro o di fuori'', nelle proprie fila. Luca mi ricorda Stalin, che non disdegnava da ateo il recupero della propaganda religiosa ortodossa pur di muovere la popolazione contro l'invasore nazista. Come puoi fidarti di chi fa mera POLITICA religiosa? Questa sarebbe l'essenza della fede cristiana?
Matteo ha un'idea ancora diversa sulla natura di questo gruppo. I discepoli sarebbero stati solo dodici fin dall'inizio e non ci sarebbe stato un momento ufficiale di scelta. Gesù avrebbe semplicemente deciso, a un certo punto, di conferire loro il dominio sugli spiriti impuri e la capacità di guarire.

Apprezzo l'uso del condizionale, anche se temo che l'apologeta cristiano Mauro Pesce non avrebbe esitato, se non fosse per tutte quelle palesi rivalità e quelle ostinate, interessate pretese di possedere l'unica e sola Verità, ad usare l'indicativo. Ma l'apologeta cristiano Mauro Pesce ha fatto di più: si è limitato a sostituire una Verità che andava bene per il passato a fondare la fede, con un'altra Verità malcelata e mascherata sotto le mentite spoglie di '' plausibile verità storica''.





Non mi soffermerò sui motivi della crocifissione secondo Pesce, dal momento che occorre dimostrare che un certo Gesù di Nazaret sia vissuto prima di chiedersi le ragioni della sua morte.
Un altro punto dove Mauro Pesce mostra tutta la sua contraddizione di storicista (che finge di non essere folle apologeta ma in realtà lo è da cima a fondo) è laddove, pur riconoscendo che una ''strategia narrativa'' così ''evidente'' dietro la rapida toccata e fuga di tal Giuseppe d'Arimatea (ad esempio, la sua sospetta ''eccessiva padronanza della situazione'' contrapposta puntualmente alla totale impreparazione dei discepoli, e la necessità teologica di assicurare i fedeli che il cadavere fu effettivamente sepolto da una terza parte imparziale [1]) potrebbe rendere ''dubbia'' la sua esistenza, tuttavia ritiene più probabile la sua storicità dal momento che se Gesù doveva morire, qualcuno doveva pur seppellirlo, e quel qualcuno doveva essere non un discepolo di Gesù perchè i romani non avrebbero mai permesso ai suoi seguaci di prenderne il cadavere. Secondo la giusta logica di Mauro Pesce, quell'anonimo seppellitore doveva esistere, al di là della fittizia identità e provenienza datogli dagli evangelisti. Ovviamente, Pesce qui è indotto a questa conclusione perchè crede alla solidità della sua premessa: che un Gesù fu veramente crocifisso sulla terra firma. Ma cosa succede se faccio il procedimento opposto? Cosa mi impedisce, rendendomi conto che quasi tutto sembra chiaramente inventato nel vangelo -- vedi appunto la dubbia identità & storicità dello stesso Giuseppe d'Arimatea, appena ventilata come seria possibilità dallo stesso Mauro Pesce --, dal dover legittimamente sospettare anche del fatto apparentemente umile e banale che il protagonista principale dell'allegoria sia stato crocifisso nella Storia? In fondo, non si tratta nient'altro che del Principio di Contaminazione del Dubbio del filosofo Stephen Law. Considero in contraddizione Pesce quando si permette di gettare il dubbio su Giuseppe d'Arimatea per aver intravisto una chiara ''strategia narrativa'' a ragione della sua introduzione, e tuttavia quando lo stesso Mauro Pesce recita chiaramente la parte del FINTO CIECO perchè non si accorge che quella strategia narrativa sembra così onnipresente nel vangelo da spiegare l'introduzione di praticamente TUTTI gli episodi e i personaggi, fittizi o storici che siano, con tanto di loro motivazioni.

Ecco un esempio di quando Pesce si diverte a fare il FINTO CIECO: secondo lui, Gesù non aveva affatto previsto la propria morte e tantomeno l'aveva profetizzata, ergo tutte le profezie della morte sono invenzione di Marco. Ne deriva che quando al Getsemani Gesù da solo si dispera e prega Dio di non farlo morire,  allora quell'episodio o qualcosa di simile ad esso (spero il lettore apprezzi come non mi faccio problemi a venire incontro a qualunque tipo di ipotesi storicista più o meno plausibile) dev'essere storico, perchè l'evangelista non avrebbe mai permesso di rompere la sua precedente strategia narrativa volta a dare ragione della morte sulla croce sapendola già prevista nella testa di Gesù.


A parte che sembra strano che Marco parli di un Gesù che si dispera IN TOTALE SOLITUDINE (quindi solo l'autore onnisciente ''Marco'' è giunto stranamente a saperlo, ma lasciamo perdere) il problema è che al finto cieco (nonchè folle apologeta) Mauro Pesce sfugge chiaramente che quella disperazione e preoccupazione interiore di Gesù è introdotta come puntuale reazione alla pigrizia, sonnolenza e goffa stupidità dei discepoli, tutti colti dal sonno, a dispetto dell'eccezionalità dell'evento, nonostante l'esortazione a vegliare da parte di Gesù, viste l'enorme criticità del momento e la drammatica imminenza della morte incombente.

Non solo questo: è l'occasione per l'evangelista di mostrare, da questo momento in avanti, l'enigmatico avverarsi di tutti i segni che aveva profetizzato Gesù nel suo discorso apocalittico (chiaramente post-eventum) di Marco 13.

Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre. Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento.
 (Marco 13:32-33)

Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole.
(Marco 14:38)

Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!.
(Marco 13:35-37)

Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole. Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori».
(Marco 14:37-41)

...e chi si trova nel campo non torni indietro a prendersi il mantello.
(Marco 13:16)

Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.
(Marco 14:50-52)

Ma voi badate a voi stessi! Vi consegneranno [παραδώσουσιν] ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe e comparirete davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro.
(Marco 13:9)

Il traditore [παραδιδοὺς] aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta». ... I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano. ... Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli: «Fa’ il profeta!». E i servi lo schiaffeggiavano.  ... E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui.
(Marco 14:44, 55, 65; 15:19)
Il fratello manderà [παραδώσει] a morte il fratello, il padre il figlio, e i figli si alzeranno ad accusare i genitori e li uccideranno.
(Marco 13:12)

Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà [παραδώσει]».
(Marco 14:18)

In quei giorni, dopo quella tribolazione, 
il sole si oscurerà,
la luna non darà più la sua luce

(Marco 13:24)

Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio.
(Marco 15:33)

Se Marco non avesse reso disperato -- e apparentemente combattuto dentro di sé e riluttante a morire -- Gesù al Getsemani, non avrebbe avuto neanche motivo di introdurre per contrasto sullo sfondo la sonnolenza (e l'ennesima, puntuale goffa disobbedienza) dei discepoli, e quindi a cascata non avrebbe nemmeno potuto ''realizzare'' una delle tante  profezie ''apocalittiche'' del capitolo 13, in particolare quella che ammonisce:

Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre. Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento.
(Marco 13:32-33)

Ma allora significa che, proprio perchè dava mostra con la sua disperazione e il suo tormento interiore di fare l'esatto contrario di quei tranquilli dormiglioni di discepoli, Gesù perfino allora ERA PERFETTAMENTE A CONOSCENZA -- magicamente a conoscenza! -- che stava per avvicinarsi il momento fatidico della sua morte: nonostante infatti l'esatta ''ora della sua morte'' fosse nota solo al Padre e non al Figlio, l'inerzia dei discepoli nel Getsemani e la loro indifferenza del futuro è sufficiente come sinistro presagio per far capire a Gesù -- e al lettore dell'allegoria -- che quell'ora era oramai alle porte, e doveva quanto minimo TERRORIZZARE almeno Gesù, a maggior ragione se almeno Gesù non doveva imitare la disobbediente negligenza dei suoi discepoli.

Come da previsione:
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».
(Marco 13:35-37)



Quel ''lo dico a tutti'' è chiaramente rivolto all'originario lettore dell'allegoria di Marco, il quale SA, a differenza dei discepoli di Gesù.


Tutto questo, per usare le stesse parole di Mauro Pesce a proposito di Giuseppe d'Arimatea (vedi sopra), è solo PURA STRATEGIA NARRATIVA.

Mauro Pesce dovrebbe saperlo, se ha fatto i giusti compiti a casa, o se almeno è semplicemente a conoscenza delle ragioni per le quali almeno un suo collega accademico dubiterebbe della storicità dell'episodio. Ma Mauro Pesce non lo dice. Dando l'ennesima prova delle strane regole che vigono negli studi biblici del Nuovo Testamento. Mauro Pesce è così iper-difensivo nel difendere la plausibilità storica di ogni episodio anche ironico dell'allegoria, da suonare essenzialmente MEDIEVALE, alla fin fine.





Un fatto che Mauro Pesce ritiene storicamente ''indubitabile'' è l'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme per pavoneggiarsi pomposamente quale nuovo Messia. 
 
A indurlo a ritenere storico questo episodio è l'assenza in esso di nessun ''sentore'' di morte o presagio di morte. Inutile dire che anche qui casca l'asino, o meglio il finto cieco Mauro Pesce. Perchè il folle apologeta non si accorge che l'ingresso trionfante di Gesù a Gerusalemme in Marco è un ulteriore esempio della tipica IRONIA che contraddistingue sottilmente il primo vangelo: l'ENTRATA trionfale di Gesù in Gerusalemme è inserita lì apposta a fare da vivido contrasto all'umiliante e tragica USCITA di Gesù da Gerusalemme per avviarsi drammaticamente al Calvario, a sua volta rappresentata dall'evangelista con tutti i caratteri paradossali di un Trionfo romano.

Se Mauro Pesce è coerente con sé stesso, in nome della *strategia narrativa* che lo induce a mettere in discussione la storicità di Giovanni d'Arimatea,  dovrebbe altresì dubitare anche di questo episodio che ritiene colpevolmente ''indubitabile'' sul piano storico, considerata la presenza anche lì di quella medesima *strategia narrativa*. Ma una volta che il folle apologeta fa un errore plateale di questo tipo, distruggendo la bellezza dell'allegoria con la sua interessata & fervida immaginazione storica che vuole immischiarsi a tutti i costi nella spiegazione auto-sufficiente dell'allegoria, allora nulla più gli impedisce di ripetere errori simili in tutto il resto del libro: ed è scoprire quant'è banale, quasi infantile, la ''ricostruzione'' storica della morte di Gesù da parte di Mauro Pesce, quanto deboli mi sembrano le fondamenta sulle quali poggiano le affermazioni di questo studioso, che mi rende per certi versi orgoglioso delle mie posizioni, perchè la sensibilità più squisita è quella che si sviluppa e si affina nella ricerca del vero. E nella denuncia del falso.




 
In un altro punto  Mauro Pesce si dice certo della storicità dei Dodici apostoli. Non solo perchè lo dice Paolo (Richard Carrier concorda con Mauro Pesce, a differenza di Robert M. Price, sull'autenticità di 1 Corinzi 15:3-9), ma perchè, dice Pesce, lo assicura l'ipotetica fonte Q (ma se è ipotetica, perchè porla come debole premessa ad una conclusione così forte? Un altro mistero dei folli apologeti), lo dice il vangelo degli Ebrei (che non abbiamo), e lo dice il vangelo di Giovanni, che sarebbe per Pesce una fonte indipendente (sic).
A sentire che Giovanni è una fonte indipendente mi viene da ridere con sarcasmo misto ad acredine verso il folle apologeta che pensa una cosa simile. Vridar sta confutando pezzo per pezzo questa fiducia grottescamente apologetica di alcuni studiosi nell'indipendenza di Giovanni, se non l'ha già fatto un accademico ancora prima (ad esempio Thomas Brodie).

Addirittura Pesce aggiunge un altro motivo per credere alla storicità dei Dodici: un'istituzione così prestigiosa è testimoniata da pochi (e lo credo!) quindi il fatto che è passata come una meteora e poi è svanita in fretta nell'oblio deporrebbe a favore della sua esistenza. Ma come? Ma Mauro Pesce sta scherzando? A me sembra che esattamente per quella ragione si dovrebbe mettere in discussione ANCHE la storicità dei Dodici.
I Dodici sarebbero la prima cosa da inventarsi per qualcuno che vorrebbe autenticare la propria teologia mettendola in bocca a Gesù e confermandola ''sulla parola'' di coloro che gli hanno stretto la mano. In questo modo si otterrebbe, come piccolo effetto collaterale, il notevole vantaggio di fissare una volta per tutte in un tempo cronologico limitato il numero delle visioni del Cristo, pena il rischio di vederlo crescere in proporzioni smisurate, con relativa minaccia all'ortodossia. Se c'è da dubitare che Giacomo ''il fratello del Signore'' di Galati 1:19 sia esattamente il Giacomo il Giusto fratello di Gesù di Nazaret è anche perchè nessuno, ma proprio nessuno, ne approfitta per appellarsi alle sue parole, alla sua autorità e alla sua testimonianza, per contrastare anche solo un punto dell'arrivista Paolo: che razza di fratello ''di Gesù'' è quello del cui status di ''fratello'' ci se ne frega del tutto? Quando i cristiani non lo citano neppure come fonte?

In realtà i Dodici in Paolo sono chiaramente distinti da Cefa, Giacomo e dagli altri 500 che hanno visto la risurrezione di Gesù ''secondo le Scritture''. Per non parlare della contraddizione che si verrebbe a creare per la presenza indisturbata di Giuda Iscariota tra loro, se volessimo leggere Paolo con le classiche ''lenti colorate di vangelo''.

Perfino i nomi dei dodici sono fittizi, probabilmente cloni letterari dei 3 o 4 Pilastri storici conosciuti da Paolo. Se la crocifissione di Gesù non fosse così problematica, cioè se non ci fosse stata la crocifissione di Gesù, allora Gesù sarebbe per me fittizio allo stesso grado dei Dodici. L'unica cosa che distingue l'evanescenza del Gesù evangelico dall'evanescenza dei Dodici, segnalando un lieve vantaggio ontologico del primo sui secondi, è che il primo nell'allegoria (e in Paolo) è crocifisso mentre i secondi no: questo per dare intuitivamente al lettore la reale proporzione di quanto è cruciale la crocifissione di Gesù nella questione della sua storicità o meno.






Continuo la lettura.

E arrivo al punto in cui dice:
Per un leader è essenziale la capacità di suscitare consenso e di motivare le persone attorno a sé. Allo stesso modo, è necessario che possieda un patrimonio simbolico da condividere con loro: quello di Gesù era fatto di sapienza e di determinazione. Egli era in grado di immedesimarsi nell'immaginario dei suoi sostenitori, di comprendere le loro aspirazioni più profonde e di convincerli che le loro necessità fossero soddisfabili. Faceva emergere il non detto o addirittura il ''non pensato'', i desideri nascosti, depositati nella cultura giudaica. La sua influenza sui molti che si affidavano ai suoi insegnamenti era decisiva.
Questo però non basta a spiegare la forza attrattiva di Gesù. Era la sua esistenza concreta, il suo modo straordinario di vivere a mettere in moto le persone. La sua diversità era un'alternativa radicale.


Questo sarebbe il Gesù conosciuto anche solo alla lontana dall'uomo chiamato Paolo?
Mauro Pesce sta forse scherzando? Ma già la premessa, letta alla luce delle epistole paoline, contiene una bomba ad orologeria: Gesù era uno tsunami, e per essere tale addirittura ''è NECESSARIO che possieda un patrimonio simbolico da condividere con loro: quello di Gesù era fatto di sapienza e di determinazione''?????? Perchè di quel ''patrimonio simbolico'' NECESSARIO allo tsunami Gesù affinchè-sia-uno-tsunami non è rimasta una sola traccia nell'atollo Paolo al perenne riflusso, o meglio al rimontare, della marea scatenata da quello stesso tsunami???
Forse che l'atollo Paolo era immensamente così superbo -- un intero continente, nemmeno un atollo -- da sovrastare d'altezza il più alto degli tsunami e farsene beffa? O forse perchè erano Paolo e quelli come Paolo il vero tsunami?

Addirittura Gesù ''Faceva emergere il non detto o addirittura il ''non pensato'', i desideri nascosti, depositati nella cultura giudaica''???

E perchè allora Paolo non fece emergere NEPPURE il solo ''detto'' o addirittura NEPPURE il solo ''pensato'', NEPPURE uno solo dei desideri ''visibili'' depositati nella tradizione di Gesù alla quale avrebbe attinto a piene mani quella volta a Gerusalemme che si mise a parlare così loquacemente con suo fratello Giacomo in persona ''non certo delle previsioni del tempo'' ???

Questo è il ricordo paolino dell'uomo che, secondo Mauro Pesce,
Era una persona dotata di quella ''qualità considerata straordinaria'', che Max Weber chiamava carisma.

Sembra al limite del parossismo, per non dire qualcos'altro di più cinico e disincantato (ma vorrei sinceramente sperare che Mauro Pesce rasenti a tal punto tali vette esasperate di follia apologetica pur di non dargli, per compassione, dell'autentico imbonitore di frottole), che, a fronte del profondo e vasto silenzio nelle Epistole (e non solo di Paolo) di un Gesù storico, o almeno di QUEL Gesù storico inteso da Mauro Pesce, costui giunga a scrivere le seguenti parole con una ''sicurezza'' che ha dell'incredibile, sotto il fuoco di tiro di tante, troppe ragioni per pensare a dir il vero l'esatto OPPOSTO di quello che propina:
Gesù, da un altro punto di vista, era un leader che non si radicava né all'interno dei culti domestici, né all'interno dei templi, centri culturali di una società: si collocava -- come ha suggerito Jonathan Z. Smith -- in qualsiasi luogo.


IN QUALSIASI LUOGO???  
E mai, neppure la singola bellezza di una sola volta, in una fonte indipendente extraevangelica? Neppure in Paolo. . .






Ma dove Mauro Pesce dimostra per davvero di essere un emerito Folle Apologeta con tanto di maiuscole a caratteri cubitali per indicarne rispettivamente la Follia e l'Apologetica, davvero contro tutte le mie migliori (e peggiori) intenzioni a non volerlo considerare mai tale, è allorchè introduce lievemente l'Impressionante & Colossale Apostolo Paolo nella discussione.

Addirittura, udite udite cari miei lettori, Mauro Pesce considera AUTENTICO l'unico passaggio delle epistole paoline che, se solo lo fosse veramente, consegnerebbe ipso facto la vittoria seduta stante agli storicisti di terra, di mare e di cielo, di tutte le epoche, ovvero 1 Tessalonicesi 2:14-16:

Voi infatti, fratelli, siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Cristo Gesù che sono in Giudea, perché anche voi avete sofferto le stesse cose da parte dei vostri connazionali, come loro da parte dei Giudei, i quali hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti e hanno cacciato noi dalla Giudea, non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini. Essi impediscono a noi di predicare ai pagani perché possano essere salvati. In tal modo essi colmano sempre di più la misura dei loro peccati! Ma su di loro l’ira è giunta al colmo.

Parole di Richard Carrier:

La maggior parte degli studiosi hanno concluso che questo non fu mai scritto da Paolo. Gli argomenti sono numerosi, e si accumulano ad un caso conclusivo:

Paolo mai incolpa gli ebrei per la morte di Gesù da qualche altra parte.

Paolo mai parla circa la collera di Dio come già venuta, ma come in arrivo solo al giudizio futuro (si veda: Romani 2:5, 3:5-6, 4:15).

Paolo insegna che gli ebrei saranno salvati, non distrutti (si veda: Romani 11:25-28).

Paolo era morto al tempo in cui "l’ira è giunta al colmo" (la distruzione della nazione ebraica e del tempio nel 70 A.D.).

(fonte: http://richardcarrier.blogspot.it/2011/06/pauline-interpolations.html  mia libera traduzione e mia enfasi)

E ancora, qualche paragrafo dopo, sempre il dr. Carrier scrive:


Così si guardi di nuovo al discutibile passaggio nel contesto:
Voi infatti, fratelli, siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Cristo Gesù che sono in Giudea, perché anche voi avete sofferto le stesse cose da parte dei vostri connazionali, come loro da parte dei giudei, i quali hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti in Giudea e hanno cacciato noi dalla Giudea, non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini. Essi impediscono a noi di predicare ai pagani perché possano essere salvati. In tal modo essi colmano sempre di più la misura dei loro peccati! Ma su di loro l’ira è giunta al colmo.

Paolo sta scrivendo a convertiti pagani (si veda il verso 1:9) che sono perseguitati dai pagani, non dai giudei (questo è quello che intende nella parte autentica del verso  2:14, evidenziata sopra), così perchè irromperebbe subito in una tirata contro ''i giudei'' qui? Questo non ha nessun senso nel contesto e viola l'intero flusso del suo argomento, che i tessalonicesi sono timorosi per aver sopportato una persecuzione pagana

Il passaggio dice anche che la collera di Dio si è abbattuta sui giudei "al colmo" (letteralmente "alla fine" / "in definitva"). Tentativi di reinterpretare questo come a non significare ''in definitiva'' è semplicemente cercare di far significare una parola l'esatto opposto di quello che realmente significa. Ancor più importante, la considerazione si riferisce inequivocabilmente a qualcosa che ha influenzato i giudei di Giudea ("siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Cristo Gesù che sono in Giudea ... voi avete sofferto le stesse cose
da parte dei vostri connazionali, come loro da parte dei giudei, i quali [hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti in Giudea, e hanno cacciato noi dalla Giudea, ecc.]..."), così il tentativo di pretendere che si riferisce ad una precedente espulsione di giudei da Roma è un completo non-punto-di-partenza.  Quello era un evento puramente temporaneo e isolato (e quindi non in alcun senso dell'immaginazione ''finale''), e difficilmente qualcosa che richiamerebbe la collera di Dio (a meno che si pensi che Dio sia realmente handicappato -- come se il peggio che possa fare per mostrare la sua ''collera'' sia forzare alcuni giudei che vivono nella Roma pagana a tornare indietro nella Terra Santa), e in ogni caso ha solo influenzato i giudei di Roma, non i giudei di Giudea (così come poteva la collera di Dio aver fatto visita ai giudei di Giudea tramite la punizione degli ebrei di Roma?).

Così ''reinterpretare'' il passaggio a significare qualche altro evento (o perfino qualcosa ''di non osservabile'' come qualche sorta di abbandono spirituale) non fa semplicemente nessun senso in qualsiasi modo dell'ovvio significato del passaggio.  La sola cosa un ''giudizio finale'' sui ''giudei'' di ''Giudea'' può eventualmente essere è la fine della stessa Giudea (come provincia) e la fine del culto giudaico (nella distruzione del Tempio), universalmente riconosciuto dai cristiani come il finale abbandono di Dio dei giudei. Nessun altro evento ha qualche senso. E Paolo era morto per allora. Così si tratta di un'interpolazione. Il che è ovvio ad ogni persona di buon senso.

(fonte: http://richardcarrier.blogspot.it/2011/06/pauline-interpolations.html, mia libera traduzione, ENFASI ORIGINALE)
...Il che è ovvio ad ogni persona di buon senso...
Il fatto che Mauro Pesce condivida la medesima fiducia dei più dogmatici fondamentalisti cristiani nell'autenticità di 1 Tessalonicesi 2:14-16 contro l'intero Consensus, come quel famigerato apologeta protestante J.P. Holding (definito una volta da Carrier ''nefarious'' che significa ''scellerato'') -- lo stesso apologeta che ritiene autentico il frammento 2 di Sulpicio Severo e lo riferisce senza alcun imbarazzo ai cristiani di Gesù (in comune con un altro folle apologeta cattolico, quel Jerim Pischedda che avevo criticato qui) -- è la Prova Provata che non si tratta affatto di un serio studioso, ma di un banale, folle apologeta. Come Bart Errorman. Come Maurice Casey.


Ma non è finita: forse perchè consapevole di aver appena fatto una figuraccia colossale secondo tutti i punti di vista ritenendo autentico 1 Tessalonicesi 2:14-16, Mauro Pesce cerca invano di porsi sulla difensiva in una nota dove dice che ''un analogo motivo'' (attribuire alla malvagità dei giudei il deicidio) lo si riscontra nell'Ascensione di Isaia, dove Isaia è condannato a morte per aver profetizzato la venuta di Gesù.  Ma non si rende conto l'accademico Mauro Pesce che tutti i riferimenti a Gesù nell'Ascensione di Isaia sono interpolazioni cristiane successive, a detta di tutti gli esperti su quel documento?  Nello strato originario precristiano dell'Ascensione di Isaia il Figlio predetto da Isaia NON HA NOME.

(anche nel prepaolino Inno ai Filippesi il Figlio è anonimo fino alla risurrezione, allorchè solo allora riceverà il ''nome che è al di sopra di ogni altro nome'', ossia ''Gesù'').





E Mauro Pesce, ormai senza più freni a trattenere la sua pura follia apologetica, arriva a dire che Paolo si attendeva la risurrezione delle anime dei morti insieme con i loro corpi fisici.


Ma Paolo credeva che la carne doveva essere distrutta.
 Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione. Chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna.
(Galati 6:7-8)

Ancora una volta, Paolo deride l'idea che la carne sarà resuscitata e avrà la vita eterna. La natura della carne reca già per se i segni della sua prossima distruzione.

Paolo considerava FOLLE meravigliarsi come possano resuscitare i cadaveri, e nel caso migliore avrebbe riso a squarciagola se avesse sentito le storielle dei vangeli che parlavano di un Gesù risorto piuttosto in carne che mangiava e beveva.

E Paolo era colui che scrisse l'incipit della importante lettera ai Galati con queste parole:
Paolo, apostolo non da parte di uomini, né attraverso un uomo, ma attraverso Gesù Cristo e Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti, e tutti i fratelli che sono con me, alle Chiese della Galazia.
(Galati 1:1-2)

Perchè Paolo ci teneva così tanto a sottolineare che il Gesù risorto non era un uomo?





Ho chiuso il libro di Pesce. Non me ne vogliano i suoi fans. Ma non c'è niente, davvero niente, di cui possa salvare di quel libro. Il silenzio di Paolo ha le sue ragioni, che il cuore, la fede, la ''percezione'', la follia apologetica, il mercato religioso, la funzione sociale o qualsiasi cosa ti induca a ritenere storico il Gesù dei vangeli ad un primo, superficiale, distratto sguardo, non conoscono.


[1]
Richard Carrier specula, "il termine è un gioco di parole su 'miglior discepolo,' ari[stos] mathe[tes] Matheia significa ''villaggio del discepolo'' in greco;  Ari- è un prefisso comune per la superiorità". Dal momento che i commentatori hanno visto la sepoltura da parte dell'outsider Giuseppe d'Arimatea come in contrasto al fallimento dei discepoli e intimi di Gesù, la coincidenza che Arimatea possa essere letta come "villaggio del migliore discepolo" è sconcertante. Anzi, è una buona prova che Giuseppe d'Arimatea è un personaggio immaginario e che la storia della sepoltura nella tomba nel Vangelo di Marco è anch'essa fantasia.
(fonte: http://infidels.org/library/modern/peter_kirby/tomb/rebuttal1.html mia libera traduzione)