domenica 15 febbraio 2015

De imitatione Pauli

GESÙ CRISTO: Nome che assunse un tempo la divinità quando venne in incognito a fare un giro in Giudea dove, per non aver detto il suo vero nome, fu crocifissa come una spia. Senza questo fortunato qui pro quo, il genere umano sarebbe perduto: non ci sarebbero stati né teologia né clero e la Francia non avrebbe mai sentito parlare della bolla Unigenitus.
(Il Libero Pensatore Paul Heinrich Dietrich, barone d'Holbach, La théologie portative, 1768)
«Chi segue me non cammina nelle tenebre» (Gv 8,12), dice il Signore. Sono parole di Cristo, le quali ci esortano a imitare la sua vita e la sua condotta, se vogliamo essere veramente illuminati e liberati da ogni cecità interiore. Dunque, la nostra massima preoccupazione sia quella di meditare sulla vita di Gesù Cristo.
Già l'insegnamento di Cristo è eccellente, e supera quello di tutti i santi; e chi fosse forte nello spirito vi troverebbe una manna nascosta. Ma accade che molta gente trae un ben scarso desiderio del Vangelo dall'averlo anche più volte ascoltato, perchè è priva del senso di Cristo. Invece, chi vuole comprendere pienamente e gustare le parole di Cristo deve fare in modo che tutta la sua vita si modelli su Cristo.

(De imitatione Cristi, Tommaso di Kempis, Cap. I)


Sono parole ben degne di essere ascoltate da un pio cristiano medievale, e ricordiamoci che il medioevo fu l'epoca più autenticamente cristiana della Storia. Ma cosa succede se vieni a scoprire che il vangelo considerato più antico dalla maggioranza degli studiosi (che non è Mcn, e che dunque andrebbe confrontato criticamente con Mcn per sapere se corrisponde davvero al più antico vangelo che fu mai stato scritto) non prende affatto come modello di tutti i veri cristiani Gesù, bensì Paolo nel ruolo di volta in volta di ''Gesù''?


Che il Gesù marciano sia in realtà Paolo, il Paolo conosciuto dalle sue lettere considerate autentiche, esattamente le lettere che possediamo oggi (Galati, 1 Corinzi, Filippesi), è a mio giudizio provato in maniera esaustiva e soprattutto conclusiva dal prof B. Adamczewski.

A questo punto della storia, è già evidente che il Gesù marciano, come risultato dell'uso coerente dell'evangelista delle procedure ipertestuali di interfiguralità e transdiegetizzazione (specialmente comprendendo transpragmatizzazione e transmotivazione), ha le caratteristiche non semplicemente della persona storica che visse in Judaea all'inizio del primo secolo AD, ma prevalentemente del Figlio di Dio che fu rivelato nella persona del suo particolarmente scelto Apostolo.

Una tale presentazione della persona di Gesù pienamente concorda con la comprensione di Paolo della sua propria vita e persona come rivelanti il Figlio di Dio, Cristo il Signore, al mondo intero (si veda ad esempio 1 Tess. 1:6; 1 Cor 11:1; Gal 1:16; 2:20; Fil 3:17-18), una comprensione che fu adottata e narrativamente rielaborata dall'evangelista post-paolino Marco.

(The Gospel of Mark, pag. 40-41, mia libera traduzione)


Si noti che il prof Adamczewski è storicista e addirittura prete cattolico. Se può conciliare il risultato della sua ricerca scientifica con la sua fede cristiana è soltanto perchè nutre una fede ostinata, che non esiterei a chiamare a questo punto DOGMATICA nonchè follemente apologetica, nell'autenticità del Testimonium Flavianum ''nella sua forma originale'', per usare le sue stesse parole.


Ma peccato per lui, il Testimonium Flavianum è una totale interpolazione cristiana del III secolo EC, e il famoso ''Giacomo, il fratello del Signore'' di Galati 1:19 non è affatto evidenza della storicità di Gesù, come ha efficacemente dimostrato Richard Carrier nel suo libro OHJ.


Non c'è nulla di male per un personaggio storico finire allegorizzato nei panni di un altro personaggio storico in un vangelo. Se scrivo un'allegoria su Giulio Cesare, magari parlando di Napoleone per alludere allegoricamente a Giulio Cesare, questo non priva affatto Giulio Cesare del suo posto nella Storia.

Ma questo è vero solo nella misura in cui di Giulio Cesare ho prove esterne sufficienti per corroborarne l'esistenza storica, non in virtù dell'assunta storicità di Napoleone. Ma in generale, quando il personaggio allegorico x è totalmente privo di prove della propria storicità, non potrà mai fornirgliene una lo stesso personaggio storico che viene allegorizzato mediante x. Ma solo e soltanto, a quel punto, un'eventuale prova esterna indipendente (cioè che possibilmente non basi la propria affermazione su quella medesima allegoria).


Il fatto che il ''Gesù'' marciano sia allegoria dell'uomo probabilmente esistito chiamato Paolo, non prova affatto l'esistenza storica dell'ebreo Yeshua nella Giudea del I secolo.


È chiaro ora perchè Adamczewski - il folle apologeta cattolico e non lo studioso accademico - ha disperatamente bisogno dell'autenticità anche solo parziale del Testimonium Flavianum per poter continuare ad affermare la storicità di Gesù nonostante il sorprendente risultato della sua ricerca sul vangelo di Marco?


Si prenda il caso di Giovanni il Battista.


Nell'episodio evangelico della sua decapitazione per capriccio di Erode, si dà il caso che lo stesso Adamczewski ha dimostrato elegantemente che ''Giovanni'' è in realtà allegoria di Paolo, laddove ''Erode'' è allegoria di Pietro, a propria volta ''re'' del giudeocristianesimo.


Ecco infatti qual è l'ipotesto paolino dell'ipertesto marciano (ho messo in colore identico dei due testi quasi tutte le nascoste allusioni dal secondo al primo, ma invito il lettore a comprenderle meglio mettendo opportunamente in paragone i due testi):
Marco 6:14-29 Galati 2:11-13
Il re Erode sentì parlare di Gesù, perché il suo nome era diventato famoso.
Si diceva: «Giovanni il Battista è risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi». Altri invece dicevano: «È Elia». Altri ancora dicevano: «È un profeta, come uno dei profeti». Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!».
Proprio Erode, infatti, aveva mandato ad arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata. Giovanni infatti diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello». Per questo Erodìade lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri.
Venne però il giorno propizio, quando Erode, per il suo compleanno, fece un banchetto per i più alti funzionari della sua corte, gli ufficiali dell’esercito e i notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla fanciulla: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». E le giurò più volte: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». Ella uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». E subito, entrata di corsa dal re, fece la richiesta, dicendo: «Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali non volle opporle un rifiuto. E subito il re mandò una guardia e ordinò che gli fosse portata la testa di Giovanni. La guardia andò, lo decapitò in prigione e ne portò la testa su un vassoio, la diede alla fanciulla e la fanciulla la diede a sua madre. I discepoli di Giovanni, saputo il fatto, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro.
Ma quando Cefa venne ad Antiòchia, io mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma, dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, tanto che pure Bàrnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia.
Ma quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?».
Ad esempio, ecco un insospettato simbolismo in quest'episodio.



Il motivo sorprendentemente introdotto di un piatto (Marco 6:25.28), che non corrisponde a quello della decapitazione dal momento che nella letteratura antica le teste mozzate erano di solito brandite per i capelli, in una valigia, in una cesta, in una cassa, oppure impalate (si veda ad esempio 2 Re 10:7; Giuditta 13:9-10.15; Erodoto, Hist. 4.103; Euripide, Baccanti 1141-1142; si veda anche Lucio Anneo Seneca Maggiore, Controversiae 9.2.4, 9.2.24), addizionalmente allude alla questione della condivisione del pasto (Galati 2:12b). In questo modo, Marco dipinse la controversia in Antiochia (Galati 2:11-13) come una 'decapitazione' di Paolo nella questione della condivisione del pasto (Marco 6:25-27-28). 
(pag. 88, mia libera traduzione)



Nonostante la figura di ''Giovanni il Battista'' nel vangelo di Marco sia ridotta al ruolo di allegoria di Paolo in quell'episodio, come quella di ''Erode'' al ruolo di allegoria di Pietro, se siamo certi della storicità e di Giovanni il Battista e di Erode lo dobbiamo allo storico ebreo Flavio Giuseppe, il quale cita entrambi.


Ma se ''Gesù'' è allegoria di Paolo nel vangelo di Marco, come possiamo credere alla sua storicità in assenza di una sua prova extra-evangelica indipendente?


Vedere che tutte le informazioni sulla biografia di Gesù, comprese quelle ricavate dal falso Testimonium Flavianum e dal falso Testimonium Taciteum, derivano, e sono state fatte derivare, da un'allegoria ''Gesù'' dell'uomo Paolo, E SOLO DA QUELLA, conferma i nostri più fondati sospetti: che non esistevano altre prove della storicità di Gesù, dal momento che neppure quell'allegoria può valere da ''prova'' propriamente detta.


Cosa può aver spinto ''Marco'' a fare del suo ''Gesù'' un'allegoria di Paolo?


Chiaramente il desiderio di rappresentare, in questo modo, il Figlio di Dio che possedette Paolo durante la sua vita, come ne danno testimonianza le sue lettere considerate autentiche.


Secondo Roger Parvus, solo un cospiratore simoniano poteva aver avuto intenzione di ingannare il prossimo allegorizzando il proprio uomo-dio, Simone di Samaria, meglio conosciuto come Simon Mago, dietro il suo ''Gesù''. Sempre secondo il geniale miticista americano, fu proprio questo primo tentativo di storicizzare il Figlio spirituale nella persona di Simon Mago che allarmò a tal punto i protocattolici - notoriamente zelanti difensori della bontà del creato e del suo creatore, in opposizione agli gnostici simoniani - da indurli alla gigantesca cooptazione del simonianesimo per dar vita al nascente cattolicesimo, tramite falsificazione di quell'allegoria simoniana che fu proto-Marco (da non confondere con un posteriore Marco Segreto) e soprattutto mediante corruzione delle originali lettere paoline (prima ancora che Marcione fiutasse l'inganno e corresse invano ai ripari cercando di riportare inutilmente alla luce l'originaria voce di ''Paolo''/Simone).


Eppure ho già notato nell'analisi di Marco fatta dal prof. Adamczewski un fatto invero curioso: la sua ricerca conferma la tesi fondamentale di Parvus che in realtà il Gesù marciano è nient'altri che Paolo. Tuttavia, contra Parvus, le lettere di Paolo che ''Marco'' utilizza per creare a tavolino totalmente da zero il suo ''Gesù di Nazaret'' non sono le originarie lettere simoniane o marcionite prive ancora della sporca contaminazione cattolica, bensì sono le stesse lettere Galati, 1 Corinzi e Filippesi come le leggiamo oggi (curiosamente però, è ancora possibile ritenere falsi almeno i passi di Galati che si riferiscono al passato precristiano di Paolo come persecutore della chiesa).


Dunque, la soluzione più semplice all'enigma la concede con grande onestà intellettuale lo stesso Parvus.


Poichè preferisco soluzioni più semplici, allora l'idea di un proto-Marco simoniano diventa evanescente ai miei occhi come l'idea della chimerica fonte Q: detto più semplicemente, probabilmente non è mai esistito un originario proto-Marco simoniano, come non è mai esistita una fonte Q.


Infatti, se fosse esistito proto-Marco simoniano, si sarebbe basato sulle lettere di Paolo già cattolicizzate dai falsari cattolici, ma così si va a negare che a indurre i falsari a bonificare le lettere di Paolo da ogni messaggio protognostico sia stato proprio la diffusione di quell'ipotetico proto-Marco simoniano. Se un proto-Marco presuppone per definizione (Adamczewski docet) lettere di Paolo già falsificate, allora non può costituire, quello stesso proto-Marco, il movente dietro la cooptazione cattolica di quelle medesime lettere.


Dunque o le lettere non sono mai state falsificate alla maniera che prevede Roger, oppure, comunque sia il reale grado di autenticità di quelle lettere (interamente autentiche, parzialmente autentiche, totalmente inventate), rimane il FATTO puro e semplice che Marco, al di là se sia o no stato scritto prima di Mcn, si basa sulle lettere paoline che leggiamo oggi.



Poichè io ritengo un dilemma insuperabile ed eterno la questione dell'autenticità delle lettere, io mi sforzo sempre di derivare conclusioni che valgano in uno qualunque dei seguenti quattro scenari:


1) le lettere di Paolo, salvo qualche rara eccezione (vedi il caso di Paolo persecutore, EVIDENTEMENTE un'ovvia interpolazione cattolica), sono state fedelmente preservate nella loro versione originaria.


2) le lettere di Paolo più autentiche sono quelle pubblicate da Marcione nel primo Nuovo Testamento.


3) le lettere di Paolo più autentiche sono state scritte da Simone di Samaria, e poi successivamente interpolate e falsificate da cattolici e marcioniti, al punto da rendere impossibile ricostruirle alla lettera.


4) le lettere di Paolo furono interamente inventate in buona parte da Marcione, e per la restante parte da protocattolici e marcioniti, senza contare altri eretici.


Sotto uno qualunque di questi scenari, è chiaro, stante il fatto incontrovertibile che il ''Gesù'' marciano costituisce un'allegoria di Paolo (chiunque fosse stato nella Storia l'uomo chiamato Paolo), che ''Marco'', nella sua invenzione artistica di ''Gesù'', si basò devotamente sulle lettere paoline che abbiamo oggi (al di là di quale reale o immaginario processo di falsificazione subirono quell lettere prima di finire sul tavolino di ''Marco'').


Perciò io non sposo l'ipotesi cospirazionistica di Roger che vede il ''Marco'' più originario un cospiratore simoniano.


Per me dunque ''Marco'' era un sincero devoto della memoria, dell'eredità e della figura di Paolo (al di là di quale fu veramente quella memoria, quell'eredità e quella figura) quale le vediamo oggi, e come tale non può essere accusato di cospirazione e di inganno deliberato nei confronti del mondo intero.

I lettori di Marco avrebbero capito a chi si riferiva col suo ''Gesù'', ma avrebbero parimenti capito la lezione: in chi altri se non in Paolo il divino riflesso del solare Figlio di Dio poteva essere catturato?


La missione alla quale si sentiva chiamato ''Marco'' col suo primo vangelo (ora sto assumendo ancora per il momento che sia davvero il primo, come il consensus dice, e non Mcn invece) era di permettere finalmente al mondo intero di vedere il Figlio di Dio riflesso nella Storia. Solo ora, dalla creazione del mondo fino al giorno di ''Marco'', le perfezioni invisibili del celeste Cristo Gesù possono essere contemplate con l'intelletto normale delle persone comuni, e non più con il cuore dei soli Apostoli posseduti spiritualmente dall'angelo Gesù. Per ''Marco'', Paolo era l'Apostolo scelto dal Figlio di Dio per essere il suo ''luogo'' d'elezione: se Paolo era il ''vestito'', l'angelo Gesù riflesso in Paolo era il suo ''tessuto'', il suo più profondo sè e pur tuttavia distinto dal suo più esterno sé. Casomai si accetti l'idea che ''Marco'' presenti una cristologia adozionista oppure separazionista (l'idea di un mero uomo adottato da Dio oppure l'idea di un uomo posseduto dallo spirito di Dio) allora quell'uomo che viene adottato da Dio - oppure quell'uomo che viene posseduto da Dio - non è altri che l'uomo chiamato Paolo.


Nell'obiettivo di ''Marco'', Paolo, l'apostolo scelto dal Gesù mitologico, fu chiamato a riflettere nella sua natura, nella sua vicenda umana, nelle sue lettere considerate da ''Marco'' autentiche (al di là se lo fossero o no), lo stesso angelo Gesù che lo possedette.


Quindi ''Marco'' intravide nella speciale relazione di Paolo con l'angelo Gesù una pienezza derivante dal movimento dell'amore autodonantesi e unificante del Figlio di Dio per il suo apostolo scelto ''fin dal grembo materno'', un amore percepito così grande e sincero da non ritenere evidentemente motivo di scandalo (o di inganno) la piena identificazione del Figlio di Dio con lo stesso uomo chiamato Paolo.

È l'amore stesso dell'angelo Gesù per Paolo - e solo per Paolo - a permettere per ''Marco'' quell'identificazione tra la vita (storica) di Paolo e la vita (non storica) dell'angelo Gesù sulla Terra.


Il Figlio di Dio non viene visto da ''Marco'' come un angelo trascendente e inaccessibile completamente all'occhio umano, almeno non nella misura in cui, svuotandosi della propria divinità, quel Figlio medesimo ''non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente'' (Filippesi 2:6), ma spogliò sè stesso per far rischiarare il suo amore all'intera umanità (cioè, alla sua Famiglia Cosmica che è la chiesa) mediante l'umile riflesso della sua gloria che è Paolo.


Grazie a questa kenosi d'amore i cristiani tutti sono finalmente portati da ''Marco'' a vedere l'amore e la pienezza d'essere del ''Cristo Gesù'' celeste nell'uomo chiamato Paolo.


Non è Paolo a essere un alter Christus, ma è Cristo ad essere un alter Pauli, pur di rivelarsi, a meno di falsi intermediari (i Pilastri?), ad un'umanità sofferente (una possibile influenza marcionita qui?). L'Imitatio Christi cede il posto all'Imitatio Pauli per diventare - solo così, in mancanza di un Gesù storico - un'autentica Rivelatio Christi.


La Reductio ad Paulum operata coscientemente fino in fondo da ''Marco'' nel suo vangelo porta a vedere l'angelo Gesù e l'uomo chiamato Paolo per nulla affatto due entità separate: caratteristica dell'angelo Gesù è l'amore, l'amore per l'Unico e Vero Apostolo Paolo, l'effetto della sua kenosi d'amore è la stessa esistenza dell'uomo chiamato Paolo. Per ''Marco'', Paolo diventa ''Gesù'' perchè Gesù è già diventato Paolo, possedendolo e invasandolo col suo Spirito ''fin dal grembo materno''. Il ''Gesù'' marciano è allegoria dappertutto di Paolo perchè lo spirito di Gesù ha già intessuto, agli occhi del Paolo storico e del suo seguace del II secolo ''Marco'', tutta la sua esistenza.


Ma l'angelo Gesù, grazie al genio letterario di ''Marco'', con un vero colpo da maestro ora non si può solo intravedere ''mediante'' la persona di Paolo (unico riflesso umano nel quale si è rispecchiato, in quanto Vero Apostolo), ma anche ''in'' Paolo l'uomo. Gesù è veramente ''in'' Paolo con la sua essenza, potenza e presenza. Oramai con il vangelo di ''Marco'', vedere la presenza di Gesù ''in'' Paolo è una forma di contemplazione più alta della stessa estasi mistica dell'angelo Gesù che esperivano i primi apostoli come Paolo. E soprattutto, quel che è più importante nell'immediato interesse della comunità di ''Marco'', finalmente la possibilità di appellarsi, contro le insistenti rivendicazioni di Cristi e Gesù rivali, all'autorità dell'unica entità alla quale lo stesso Paolo si sarebbe sottomesso volentieri: ovvero ''a suo Figlio in me''. La marciana Reductio ad Paulum è preludio inesorabile ed ineluttabile alla tendenziosa bastarda cattolica Reductio ad Unum.



Contemplare ''Gesù'' ora nei panni di Paolo è condizione preliminare alla contemplazione di ''Gesù'' senza necessità di essere persone particolarmente dotate (o fortunate per il solo fatto di godere di allucinazioni e rivelazioni personali dell'angelo Gesù). Ora, se Gesù è finalmente riflesso nell'Apostolo Paolo, tutti i cristiani, tutti i ''fratelli del Signore'', diventano a loro volta ''Apostoli'': come l'apostolo Paolo era tale in virtù del suo vedere misticamente il Figlio, ora tutti i cristiani sono apostoli nella misura in cui possono vedere ''Gesù'' riflesso nel Paolo storico, e dunque sulla Terra, non più in cielo. Nella Storia. Non più nel Mito.


Quando il lettore di ''Marco'' comprende che Gesù è quanto di più intimo possa esserci in Paolo, quanto di più profondamente inerente in Paolo, allora comprenderà un istante dopo che la sua relazione con Gesù non è preclusa dal suo non essere apostolo (a differenza di Paolo, che apostolo lo era poichè ''vide'' Gesù) ma anzi è favorita dall'intima identificazione dell'angelo Gesù con il Paulus Historicus.


Unirsi a Paolo, dal momento che Paolo solo è unito all'angelo Gesù, permette ai cristiani a loro volta di unirsi all'angelo Gesù. L'imitatio Pauli è requisito necessario per l'imitatio Christi, perchè Paulus Iesus Christus est.


Il Figlio di Dio, il Signore Gesù, il Punto Fermo verso il quale tutto perennemente tende, lo si trova in Paolo. Il paradosso è che quando il lettore di ''Marco'' trova Gesù in Paolo, scopre a sua volta Paolo più profondamente in Gesù. Questo apre interessanti interrogativi (financo ahimè solo speculativi) sulla misura in cui, con la Reductio ad Paulum del suo Gesù fittizio, ''Marco'' stava anche cercando di cooptare Paolo mettendolo al sicuro da mani importune, magari eretiche e desiderose di cooptare l'apostolo nelle loro folli rivendicazioni (magari come quelle di quel povero vecchiaccio ciarlatano che si nasconde dietro il ridicolo pseudonimo di ''Pier Tulip'', il quale colma così la misura dei suoi peccati, ma ormai lo ha raggiunto l'ira finale). Avverto a volte, e qui riemerge il profondo rispetto che nutro per il suggestivo Parvus-pensiero, una profonda inquietudine quando constato tutto quell'esagerato amore di ''Marco'' per Paolo, quasi che insistendo ossessivamente e con una maniacale precisione e ostinazione quasi tedesca nella Reductio ad Paulum, l'autore stesso di quel vangelo volesse garantirsi ai suoi occhi che Paolo era un uomo buono, era meritevole di essere ''Gesù'' nella misura in cui ''Gesù'' fungesse come da maschera necessaria per lui, per purificare i suoi peccati. Ma quali peccati avrebbe commesso il Paulus Historicus agli occhi di un proto-cattolico ''Marco'', ebbene, a questo quesito, solo Roger Parvus può essere in grado di rispondere, assai meglio di me. E quella sua risposta lascio facilmente intuire al lettore. 

1 commento:

Giuseppe Ferri ha detto...

Sembra d'obbligo complimentarmi con me stesso per il finale di questo post. Ho fatto davvero bene a puntare il dito sull'autentica ossessione di ''Marco'' nel paolinizzare oltre misura il suo Gesù letterario, quasi che fosse impegnato in una gara contro qualcun altro su chi doveva essere il vero e più legittimo seguace dell'impressionante Colossale Apostolo Paolo.