lunedì 7 novembre 2016

Sulla cattiveria del Gesù di carta (II)

“...l'Assemblea Nazionale deve indicare i mezzi per rendere utili i preti o almeno per impedire loro di nuocere. Si tratta di bestie feroci, che vanno incatenate e munite di museruola, se non si vuole esserne divorati.  È nell'interesse generale che i preti vengano sviliti e che la teologia, che ha così spesso coperto la terra di errori e di crimini, sia disprezzata e dimenticata, se la cosa è possibile. In ogni caso essa va strettamente rinchiusa tra le mura delle scuole in cui la si insegna, in modo che riesca ad interessare alle sue dispute frivole e ridicole solo quelli che hanno la stupidità di occuparsene e possiedono l'arroganza insolente di credere che queste insulsaggini siano di grande utilità per uno Stato”.
(A.-J. Naigeon, Adresse à l'Assemblée Nationale sur la liberté des opinions, sur celle de la presse, etc., pag. 37) 
I paesi dove Dio comanda alle persone di punire chi insulta Dio. L'Italia è tra questi.

Quello seduto con gli occhi sgranati mi stava raccontando delle cose. Naturalmente la sua bocca morbida e cucita con cura non si muoveva, nessuno di loro muove la bocca se non sono io a farglielo fare. Nondimeno riesco sempre a rendermi conto di quando hanno  qualcosa da dire, il che avviene piuttosto spesso. Sono sopravvissuti a cose che a raccontarle nessuno ci crederebbe.
E sono ovunque nella mia stanza. Quello di cui parlo è sul pavimento, sdraiato sul minuscolo ventre con la testa appoggiata alle mani incrociate e un piccolo piede sollevato in aria. Un altro è pigramente disteso su uno scaffale alto e vuoto, appoggiato sul gomito e con una sottile gamba di pezza sollevata a formare un triangolo. Sono ovunque: nel camino che non accenderò mai; sulla mia poltrona più comoda che al loro confronto sembra gigantesca; persino sotto il mio letto, in grande numero, e dentro di esso. Io in genere occupo un piccolo sgabello al centro della stanza e la stanza è sempre molto tranquilla. Altrimenti sarebbe difficile sentire le loro voci, che sono deboli e leggermente rauche, come ci si aspetta da gole come le loro.
Chi altri sarebbe disposto ad ascoltarli raccontare tutto quello che hanno passato? Chi altri comprenderebbe le loro paure, per quanto insignificanti talvolta possano sembrare? In un certo modo quindi, dipendono da me. Con pazienza mi curo di storie aneddoti ed esistenze che pochi riuscirebbero a capire. Mai, credo, ho dato loro motivo di pensare che io non ritenessi importanti le più sottili fluttuazioni delle loro ansie, che non nutrissi comprensione e considerazione per le minime sfumature dei loro dolori.
Ho mai parlato loro della mia vita? No; cioè non dopo un certo incidente che avvenne qualche tempo fa. Oggi non ricordo cosa mi prese. Sovrappensiero, cominciai a confessare qualche preoccupazione insignificante, ho completamente dimenticato quale fosse. E in quel momento tutte le loro voci si fermarono di colpo, ognuna di esse, lasciando un insopportabile vuoto di silenzio.
Alla fine ricominciarono a parlarmi, e tutto tornò come era prima. Ma non dimenticherò mai quell'intervallo di terribile silenzio, come non dimenticherò mai l'espressione di infinita malvagità sui loro volti che mi rese muto da quel momento in avanti.
Loro, naturalmente, continuano a parlare e parlare... dalle mensole, dagli scaffali, dal pavimento e dalla sedia, da sotto il letto, da dentro di esso.

(Thomas Ligotti, I burattinai)

“Ecco perché gli atei dicono che Dio è un'orribile persona: non perché pensano che ci sia un Dio o perché desiderano insultare il costrutto cristiano di Dio o perché “vogliono solo peccare”, oppure sono semplicemente “ribelli” o qualsiasi altra cosa, ma perché quell'orribile Dio è il solo tipo di Dio compatibile con l'evidenza; e sicuramente nessuno, neppure il cristiano, dovrebbe desiderare che esista un tale Dio, tantomeno lodarlo.”
(Richard Carrier, Randal Rauser sul Trattamento di Atei Come Persone, mia traduzione)


I folli apologeti cristiani spesso mirano a “salvare” la Bibbia, e in particolare il Gesù dei vangeli, dall'essere il mero vomito di menti selvagge e primitive, trasformando quei testi in qualche specie di trattato miracolosamente ispirato e precursore di non so quale idea o “spiritualità” (quello è il termine più spesso usato e abusato) moderne.

Come puro e semplice fatto storico, i vangeli canonici non furono scritti da persone che erano sagge o particolarmente degne di rispetto. Al contrario, almeno il più antico vangelo - Marco oppure proto-Marco (ma c'è chi dice Marcione) — fu scritto da qualcuno intenzionato deliberatamente a fabbricare un'intera “vita” sulla Terra per un arcangelo celeste altrimenti concepito in azione — da quella stessa persona — unicamente nei cieli inferiori, tra la Terra e la Luna. In altre parole, qualcuno intenzionato a mentire.

I dati trovati nei più antichi strati della letteratura cristiana — vale a dire, le epistole paoline —  sono letti di solito tramite la cieca assunzione dei vangeli posteriori, ovvero supponendo l'esistenza storica di Gesù sul pianeta Terra. Ma quando si perviene stricto sensu al contenuto reale di quelli antichi documenti è naturale realizzare che loro non provano, né esplicitamente né implicitamente, il ritratto che si vuole dare di Gesù nei vangeli, di un profeta itinerante in Giudea vissuto nel recente passato. In verità, ad uno sguardo approfondito, le lettere autentiche di Paolo sono interpretabili più perfettamente e naturalmente sotto l'ipotesi che il cristianesimo si originò quando Paolo e gli altri apostoli cominciarono a costruire, sulla base di indizi intravisti nelle scritture, o di profezie ignorate dai più, o di rivelazioni personali col loro effetto traumatico, una realtà altra, diversa da quella che appare al resto delle persone nella quotidianità del vivere: la realtà di un dio che muore e risorge nei cieli inferiori, un dio mitico (in termini ebraici: un arcangelo celeste) che fu soltanto più tardi trasformato in un dio che muore e risorge sulla Terra. Non fu l'unico dio ad essere evemerizzato sulla Terra. L'antichità classica già proliferava di personaggi mitologici trasformati in personalità “storiche” e propinate alla massa come tali. E la leggenda di “Gesù di Nazaret” non faceva eccezione.

I folli apologeti cristiani storici, ovvero i proto-cattolici vissuti tra II e III secolo, disprezzavano i pagani e la loro letteratura perchè disprezzavano i loro dèi e i loro eroi su un piano squisitamente morale.

La loro logica era:

1) un qualsiasi dio dei pagani (scegli tu il dio che preferisci) è semplicemente depravato.
2) perciò solo depravati adorerebbero un dio depravato del genere.
3) perciò i pagani sono tutti depravati e immorali.

È sufficiente dare uno scorcio ad alcuni brani di quei folli apologeti per realizzare che, tra le altre cose, quei folli apologeti cristiani applicavano volentieri alle leggende pagane il noto Criterio di Imbarazzo per inferire la mera umanità degli dèi pagani (rivalutando il razionalista Evemero per l'occasione, l'ironia essendo che Gesù stesso fu evemerizzato sulla Terra) e quindi denunciarne i vizi. Che ironia constatare che un Lattanzio preferiva salvare la storicità degli Dèi pagani pur di denigrarli come meri esseri umani — tanto forte era il suo odio monoteista contro i Pagani —, piuttosto che denunciarli come frutto di mera invenzione dei “poeti” pagani:
Capitolo IX
Di Ercole; della sua vita e della sua morte
Ercole fu il più rinomato per il suo valore: quasi fra gli Dèi occupa lo stesso posto che fra gli uomini occupa Scipione l'Africano, si direbbe; ebbene, non inquinò egli forse il mondo tutto — e si racconta invece che l'avesse purificato — colle sue violenze, coi suoi capricci, coi suoi disordini, colle sue ribalderie? E non fa meraviglia: anche egli era nato dalle illecite relazioni di Alcmena. Che cosa mai potè essere di divino in lui, che schiavo dei suoi stessi vizi, ricoprì di infamia, di disonore, di vergogna, contro i dettami di qualunque legge, e femmine e maschi? Neppure quelle imprese che egli compì, e che sono cinte di un'aureola di meravigliosa grandezza, sono da vedersi sotto una luce di potenza divina. E che cosa, infatti, v'è poi di tanto straordinario se riuscì vincitore di un leone o di un cinghiale, se abbattè colle sue saette dei volatili, se ripulì la stalla di un re, se vinse una donna di spiriti virili e guerrieri, e riuscì a strapparle di dosso la cintura, se riuscì ad uccidere, col loro signore, cavalli fieri e focosi? Queste imprese, siano pure d'uomo valoroso, non escono dall'ambito umano. Quello su cui riportò vittoria, tutto aveva il carattere dell'umana fragilità.
Non v'è nessuna forza, per quanto grande essa sia, (ciò che dice Cicerone) che non possa essere spezzata, infranta dalla violenza delle armi; vincere l'animo nostro, però, raffrenare l'ira, questa è opera di chi è veramente forte. Ma Ercole non fece nulla di ciò, nè l'avrebbe potuto. Chi riuscisse ad ottenere tale vittoria, io sono pronto a paragonarlo, non ad un uomo, sia pure valorosissimo, ma vicino e similissimo a Dio.
[...]
Nessuno potrà infatti negare che Ercole fosse stato al servigio di re Euristeo, il che fino a un certo punto potrebbe ancora passare per cosa dignitosa ed onesta; ma egli stette anche presso Onfale, donna impudica e corrotta, che, dopo averlo coperto di vesti femminili, pretendeva che stesse sdraiato ai suoi piedi, filando lana: quale bassezza! ... Ma anche il piacere voleva pur la sua, a quale parte!
Qualcuno potrebbe dirmi: ma tu pensi davvero che si debba credere ai poeti? E perchè non lo dovrei credere? Tali cose non ci vengono narrate solo da Lucilio o da Luciano, che non risparmiarono davvero nè Dèi nè uomini, ma soprattutto da coloro che avevano per le divinità parole di lode e di ammirazione. Altrimenti a chi dovremmo credere, se non abbiamo fiducia in chi tributa loro lodi ed incensi? Chi crede che quelli dicano bugia, porti altri scrittori, ai quali possiamo prestar fede e che ci istruiscano sulla vera natura di queste divinità; in che modo e donde siano sorte, quale sia la loro potenza, quale il loro numero, quale il loro dominio, che cosa vi sia in loro di ammirevole e di meraviglioso, che cosa che meriti onore di culto, quale arcano infine s'asconda, in luce maggiore di verità e di certezza; ma non saprà alcuno mai indicarci scrittore che sia capace di dare a noi simili chiarimenti. E quindi crediamo a quelli i quali dissero la loro parola, non per biasimarli e schernirli, questi Dèi; ma per lodarli e sostenerli. Ercole, dunque, prese parte alla spedizione degli Argonauti, espugnò Troia, si sdegnò con Laomedonte, perchè si vide negata la mercede pattuita per la salvezza della figlia, donde appar chiaro in qual tempo sia esistito; il medesimo, spinto da insano e pazzo furore, uccise la donna sua e i figli: e costui gli uomini lo considerano un Dio?
Ma non lo pensò tale Filottete, al quale toccò qualcosa di lui: egli appiccò il fuoco alla pira dove stava per ardere, ne vide le membra e i nervi perdere ogni vigoria sotto l'azione della fiamma, ne seppellì le ossa e le ceneri sul monte Oeta, e fu appunto per tale servigio che ebbe poi le sue frecce.
 Capitolo XIV
Gli dèi nella storia di Evemero e di Ennio
Ed ora, poichè dalle testimonianze che abbiamo riferito testè, la Storia sacra di Ennio dissente alquanto, diciamo chiaramente quanto è contenuto esattamente in quelle scritture, perchè, nel fare la critica a credenze religiose, non dobbiamo sembrare facili a seguire, senza altro, le sciocche invenzioni dei poeti. Ennio si esprime esattamente così: “Di poi Saturno prese in moglie Opi; Titano, che era maggiore di nascita, chiese di poter regnare; Vesta, loro madre, e le sorelle Cerere ed Opi persuadono Saturno che non rinunzi al regno per il fratello. E qui Titano, che d'aspetto era inferiore a Saturno, e per questa ragione, e perchè vedeva che la madre sua e le sorelle cercavano che il regno fosse di Saturno, lasciò che questi avesse la sovranità; ma pattuì con Saturno, che, se gli fosse nato un figlio di sesso maschile, non l'avrebbe allevato, e ciò lo fece evidentemente con l'intento che il regno tornasse un giorno ai suoi figli. Il primo figlio che nacque a Saturno, dunque lo uccisero; nacquero in un secondo momento due gemelli: Giove e Giunone; fecero allora vedere al padre Giunone, perchè femmina, e Giove invece lo nascondono e lo danno a nutrire a Vesta, tenendolo celato a Saturno. Opi poi, di nascosto a Saturno, partorisce Nettuno, ed anche questi lo tengono ugualmente celato al padre, e in un terzo parto Opi dà alla luce Plutone e Glauca: Plutone, latinamente parlando, è Dispater; altri lo chiamano Orco. Mostrano al padre la figlia Glauca, ma, al solito, tengono gelosamente nascosto Plutone. Glauca, poi, ancora piccolina, muore”. Dalla Storia sacra di Ennio ci sono giunte esattamente queste notizie su Giove, sui fratelli di lui e sulle relazioni di parentela che si vennero stabilendo. Ma a queste notizie, dopo poco, aggiunge: “Di poi Titano, avendo saputo che a Saturno erano nati figli maschi e che erano stati allevati di nascosto, trasse con sè i figli suoi, detti Titani, fa prigioniero il fratello suo Saturno ed Opi, li circonda con una muraglia, e li mette sotto buona custodia”.
Quanto risponda a verità questa narrazione, lo insegna la Sibilla Eritrea, che dice, ad un di presso, la medesima cosa, differendo soltanto in pochi punti, che, per altro, non hanno diretta attinenza col fulcro della questione. Giove dunque viene affrancato, diremo, dall'accusa di aver commesso somma scelleratezza, come quello che aveva posto il  padre in catene; ciò pare invece che l'avesse fatto Titano, lo zio, perchè Saturno, contro il patto giurato, aveva fatto crescere figli maschi. La restante narrazione è così intessuta: si dice che Giove, divenuto adulto, avendo sentito che il padre e la madre erano sotto severa custodia e gettati in prigione, sia venuto con una gran moltitudine di Cretesi; che in battaglia abbia vinto Titano e i figli suoi, che abbia così liberato i genitori dalla prigionia, che abbia restituito il regno al padre e sia poi ritornato in Creta. Si dice che, dopo di ciò, Saturno fosse stato avvertito di guardarsi a che il figlio non lo scacciasse dal regno, e che quello avesse teso insidie a Giove per ucciderlo e per togliere di mezzo così ogni possibilità, e che Giove però, avendo scoperto le insidie, abbia di nuovo rivendicato a sè il regno e messo in fuga Saturno, il quale, bandito per ogni terra, inseguito da gente armata e minacciosa, che Giove aveva mandato contro di lui per farlo prigioniero o per ucciderlo, trovò a malapena in Italia un luogo in cui potersi rifugiare.
Capitolo XV
Per quale procedimento, essendo stati uomini, furono chiamati Dèi
Essendo ormai chiaro che queste figure furono umane, non può rimanere oscuro per quale procedimento abbiano cominciato ad essere chiamati Dèi. Se prima di Urano e di Saturno non esistettero re, per il carattere nomade della vita stessa, che — uomini rozzi e primitivi — conducevano senza sentire il bisogno di una stabile guida, non v'è dubbio che nei tempi successivi gli uomini abbiano cominciato ad innalzare a onori, fino allora ignoti, la figura del re e dei suoi prossimi e a tributare loro lodi eccelse, fino a chiamarli Dèi, sia in seguito a manifestazioni straordinarie di coraggio (era questo che stimavano al sommo grado, uomini rudi e primitivi com'erano), oppure, come suole avvenire, per un certo principio di adulazione, di fronte alla potenza del momento, ed anche per certi benefici che risentivano dall'essere stati condotti ad uno stato di maggior civiltà e di maggiore sviluppo. Gli stessi re, in seguito, i quali erano pur stati cari e graditi a coloro, di cui avevano regolato e guidato la vita, lasciarono un grande rimpianto di sè, dopo la morte. E fu così che gli uomini li fecero rivivere nelle immagini, per avere, dalla contemplazione di esse, un qualche conforto; e in questo senso di amore riconoscente per i loro meriti, avanzando nel tempo, cominciarono a venerare la memoria degli scomparsi, per tributare, nello stesso tempo, grazie a chi aveva d'essi ben meritato, e così, pure per incoraggiare, chi fosse venuto dopo loro, a governare con saggezza. Cicerone, nel libro Intorno alla natura degli Dèi, lo dice,e si esprime precisamente così: «La consuetudine invalsa nella vita fu questa, di sollevare al cielo uomini che si distinguevano, che eccellevano in gloria e in volontà; ed ecco di qui Ercole, Castore, Polluce, Esculapio, Bacco». E in altro luogo si legge: «Nella maggior parte delle città si può ben capire come sia stata consacrata la memoria e la fama di uomini illustri, per accrescere lo spirito del coraggio e del valore, e perchè tutti i migliori e i più arditi, con magggiore slancio, incontrassero pericoli per lo Stato: ed è evidente che con questo procedimento i Romani consacrarono i loro imperatori, e i Mauri i loro re, così a poco a poco cominciarono a formarsi i culti religiosi, e come quelli che per primi li avevano conosciuti, fecero poi crescere in quella credenza i figli e i nipoti, e così dopo, gradatamente, fu fatto per tutti i loro discendenti. E questi sovrani insigni e famosi, per la celebrità del loro nome, erano venerati in tutte le contrade. Singolarmente ogni popolo, poi, venerò coloro che rappresentavano l'origine, il principio della propria gente, della propria città, o fossero uomini insigni per fortezza, o donne famose per il loro senso di castità ed onestà: e li fecero segno a serietà e a intimità di culto, come gli Egiziani, Iside; i Mauri, Giuba; i Macedoni, Cabiro; i Cartaginesi, Urano; i Latini, Fauno; i Sabini, Sanco; i Romani, Quirino, e nello stesso modo evidentemente Atene tiene il culto di Minerva, Samo, di Giunone; Pafo, di Venere; Lemno, di Vulcano; Nasso, di Bacco; Delfo, di Apollo. Così da popoli e da paesi diversi, furono seguite varie credenze e culti religiosi, perchè appunto, da un lato, gli uomini desiderano esprimere la loro gratitudine ai loro reggitori e signori, e dall'altro non è possibile loro trovare, per chi è ormai uscito di vita, altre manifestazioni e segni di onore. Inoltre contribuì molto, al propagarsi dell'errore, la religiosità di quelli che vennero dopo, i quali, per apparire d'esser nati da stirpe divina, tributarono onori divini ai loro maggiori e imposero onori divini anche per sè.
[...]
Si aggiunge poi l'opera dei poeti, i quali, composti i carmi tanto liberamente e capricciosamente, li sollevarono al cielo; proprio come fanno coloro che, per quanto riguarda i sovrani, anche malvagi, coi loro bugiardi panegirici compiono opera di adulazione vile. E questo male ebbe origine dai Greci: la fantasia dei quali, unita ad una facoltà esercitata e perfetta di copiosa parola, è difficile credere quante immaginazioni e belle invenzioni abbia potuto combinare. Presi essi d'ammirazione per queste figure, per primi, seguirono quelle credenze e rispettarono il loro culto, che tramandarono poi a tutte le genti. Per questa loro specie di vanità e di leggerezza, la Sibilla così li rampogna:
«O Grecia, perchè confidi in eroi e in principi, e a che dedichi ai defunti vane offerte? Tu sacrifichi ad idoli vani, chi ti ha nel pensiero ingenerato l'errore di compiere tali atti, allontanandoti dalla figura del grande Dio?»
Marco Tullio, il quale non fu solo oratore eccellentissimo, ma anche filosofo, lui che certamente solo seppe seguire le orme di Platone, in quel libro, nel quale cercò un conforto alla morte della figlia, non esitò di dire che gli Dèi, ai quali pubblicamente si rendono onori di riti, siano stati uomini. Questa sua testimonianza è da considerarsi importantissima per il fatto che egli fece parte del collegio sacerdotale degli àuguri e testimonia che egli stesso li faceva oggetto di stima e di venerazione. In pochi versetti ci ha indicato due cose: mentre dichiara che egli renderà sacra e divina l'immagine della figlia, nello stesso modo nel quale furono consacrati dagli antichi i loro Dèi, ci dice chiaramente che essi erano appunto persone defunte, e ci dà l'idea quindi dell'origine di quella vana credenza.
Ma insomma, furono i poeti che inventarono tutta questa fioritura di favole: e se uno pensasse proprio così, sbaglierebbe: i poeti intendevano parlare di uomini, ma per innalzare coloro dei quali celebravano e magnificavano la memoria, li dissero Dèi.
Sono false e inventate quindi quelle cose che andavano dicendo costoro, qualora si pensino nei riguardi della divinità, ma non in quanto si possono riferire ad esseri umani. E che sia chiaro e sicuro quel che affermo lo dimostrerà l'esempio seguente. Un tale, che aspirava a godere le grazie di Danae, lasciò cadere nel seno di lei una gran copia di monete d'oro, ed era questo il prezzo dell'amore concesso; ma i poeti che parlavano della cosa, riferendola alla divinità, per non infrangere l'autorità di una pretesa maestà divina, finsero che Giove stesso fosse disceso nel seno della fanciulla sotto forma di pioggia d'oro, come precisamente si direbbe pioggia di ferro, quando, con immagine poetica, si volesse descrivere una moltitudine infinita di dardi e di saette. Si dice di Ganimede, che Giove l'abbia rapito sotto forma d'aquila, ma questa narrazione sa evidentemente di poesia: il rapimento avvenne o per mezzo di una legione che aveva come insegna l'aquila, o la nave nella quale fu posto aveva, nell'aquila, raffigurato quasi il segno della sua protezione; come del resto si figurò toro quando rapì e portò lontano Europa. E nella stessa maniera si dice che abbia trasformato in vacca la figlia di Inaco, Io, che, per sfuggire all'ira di Giunone, ormai sul punto di partorire com'era, pare che, cangiatasi in vacca, abbia traversato il mare, sia giunta in Egitto, e che quivi, riacquistata la forma primiera, divenisse Dèa, e precisamente quella che ora è adorata sotto il nome di Iside. Ma con quale argomento si può provare che nè Europa abbia mai inforcato il toro e che Io non abbia mai assunto natura bovina? Dal momento che nei Fasti è stabilito un giorno nel quale si celebra la navigazione di Iside, resta dimostrato che essa non sia stata affatto trasportata al di là del mare, ma abbia compiuto normalmente la traversata. Coloro che se la pretendono a dotti, dal momento che comprendono bene che un corpo, in pienezza di vita terrena, non può essere che viva in cielo, ripudiano come inventata e falsa di sana pianta la favola circa il rapimento di Ganimede, e giudicano che ciò deve essere avvenuto in terra, perchè la cosa, nella sua natura passionale, è terrena. I poeti dunque non inventarono essi stessi gli avvenimenti, chè se l'avessero fatto, sarebbero stati stoltissimi e vani, ma avvolsero fatti reali in una certa aureola di poesia e di fantastico. E non dicevano ciò collo scopo di falsare e d'ingannare, ma per circondare certe circostanze umane di una tal qual vaghezza e aureola divina. Ed è proprio di qui, che gli uomini sono ingannati, massimamente perchè, mentre credono da un lato che tutte queste narrazioni siano state inventate dai poeti, finiscono poi coll'attribuire valore e fare oggetto di culto riguardoso quelli che essi non conoscono esattamente nella loro reale portata. Non più sanno infatti quale sia il limite che può essere concesso alla poesia, fino a che punto si possa avanzare in questo gioco d'invenzione e di fantasia, mentre appunto il poeta deve guardare di poter rappresentare, sotto immagini e colorazioni diverse e un pò lontane dalla verità, pur mantenendo il dovuto decoro e la richiesta dignità, le gesta che sono state veramente compiute. Inventare totalmente quello che tu vieni dicendo è affatto contrario e inopportuno, ed è piuttosto opera menzognera che di poeta. Ma abbiano pure inventato certi particolari di fatti che si possono appunto reputare favolosi: ma che forse si dovranno dire false anche le notizie che si hanno degli Dèi, e dei rapporti coniugali fra divinità stesse? Perchè vengono rappresentati, sorto certi caratteri, anche plasticamente? Perchè si venerano in quella data particolare loro natura? A meno che non solamente i poeti, ma anche i pittori e i plasmatori d'immagini non mentano.
[...]
Ma ciò, come si fa a provarlo? Le antiche storie ce l'insegnano chiaramente.
L'antico scrittore Evemero, che fu della città di Messene, raccolse le gesta di Giove e di tutti gli altri esseri che sono creduti Dèi, e ne tracciò una descrizione organica secondo iscrizioni ed altre testimonianze, che si potevano riscontrare in antichissimi templi e specialmente nel tempietto di Giove Trifilio, dove un segno stava ad indicare che dallo stesso Giove v'era stata posta una colonna d'oro, nella quale egli espose le sue gesta, poichè essa servisse a perpetuare la memoria delle sue imprese. Anche Ennio interpretò e segutì tale tradizione, e così disse: «... quando Giove dà a Nettuno la signoria del mare, affinchè regni su tutte le isole e in tutte le terre, lungo le rive del mare». Sono dunque vere le affermazioni dei poeti, ma soltanto che le verità sono nascoste sotto immagini strane e fantastiche. Anche il monte Olimpo può aver suggerito ai poeti un'immagine, così da dire che Giove avesse sortito la signoria del cielo, perchè Olimpo è appunto un nome che si può riferire tanto ad una determinata montagna, quanto al cielo, e infatti la tradizione stessa narra che Giove abbia abitato sull'Olimpo, e colà venivano a lui per consiglio e deliberazioni quando su qualche cosa nascevano dei contrasti. E similmente se qualcuno avesse trovato qualcosa di nuovo che fosse utile alla vita umana, andava colà e lo manifestava a Giove. Molte cose i poeti trasformano in questo modo, non per compiere opera di menzogna all'indirizzo di coloro che rispettano e venerano, ma per rivestire i loro carmi di grazia e di bellezza con figurazioni garbate e diverse. Ma quelli che non capiscono in qual modo o a quale scopo si possa dare a ciascuna cosa immagine diversa, accusano i poeti e li fanno passare per menzogneri e sacrileghi. Anche i filosofi, tratti da questo errore, poichè sembrava loro che tutto quello che s'andava narrando di Giove, non convenisse affatto alla dignità di un Dio, immaginarono due Giovi, uno naturale e divino, l'altro, creato dalla fantasia dei poeti. E videro in ciò quello che in parte era vero, ossia che quello di cui parlano i poeti era stato uomo; nei riguardi però dell'altro Giove si ingannarono, perchè, indotti dalla consuetudine ormai seguita nella pratica religiosa, attribuirono a quello pensato di natura divina, il nome di un essere terreno, mentre quell'essere, appunto perchè è unico, come abbiamo affermato di sopra, non ha bisogno di denominazione alcuna.

 (Lattanzio, Istituzioni Divine, Libro I)


Ma ora è giunto il tempo di leggere i vangeli allo stesso modo più letterale possibile.
E di ritorcere, stavolta dati alla mano, contro gli stessi cristiani, l'accusa che essi lanciavano così arrogantemente sui pagani.

1) il Gesù dei vangeli, se si prendono *alla lettera* i vangeli (chiudendo un occhio sul fatto che sono mero frutto di invenzione), è moralmente orribile e depravato.
2) perciò solo depravati adorerebbero un uomo orribile e depravato del genere.
3) perciò i cristiani sono tutti orribili e depravati.

 L'unico modo per falsificare la conclusione del punto 3, non è negare la premessa 1contra factum non valet argumentum —, bensì rifiutarsi di prendere *alla lettera* i vangeli. Ma questo corrisponde a spostare l'attenzione di un'ipotetica corte marziale presieduta dai lettori: non è più il Gesù dei vangeli orribile e depravato — quel Gesù di carta è solo una mera invenzione — ma lo furono i suoi fabbricatori.  Quelli esistiti.

Si prenda Luca 14:26 :
Se uno viene a me e non odia [μισεῖ] suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo.

L'influenza di Deuteronomio 13:6-11 sull'esortazione ad odiare i membri della propria famiglia è indubitabile:
“Nel caso che tuo fratello, figlio di tua madre, o tuo figlio o tua figlia o la tua moglie prediletta o il tuo compagno che è come la tua propria anima,tenti in segreto di sedurti, dicendo: ‘Andiamo a servire altri dèi’, che non hai conosciuto, né tu né i tuoi antenati, alcuni degli dèi dei popoli che sono tutt’intorno a voi, quelli che ti sono vicini o quelli che ti sono lontani, da un’estremità all’altra del paese, non devi acconsentire al suo desiderio né ascoltarlo, né il tuo occhio lo deve commiserare, né devi provar compassione, né coprirlo protettivamente; ma devi ucciderlo immancabilmente. La tua mano deve venire per prima su di lui per metterlo a morte, e dopo la mano di tutto il popolo. E lo devi lapidare con pietre, e deve morire, perché ha cercato di farti allontanare da Geova tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa degli schiavi. Quindi tutto Israele udrà e avrà timore, e non faranno più in mezzo a te una cosa cattiva come questa.”

Il fariseo Flavio Giuseppe non si faceva nessun problema ad accettare quel tipo di odio comandato da Dio, perfino quando percepisce che c'è qualcosa che non va dal punto di vista morale:
Poiché Dio odiava [ἐμίσησε] la stirpe degli Amaleciti gli aveva ordinato di non risparmiare neppure i bambini, dei quali è più naturale che si abbia compassione. Saul tuttavia salvò il loro re, autore di tanti mali per gli Ebrei, avendo maggiore riguardo per la bellezza del suo nemico che memoria per gli ordini di Dio.
(Antichità Giudaiche, 6.138)
La devozione che il Gesù di carta pretende per sè è lo stesso genere di devozione che un signore della guerra come l'assiro Assurbanipal pretendeva dai suoi vassalli. Non si tratta di amore sincero, ma di un mero sentimento di lealtà:
Tu amerai Assurbanipal, il principe incoronato, figlio di Esarhaddon, sovrano di Assiria, tuo signore, come la tua stessa vita.
(Wiseman, The Vassal Treaties of Esarhaddon, pp. 49-50, II, 266-268, mia traduzione)
Come nota giustamente il prof Hector Avalos a proposito di questa imposizione:
Si noti che la parola assira per 'vita' qui è napištum, che è parente dell'ebraico נפש (nephesh), la parola di solito tradotta nella Septuaginta con il greco ψυχή (psyche). L'ultimo termine è precisamente quello usato in Luca 14.26 per tradurre 'vita' nella clausola '[odia] ... persino la sua propria vita' (καὶ  τὴν  ψυχὴν  ἑαυτοῦ).
(Hector Avalos, The Bad Jesus; The Ethics of New Testament Ethics, pag. 87, mia libera traduzione)

È così naturale leggere Luca 14.26 come una irrazionale esortazione all'odio di tutti coloro che intralciano il Gesù di carta, che i folli apologeti cristiani si sono inventati le più assurde giustificazioni pur di eludere il significato più semplice di miseō nel contesto di Luca 14.26 .

Ad esempio, l'apologeta cattolico Gianfranco Ravasi insiste sull'assurdo quando il chiaro significato di Luca 14.26 per lui è troppo assurdo da accettare:
Ora, in ebraico e aramaico non si ha il comparativo, ma si usano solo le forme assolute. Così, per dire “amare meno” si adotta l’estremo opposto all’“amare”, cioè l’“odia- re”.
Il senso della frase, tanto forte ai nostri orecchi, in realtà vuole più pacatamente affermare quanto propongono alcune versioni moderne, come quella della Conferenza episcopale italiana che traduce il nostro versetto in questo modo, sulla scia del parallelo di Matteo:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre..., non può essere mio discepolo». Oppure si potrebbe anche tradurre: «Se uno viene a me e mi ama meno di quanto ami suo padre...».

Eppure il problema in quella disperata, folle apologia è che si tratta di un debolissimo argomento del silenzio, della forma seguente:

1) in ebraico e in aramaico non si ha il comparativo
2) “perciò” in ebraico e in aramaico “odiare” significa SEMPRE “amare meno rispetto a”.

Con questa logica così idiota, nessun ebreo nell'antichità, neppure il dio YHWH in persona, poteva avere il diritto di intendere che stava odiando x, pena altrimenti di esprimere, contro le sue intenzioni, solo una minore preferenza di x rispetto a qualcun altro.

Eppure è YHWH stesso colui che odia sic et simpliciter, secondo lo stesso Paolo l'apostolo:
...come'è scritto: «Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù».
(Romani 9.13)

Le parole alle quali Paolo si sta appellando stranamente non sono quelle di Gesù, ma delle scritture, più precisamente di Malachia 1:2-3 :
Vi ho amati, dice il Signore. E voi dite: «Come ci hai amati?». Non era forse Esaù fratello di Giacobbe? — oracolo del Signore — Eppure ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù.

Così il prof Avalos:
Non esiste nessun confronto di grado implicito oppure dichiarato grammaticalmente qui sia in ebraico che in greco. È perfettamente comprensibile in ebraico e in greco che Yhaweh ha amore per Giacobbe, e non ha amore per Esaù. Tale retorica potrebbe originarsi nel reale odio tra Edom e Israele, come riflesso nel Salmo 137.7: 'Ricordati, Signore, dei figli di Edom, che nel giorno di Gerusalemme, dicevano: “Distruggete, distruggete anche le sue fondamenta!”' (si veda Geremia 49.7-22; Obadia).
(Avalos, ibid., pag. 61, mia traduzione)

Come spiega accuratamente nel suo libro, “coloro che negano un significato letterale per miseō non hanno presentato nessun caso dove qualche significato comparativo per miseō è chiaro o richiesto su basi o filologiche o contestuali. Tutta l'evidenza comparativa dell'antico Medio Oriente (Elefantina, Codice di Hammurabi, papiri magici copti, ecc.) coerentemente mostra che gli equivalenti linguistici del greco miseō significano l'opposto di amore nel suo senso pienamente emotivo.”


E sarebbe ridicolo, come si azzarda Ravasi, leggere Luca 14.26 sulla base di Matteo 10.37.
Una ragione è piuttosto semplice: uno non può assumere che i lettori di Luca avessero letto Matteo al tempo in cui Luca fu scritto. Al tempo in cui Luca stava per essere scritto, il Nuovo Testamento, come lo conosciamo noi, non esisteva. Non era completo, e ciò riguarda tutti e quattro i vangeli. Perciò, è implausibile per l'autore di Luca usare una parola potente proprio come miseo, e poi sperare che qualcuno avrebbe letto Matteo allo scopo di spiegare ciò che intese Luca. Piuttosto, uno si aspetterebbe che Luca usasse parole che il pubblico comprenderebbe dal modo in cui quelle parole sono utilizzate nel linguaggio del lettore. La parola greca miseō ha un significato altrettanto forte e coerente come ogni parola nell'intero lessico greco. Non varia o è soggetto a così tanta flessibilità come potrebbe essere per altre parole. 
La lettura di Matteo può anche essere spiegata senza dover cambiare il significato della parola miseō in Luca. Matteo potrebbe non aver gradito il forte e duro tono di Luca 14:26, e così lo modificò. Invero, il biblista cattolico Joseph Fitzmeyer dice esplicitamente così: 'Matteo ha ammorbidito l'esortazione di Gesù tramite il suo linguaggio redazionale “ama ... più di me”.

(Avalos, ibid., pag. 54, corsivo originale, mia traduzione)

Ogni apologia da parte cristiana tesa ad affermare il contrario è ridicola e neppure remotamente probabile: in una parola, è follia allo stato puro.

C'è chi addirittura ha ricordato il pur violento e allucinato linguaggio di Apocalisse 2.6 :
Tuttavia hai questo, che detesti le "opere" dei Nicolaiti, che anch'io detesto.

Eppure Luca 14:26 riesce nella mirabile impresa di suonare più violento e depravato del già violento e depravato Cristo di Apocalisse 2.6: il Gesù di carta non esorta ad odiare il peccato, ma reali esseri umani: “suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita”. Tutto questo è semplicemente abominevole e disgustoso.

 Secondo altri folli apologeti cristiani — e anche parecchi fondamentalisti (che a quanto pare così “fondamentalisti” non sono, visto che non esitano a ripudiare in questo caso proprio la lettura più letterale del passo!) —, l'“odio” di Luca 14:26 sarebbe “iperbolico” (perciò non-letterale), teso principalmente a enfatizzare la superiorità della rinuncia proprio elencando, per ricercato contrasto, il pur enorme valore di ciò che si lascia nel seguire Gesù: ovvero i propri cari e addirittura la propria stessa vita.

Ma YHWH non stava affatto parlando iperbolicamente quando, in Deuteronomio 13:6-11 (riportato sopra), esortava alla piena, completa e totale distruzione di tutte le famiglie idolatriche, previa obbligatoria estinzione, a comando divino, di ogni possibile affetto provato verso quelle famiglie.

E non stava Gesù eseguendo “la volontà del Padre mio che è nei cieli” per Matteo 12:50 ? Suo Padre non era forse YHWH ?

Addirittura, qualcuno è così folle apologeta cristiano da arrivare a giustificare l'“odio” per la famiglia, quando quest'ultima si immagina in forte opposizione a Gesù — magari, si assume gratis, sovrapponendosi “colpevolmente” tra lui e il suo potenziale discepolo —, però di solito si puntualizza con sottile, malcelata apologia, come fa il prof Mauro Pesce, che:
È nel rapporto differenziante, ma non totalmente conflittuale, tra gruppo discepolare e nuclei parentali che si situa la capacita creativa e trasformatrice di Gesu.
(Adriana Destro, Mauro Pesce, L'uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita, Milano, Mondadori, Novembre 2008, pag. 209, mia enfasi)

Il Gesù di carta, preso alla lettera in Luca 14:26, pretende un rapporto totalmente conflittuale tra aspirante discepolo e la sua famiglia, se ha usato la parola miseō, eppure Pesce si ostina a dire che si tratta di un “rapporto differenziante, ma non totalmente conflittuale”, per cui il Gesù di carta sarebbe, secondo Pesce, fondamentalmente esente dalla colpa di esortare i discepoli all'odio irrazionale delle famiglie d'origine [1]. 
E perfino se solo in certi casi il discepolo doveva odiare la propria famiglia, cioè solo quando quest'ultima sarebbe stata riluttante a lasciarlo andare per seguire Gesù, tutto questo non esaurisce, ma aggrava, l'immoralità dell'esortazione del Gesù di carta. Il prof Avalos è l'unico professore, tra i biblisti, a denunciare l'irrazionalità intrinseca di un incitamento all'“odio” del genere, perfino quando inteso come volutamente “iperbolico”, e questa sua coraggiosa denuncia fa la precisa differenza tra seria ricerca scientifica e malcelata follia apologetica:
Per giunta, gli studiosi del Nuovo Testamento stanno ancora evadendo in larga misura le questioni etiche che sono sollevate se miseō significò niente più della richiesta che i seguaci di Gesù preferiscano lui alle loro famiglie. Quelli che negano che Gesù intese 'odio' nel senso più emotivo e più duro fanno così perchè pensano che sarebbe immorale per Gesù fare una cosa del genere. Tuttavia, quelli stessi moralisti del Nuovo Testamento sembrano non aver alcun problema ad accettare come etiche le esortazioni di Gesù ai seguaci di conferirgli la loro totale obbedienza perfino in preferenza rispetto alle loro stesse famiglie.
Come giudicheremmo un moderno leader religioso che ha detto che dovremmo preferirlo alle nostre famiglie? Perchè non tratteremmo una persona simile alla stregua del leader egomaniaco di una setta che fa ciò che fanno tutti i leader: trasferire obbedienza dalla propria famiglia a lui o a lei. In altre parole, quella richiesta sarebbe vista come immorale in sè stessa.
Alla fine, Gesù non stava erodendo qualche struttura scoiale patriarcale o gerarchica, come è sostenuto da Crossan ed altri. Piuttosto, Gesù stava perpetuando una ben nota tradizione di leadership che era in ultima istanza basata sulle antiche relazioni mediorentali di servo-padrone e di signore-vassallo, le quali richiedevano che il signore riceva la totale obbedienza da tutti i subordinati perfino a spese delle loro stesse vite e famiglie. Etichettare la sua esortazione come una chiamata ad un 'discepolato radicale' appare un altro eufemistico tentativo da parte dei moralisti del Nuovo Testamento di dissimulare la concezione egemonica, dispotica, egomaniacale e immorale  di sottomissione che Gesù stava domandando.

(Avalos, ibid., pag. 88-89, mia libera traduzione e mia enfasi)

NOTE


[1] Pesce commette pure un altro errore:
I vangeli non ci raccontano alcun contrasto tra i discepoli e il loro ambiente d'origine.
(Destro, Pesce, ibid., pag. 143)

 Strano davvero che Pesce scriva così, quando esiste evidenza testuale già in Marco (e di riflesso in tutti gli altri vangeli) che l'autore di quel vangelo esecrò e diffamò la famiglia del Pilastro Giacomo, chiamando suo padre “Zebedeo”, l'equivalente biblico di “traditore” e gettandolo così, coi suoi operai ridotti a “mercenari” (
τῶν μισθωτῶν, Marco 1:20), nella luce più sinistra possibile (ma si sa quale fu la “colpa” del Giacomo storico: non aver seguito il Gesù di Paolo). E tutto questo proprio quando nell'allegoria il Gesù di carta invita Giacomo e Giovanni a seguirlo.


Quindi, se esiste la prova che l'inventore del Gesù di carta odiava e disprezzava chi nel passato reale si rifiutò di seguire il Cristo predicato da Paolo (vale a dire i Pilastri Giacomo e Giovanni di Galati 2:9), allora questo è già equivalente a dire che il Gesù di carta, almeno nel caso di Giacomo e Giovanni “figli di Zebedeo”, li invita ad odiare letteralmente il loro padre, in quanto esplicito ostacolo al loro discepolato. La marionetta non può ribellarsi al suo creatore, ed eccone l'ennesima prova.

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