mercoledì 30 aprile 2014

Di chi fu veramente crocifisso nel primo vangelo

Su Vridar

http://vridar.org/2014/04/18/jesus-crucifixion-as-symbol-of-destruction-of-temple-and-judgment-on-the-jews/ 

sono venuto a conoscenza di altri, numerosi dettagli che confermano sempre più la mia interpretazione preferita del vangelo di Marco, ossia che la crocifissione di Gesù simboleggia la distruzione del vecchio Israele -- ad opera dei romani, nel 70 -- e in pari misura la necessaria premessa per la risurrezione di un Nuovo Israele -- sotto forma della nascente chiesa cristiana.

Trovo particolarmente persuasiva, alla luce dell'enorme potere esplicativo che si porta seco questa ipotesi, la spiegazione di un episodio altrimenti enigmatico che compare in un punto cruciale della narrazione marciana, ovvero l'inquietante ammonimento profetico rivolto da Gesù all'indirizzo del Sommo Sacerdote, che gli costerà l'accusa di blasfemia.

Il sommo sacerdote, alzatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Gesù rispose: «Io lo sono! 
E vedrete il Figlio dell’uomo
seduto alla destra della Potenza
e venire con le nubi del cielo». 

Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte.

(Marco 60-64)



Le stesse parole sul Figlio dell'Uomo che scenderà con le nubi del cielo sono messe nuovamente in bocca a Gesù nel capitolo 13, notoriamente denso di allusioni post-eventum alla distruzione del Tempo.

Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria.
(Marco 13:26)

Ma perchè Gesù si preoccupa di dire proprio quella profezia in particolare, di fronte al Sommo Sacerdote sinedrita?

Secondo alcuni storicisti, colpevoli chiaramente di una lettura eccessivamente letteralista di quel passo evangelico, quelle parole, o anche solo qualcosa di simile in grado di rammentarle sia pure vagamente, furono davvero pronunciate da Gesù: in fondo, l'essenza di quelle parole sarebbe del tutto in linea col linguaggio escatologico a volte esasperato di un profeta apocalittico quale potrebbe essere stato un ipotetico Gesù storico scambiato per sedizioso (essendo le profezie apocalittiche troppo spesso una cifra costitutiva, quasi il linguaggio ''in codice'', degli ambienti zeloti o filo-zeloti), dunque perchè non salvare Marco in vista della ricostruzione di un plausibile ritratto del Gesù storico?

In fondo, a detta dei medesimi storicisti, si potrebbe usare qui anche il criterio di imbarazzo: quell'aggressivo coming-out di Gesù dinanzi ad attoniti accusatori sinedriti, chiaramente si trascina automaticamente dietro l'enorme imbarazzo di una profezia per null'affatto realizzatasi. Dunque, a maggior ragione, perchè non riconoscere a Marco in quel punto la parte dello storico, o almeno qualcosa che più vi assomigli, più che del teologo e dell'artista letterario?

A dire il vero, bisogna intanto rivalutare la lettura che diede il grande studioso William Wrede di quel passo, alla luce del Segreto Messianico che pervade l'intero primo vangelo, che si può riassumere così: nonostante il violento coming-out di Gesù, ancora si stenta, da parte di Pietro e tanto più da parte dei suoi accusatori, a riconoscere la vera identità dell'accusato, ossia la sua pur malcelata e latente Messianicità.

Nelle parole di Tim Widowfield:

Quello è esattamente il punto di Wrede. Non un'anima solitaria comprese il significato del segreto di Gesù fino a dopo che resuscitò dai morti. Non dovremmo venir tentati nell'assumere che i discepoli fossero semplicemente lenti a realizzare, che essi avessero ''l'idea sbagliata'' su Gesù e progressivamente, sebbene lentamente, compresero la verità. Per nulla affatto. Il vangelo di Marco è chiaro sulla questione: Loro non compresero nulla.
(Vridar, 2013/03/12, Reading Wrede Again for the First Time -9 mia enfasi)

Questo significa che su un livello squisitamente teologico-letterario Marco aveva almeno un motivo per rendere Gesù così fortemente esposto e chiaro nelle sue reali intenzioni -- in fondo, aveva di fronte il proprio accusatore e non poteva rimanere silente a lungo! --  e tuttavia lasciare impunemente che il suo aggressivo pronunciamento su di sé non sortisse alcun effetto, ma al contrario affrettasse ancor più speditamente il verdetto negativo del processo (un motivo simile lo vediamo nel finale di Marco, dove l'effetto sortito sulle donne al Sepolcro dalle parole dell'angelo rappresenta l'esatto contrario delle direttive di quest'ultimo). In virtù del tema dominante del Segreto Messianico, Gesù poteva dire tutto e il contrario di tutto: non sarebbe mai stato compreso. E non sarebbe mai stato compreso perchè non sarebbe mai stato riconosciuto. E non sarebbe mai stato riconosciuto perchè quel Gesù probabilmente non è mai esistito.

Ma esiste anche il motivo che spiega perchè, tra tutte le parole che poteva usare il Gesù di Marco davanti al suo accusatore, scelse proprio quelle stesse già sentite nell'apocalittico Marco 13.

Sono chiaramente parole di GIUDIZIO. Che Marco le rimetta nuovamente in bocca a Gesù proprio in quell'occasione non sta a significare nient'altro che il sommo sacerdote al quale sono rivolte assisterà di lì a poco al puntuale verificarsi di quella profezia, di quel GIUDIZIO. Sul Golgotha.

In altre parole, il GIUDIZIO profetizzato da Gesù sul vecchio Israele rappresentato dal sommo sacerdote avverrà di lì a poco nell'estremo, radicale paradosso di un Messia Crocifisso dai romani.

Marco quindi nel suo vangelo ha voluto instaurare una  stretta identità tra crocifissione di Gesù e Giudizio di Dio, un Giudizio di Condanna, sul vecchio Israele (rappresentato dal Sinedrita accusatore). A essere crocifisso non è un uomo, o almeno non è solo un singolo uomo, ma è Israele, per le sue colpe commesse. La punizione che Gesù riserva al Sommo Sacerdote che lo condanna a morte corrisponde proprio alla sua stessa crocifissione romana quale simbolo di Israele.


La pena di Gesù corrisponde alla punizione del popolo che lo ha appena rinnegato nelle parole del Sommo Sacerdote che lo accusa di blasfemia non riconoscendone la vera identità (al pari del lettore che non comprende l'allegoria di Marco). La pena della vecchia casta sacerdotale e del vecchio Israele, colpevole di aver abbandonato Dio, corrisponde alla punizione di Gesù sulla croce ad opera dei romani. E alla conseguente consegna di ''Gesù'', cioè del titolo di Israele, ai gentili.


Quel GIUDIZIO per Marco si era profilato concretamente NELLA STORIA con tanto di precisa data storica: nel 70 EC il Tempio di Gerusalemme venne completamente raso al suolo da parte dei romani di Tito, un fatto inaudito e sconvolgente per quei tempi.

E quel medesimo GIUDIZIO Marco lo rappresentò vividamente NELL'ALLEGORIA mediante la scena più paradossale e dissonante di tutte: un Messia, anzi IL Messia, crocifisso dai romani.

Col vecchio Israele moriva giustamente crocifisso anche il vecchio ideale messianico, kata sarka, ''secondo la carne''.

Questo solleva un inquietante interrogativo, sulla scorta del solo vangelo di Marco: la crocifissione di Gesù era veramente accaduta, e Marco ne approfittò per ''imbalsamarla'' di significato profondamente allegorico, un significato che per la comunità di Marco doveva servire a spiegare qualcos'altro (il significato di allegoria) che prima di Marco i seguaci di Gesù non immaginavano affatto che si realizzasse (ovvero la minacciata estinzione di un'intera Civiltà, oltre che del culto del Tempio) ? Oppure per Marco si trattava solo di un'allegoria, l'allegoria del fato subito da Israele in prossimità della sua attesa Rinascita in un nuovo Patto, e nient'altro?



A favore della prima ipotesi potrei chiedermi: ma perchè scomodare come allegoria di un fatto del 70 EC un personaggio collocato dalla medesima allegoria nel 30 EC ?

Una domanda a cui gli storicisti non sanno rispondere, e che perciò, concludono, conduce all'implicità necessità di un Gesù storico all'origine del processo che portò alla stesura del vangelo, foss'anche un vangelo completamente allegorico come lo è il vangelo di Marco.

Ho posto la stessa domanda al miticista Richard Carrier ed ecco la sua risposta.


Esistono numerose possibili spiegazioni. In verità i cristiani discordavano su quando (alcuni facevano morire Gesù sotto Claudio, dieci anni prima della guerra; altri sotto Ianneo, ottant'anni prima che Roma mai governasse la Giudea). Ma l'assegnazione del credo occidentale al decennio di Pilato fu o una anticipata assunzione derivata da calcoli del libro di Daniele del Secondo secolo AC (da cui ognuno stava cercando di fare matematica per calcolare quando il messia sarebbe venuto e sarebbe morto, per Daniele 9; un tipico esempio cristiano è in Giulio Africano), o una retrodatata assunzione derivata da matematica spirituale standard (quarant'anni essendo un periodo standard di errare e soffrire prima che cambino le cose, per la narrazione dell'Esodo), o semplicemente un mito dell'origine derivato da quando iniziò il culto (le prime visioni di Gesù si può calcolare dalle lettere di Paolo che siano accadute negli anni 30 o circa), o tutti questi motivi di cui sopra. Che Gesù fu collocato un centinaio d'anni prima da almeno una setta di cristiani (o negli anni 50 per qualche altri cristiani) indica che c'erano altri modi di fare la matematica spirituale. Quello nel canone era proprio quello della setta che trionfò.

È un buon punto.





Ma Gesù al Sommo Sacerdote sta alludendo al Figlio dell'uomo. Lo stesso figlio dell'uomo a cui lui più e più volte si è riferito nei suoi enigmatici discorsi ai goffi discepoli, profetizzando che verrà ''consegnato'' ai gentili.

E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
(Marco 8:31)

Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».
(Marco 9:31)

«Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà».

(Marco 10:33-34)


Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
(Marco 10:45)

Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! [παραδίδοται, letteralmente ''viene consegnato''] Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».
(Marco 14:21)

Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori.

(Marco 14:41)



Ma quell'essere ''consegnato'' ai gentili non rappresenta tout court un fatto negativo: perchè è la stessa chiesa, il ''corpo di Cristo'', il Novus Israel, a venire ''consegnato'' ai gentili dopo il necessario travaglio che toccherà al vecchio Israele. E in Daniele il significato originario di figlio d'uomo indica lo stesso popolo d'Israele.  Marco era troppo versato nelle Scritture ebraiche per trascurare o rinnegare quell'ancestrale significato implicito nel ''figlio d'uomo''.

Quindi ecco cosa potrebbe essere accaduto. All'inizio Paolo e i Pilastri predicavano il Cristo crocifisso. Paolo in particolare sottolineava come ad entrare nel Corpo di Cristo è ogni cristiano battezzato, non ha importanza se pagano o ebreo. Paolo ricevette di certo delle resistenze da parte dei giudeocristiani  per le sue aperture ai gentili. Non saprò mai con certezza assoluta (ma fortunatamente non è un grande danno) se gli oppositori di Paolo furono gli stessi Pilastri oppure solo isolate frange più tradizionaliste e xenofobe dei giudeocristiani (quelle stesse che scriveranno in seguito il libro dell'Apocalisse contro i paolini). Ad ogni caso Paolo fu accolto con molta freddezza e scetticismo tra i giudeocristiani. Nel caso migliore, consideravano persa la sua causa. Nel caso peggiore, la osteggiavano apertamente.

Dopodichè avvengono i tragici fatti del 70. A scrivere ''Marco'' era un ebreo seguace di Paolo (forse un'intera scuola letteraria) e dunque come ogni altro ebreo profondamente influenzato dagli eventi traumatici appena accaduti. Il problema che dovette affrontare Marco era come dare una spiegazione teologica di quei tragici avvenimenti, come ricostruire e fortificare l'identità della propria comunità: insomma, il suo vangelo trova il suo pieno significato subito dopo gli eventi che portarono alla sua creazione.

Gli unici Fatti che si possono scoprire con inoppugnabile certezza dietro il vangelo di Marco (e per estensione dietro i vangeli successivi perfino all'insaputa dei loro autori, che si limitarono ad abbellire Marco e a derivare dalla sua storia) sono dunque solo i fatti accaduti a ridosso del 70. Marco prende il Gesù crocifisso e risorto di Paolo e ne fa un simbolo di Israele crocifisso (ebreo) e risorto (gentile). 



Marco non ha in mente, quando parla del ''figlio d'uomo'', nient'altro che un'identità di gruppo: non la singola persona del Messia, ma la ''chiesa'', la stessa chiesa che da ebrea qual era in passato sta ora per essere consegnata tragicamente ai gentili per divenire a tutti gli effetti, almeno in prevalenza, gentile. Il giovane vestito di bianco nel Sepolcro che annuncia alle donne terrorizzate di riferire a Pietro (preventivamente decaduto nelle grazie del lettore per via della sua incredibile stupidità prima,  e del suo triplice rinnegamento dopo) di precederlo nella Galilea dei gentili (Isaia 9:1) -- vale a dire di ritrovare il Corpo del Gesù Risorto, vale a dire la chiesa, tra i gentili e non più tra gli ebrei -- non potrebbe essere nient'altri che Paolo (se proprio deve alludere allegoricamente a qualcuno).

Ma se Marco intende per Gesù un simbolo di Israele prima durante e dopo il suo travaglio e la sua evoluzione teologica (da popolo ebraico a popolo cristiano senza più distinzioni di sorta tra ebrei e gentili), allora il suo assurgere a rappresentare strettamente un intero gruppo e la sua più profonda identità spirituale non può che rammentare direttamente la metafora di Paolo sul Corpo di Cristo.


Per la grazia che mi è stata data, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato. Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri. Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi: chi ha il dono della profezia la eserciti secondo ciò che detta la fede; chi ha un ministero attenda al ministero; chi insegna si dedichi all’insegnamento; chi esorta si dedichi all’esortazione. Chi dona, lo faccia con semplicità; chi presiede, presieda con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia.
(Romani 12:3-8)


Il Cristo inteso in Marco, per consentire l'uso che ne fa nel suo vangelo, non può essere che lo stesso Cristo Cosmico di Paolo. Solo il Cristo Cosmico può rappresentare una vasta comunità di individui che non hanno nulla in comune tra di loro se non la fede nel Cristo Gesù di Paolo e il battesimo per partecipare del suo Corpo.

A dispetto dell'umile profeta e modesto pretendente messianico che ci consegna qualsiasi lettura letteralista del vangelo di Marco, il Gesù di quel primo vangelo è sempre rimasto lo stesso Cristo Cosmico di Paolo.

E come tale, il nome di Gesù in Marco, il nome del Figlio dell'Uomo, non ha più personalità di quanta potrebbe averne il nome di Giuda (Iscariota) quale emblema di un'intera Nazione ormai esecrata da Dio e dagli uomini.
(Giuda Iscariota, alias Sicariota, potrebbe essere un'allusione ai sicarii, gli estremisti zeloti che tradirono Israele scatenando le ostilità contro i romani, con quel che conseguì)


Marco era il biografo di quello che per lui era il letterale Corpo di Cristo: la chiesa. Non era l'agiografo di un ipotetico Gesù storico. Marco stava rappresentando in allegoria la Storia della Chiesa. La sua chiesa. La chiesa paolina. La chiesa fondata da Paolo ta i gentili e gli ebrei della Diaspora. E come Marco per la sua chiesa ebreo-gentile, così Matteo per la propria chiesa giudeocristiana, a costo di correggere Marco per ereditarne lo stesso messaggio propagandistico (e dunque per guadagnarne lo stesso target religioso). 

Il vangelo di Marco è davvero altrettanto metaforico del vangelo di Giovanni. L'unica differenza è che il primo vangelo si concentra sulle metafore nella narrazione degli ''episodi'', laddove il quarto vangelo si concentra sulle metafore nel dialogo e nel discorso diretto messo in bocca a ''Gesù''. Come tale, è davvero inutile a recuperare anche solo un grammo di un ipotetico Gesù storico, se perfino la sua crocifissione -- e la sua crocifissione romana -- non rimanda a nient'altro che ai fatti del 70.

Ne deriverebbe un particolare per nulla trascurabile. La crocifissione di Gesù -- attinta da Paolo e dai Pilastri -- divenne in Marco (traumatizzato dalla nuova situazione determinatasi dopo il 70, una situazione sconosciuta a Paolo), una crocifissione ROMANA, perchè romani erano coloro che crocifissero LETTERALMENTE migliaia di ebrei durante l'assedio di Gerusalemme.


Così venivano flagellati e, dopo aver subito ogni sorta di supplizi prima di morire, erano crocifissi di fronte alle mura.  
Tito provava compassione per la loro sorte, poiché ogni giorno erano cinquecento, e talvolta anche di più, quelli che venivano catturati, ma d'altro canto capiva che era un pericolo lasciar liberi i nemici caduti prigionieri, e che sorvegliare tanti prigionieri significava immobilizzare altrettanti custodi; comunque la ragione principale per cui non faceva cessare le crocifissioni era la speranza che a quello spettacolo i giudei si decidessero ad arrendersi, temendo di subire la stessa sorte se non si fossero sottomessi.  
Spinti dall'odio e dal furore, i soldati si divertivano a crocifiggere i prigionieri in varie posizioni, e tale era il loro numero che mancavano lo spazio per le croci e le croci per le vittime.
(Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica V, 449-451, mia enfasi)

In Flavio Giuseppe abbiamo anche il primo autore che descrive quella ''nefasta'' alleanza fra leader farisei e sadducei di Gerusalemme e i romani. Ma in Flavio Giuseppe romani e farisei erano alleati contro gli zeloti. Perchè allora in Marco la colpa della condanna di Gesù -- e quindi della crocifissione di ''Gesù'', alias Israele -- ricade in sostanza non tanto sui romani (solo pedine inconsapevoli manipolate dai malvagi farisei) quanto soprattutto sui farisei, laddove invece, nella Storia reale che ci narra Flavio Giuseppe, Israele venne letteralmente crocifisso dai romani, ma per le gravi responsabilità degli zeloti nel provocare la guerra, zeloti ostili anche ai farisei?

Il martirio del messia rappresenta il tragico fato del popolo eletto, che sembra essere stato abbandonato dal suo Dio. Il paradosso del messia crocifisso sarà risolto quando Israele risorgerà nuovamente, il vero significato della Risurrezione. Il vangelo non è nient'altro allora che un'intera allegoria della Passione di Israele con tanto di lunga introduzione. Perchè quell'introduzione serve a spiegare questo disastro. E l'introduzione è il racconto di un messia che risulta invisibile ai suoi stessi seguaci, e risulta inviso alla casta sacerdotale. Ma perchè? Perchè Israele, come ogni Servo Sofferente che si rispetti, deve necessariamente cadere ad opera delle forze dell'ordine costituito: i capi dei sacerdoti e gli scribi. Per essere vendicato alla fine. Giuda, simbolo degli zeloti rivoluzionari, tradirà Gesù/Israele, tradirà cioè lo stesso ideale messianico che era il movente degli zeloti. Ma la casta sacerdotale non è immune da colpe.

Scrive Flavio Giuseppe:

I maggiorenti e i sommi sacerdoti si riunirono con i notabili dei Farisei per discutere sulla situazione politica generale, che si presentava ormai di un'estrema pericolosità; e avendo deliberato di tentare un'azione di recupero verso i rivoluzionari raccolsero il popolo dinanzi alla porta di bronzo, che si apriva nel tempio interno rivolta ad oriente. E dopo averli anzitutto rimproverati a lungo per la temeraria intenzione di ribellarsi e di attirare sulla patria una guerra tanto rovinosa, mostrarono l'assurdità del pretesto cui s'erano appigliati... ... Ma nessuno dei rivoluzionari si lasciò convincere, e nemmeno i ministri di culto si dichiararono d'accordo, creando così l'occasione per la guerra.  
I maggiorenti, vedendo che ormai non potevano più soffocare la ribellione e che loro sarebbero poi stati i primi a subirne le pericolose conseguenze da parte dei romani, si preoccuparono di declinare la loro responsabilità e mandarono ambasciatori sia a Floro, capeggiati da Simone figlio di Anania, sia ad Agrippa, tra cui primeggiavano Saul, Antipa e Costobar, legati al re da vincoli di parentela. Ad entrambi rivolsero un pressante appello perché venissero in città con forze militari e mettessero fine alla ribellione prima che esplodesse irrefrenabile.  
Per Floro si trattò di una splendida notizia, ed essendo intenzionato a far scoppiare la guerra lasciò gli ambasciatori senza risposta; Agrippa, invece, che si preoccupava ugualmente dei ribelli e di coloro contro cui si preparava la guerra, che voleva conservare ai romani la fedeltà dei giudei e ai giudei il tempio e la città, che ben sapeva come nemmeno lui avrebbe avuto nulla da guadagnare dai disordini, mandò in aiuto del popolo duemila cavalieri dell'Alluranitide, della Batanea e della Traconitide agli ordini di Dario, quale comandante della cavalleria, e di Filippo figlio di Iacimo, quale comandante in capo. 
Incoraggiati dal loro arrivo i maggiorenti, con i sommi sacerdoti e tutta quella parte del popolo che voleva la pace, occuparono la parte alta della città; i rivoluzionari occupavano invece la parte bassa e il tempio.
(Guerra Giudaica II:411-422, mia enfasi)


La politica dei ''maggiorenti'' della città -- ovvero scribi, farisei e sadducei -- era chiaramente doppiogiochista per motivi di pura real politik. Da un lato dovevano trattenere il più possibile gli zeloti insediatisi nella Capitale con le loro pretese sempre più arroganti, e dall'altro dovevano preparare il ritorno in forze dei romani ma impedendo che questi facessero piazza pulita indiscriminatamente (perchè avrebbero certamente diffidato di un romano bellicoso come Floro, per il quale quella tregua precaria e potenzialmente esplosiva ''si trattò di una splendida notizia, ed essendo intenzionato a far scoppiare la guerra lasciò gli ambasciatori senza risposta''). Ma dal momento che erano loro che sembravano tessere il destino della Città con le loro trame politiche, quel destino si rivelò di lì a poco essere tragicamente un terribile FATO -- ''così è avvenuto, così Dio volle'' -- e allora la ''COLPA'' doveva di necessità ricadere su di loro, perchè i Fatti ''dimostrarono'' che Dio non era con loro.

Insomma, Marco condannò Israele sulla croce perchè Roma crocifisse Israele per volere di Dio, condannò gli zeloti allegorizzandoli in Giuda Sicariota, traditore esecrato da Dio al pari del movimento rivoluzionario zelota, col quale si era ''sporcate'' le mani la casta sacerdotale (nel vano tentativo diplomatico di trattenere lo scoppio della guerra), e condannò gli scribi e farisei in quanto responsabili ultimi del Disastro e manipolatori dei sempre innocenti (perchè vincitori) romani con il loro ipocrita doppiogiochismo politico.

Gli storici considerano un grande statista Lorenzo de' Medici, alias Lorenzo ''il Magnifico'', chiamandolo ''l'ago della bilancia'' della politica italiana. Alla sua morte però l'Italia fu dominata dagli invasori stranieri fino al Risorgimento. 
Poichè l'intrusione straniera avvenne qualche anno dopo la morte del ''Magnifico'', non si poteva sconfessare il suo luminoso ''buon governo'' ma al più prendersela con i suoi successori nel governo di Firenze (come poi accadde). Ma qualora le potenze straniere avessero invaso l'Italia con lui ancora in vita, di certo i posteri non ne avrebbero avuto il medesimo buon giudizio, e della sua opera politica e della sua grande capacità mediatrice diplomatica. Da ''ago della bilancia'' qual era sarebbe stato declassato, e puntualmente diffamato, di fatto se non di nome, come un mero, ipocrita, fallito ''Ragno tessitore''.

Lo stesso avvenne con i farisei. Si erano arrischiati nell'immane, pericolosa missione di salvare il salvabile in mezzo a due fuochi, finendo per apparire egoisti oligarchi, agli occhi del popolo, e di perseguire unicamente la propria sopravvivenza politica, destreggiandosi tra così tanti infuocati interessi contrapposti:


I maggiorenti, vedendo che ormai non potevano più soffocare la ribellione e che loro sarebbero poi stati i primi a subirne le pericolose conseguenze da parte dei romani, si preoccuparono di declinare la loro responsabilità e mandarono ambasciatori sia a Floro, capeggiati da Simone figlio di Anania, sia ad Agrippa, tra cui primeggiavano Saul, Antipa e Costobar, legati al re da vincoli di parentela. 
 (Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica II:418, mia enfasi)

Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire. Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».
(Marco 4:1-2)


E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato.
(Marco 15:1)

Udite queste parabole, i capi dei sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro. Cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla, perché lo considerava un profeta.
(Matteo 21:5-46)
In quel momento gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso, ma ebbero paura del popolo. Avevano capito infatti che quella parabola l’aveva detta per loro.
(Luca 20:19)


Il quarto evangelista, come al solito, rende ancor più esplicita la medesima allegoria (al di là se la vendeva come qualcosa da prendere ciecamente alla lettera) con tanto di discorso diretto.

Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dissero: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione». Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!». Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo.
(Giovanni 11:47-52)


Ma c'è un altro motivo che spiega perchè rovesciare così tanto odio contro i Farisei e non contro gli Zeloti. In fondo i farisei al tempo di Pilato erano solo una tra le tante sette del Giudaismo, non rappresentavano ancora TUTTO il Giudaismo. I Farisei si collocarono sempre più al centro della vita politica e religiosa di Israele assai più nella seconda metà del I secolo, fino a diventare praticamente rappresentanti politico-religioni dell'intero Ebraismo dopo la guerra (evolvendosi nel cosiddetto rabbinismo talmudico), ma al tempo di Pilato, nella prima metà del secolo, non erano affatto la setta dominante. Dunque i farisei esistevano al tempo di Pilato, ma avrebbero attirato certamente assai maggiore attenzione e molta più provocatoria influenza politica e religiosa verso la fine del I secolo, un'influenza divenuta colpevolmente responsabile della precaria situazione politica degenerata nello scoppio della Guerra Giudaica. Proprio quando Marco si mise a tavolino per scrivere la sua allegoria.

Inoltre, colpendo i farisei e il loro attaccamento alla Legge al di là del moralmente dovuto, il paolino Marco indirettamente voleva colpire anche gli stessi giudeocristiani (anch'essi estintisi a seguito della sciagura che precipitò su Gerusalemme, e dunque anch'essi parzialmente colpevoli delle loro disgrazie), i quali poi reagirono col vangelo di Matteo mettendo in bocca a Gesù l'esortazione a seguire la Legge superando in zelo ed in autentica devozione e rispetto della Legge gli stessi Farisei per ottenere la salvezza (il dibattito sulla Legge era tale da scatenare palesi contraddizioni tra i vangeli).




Se quindi i romani ''crocifissori'' fanno il loro ingresso LA PRIMA VOLTA nel vangelo predicato da un paolino solo, e soltanto, con Marco, ne deriva l'inquietante, concreta possibilità che nell'originario vangelo di Paolo (e dei Pilastri) quella medesima crocifissione del suo Cristo Cosmico non fu affatto opera di soldati romani di stanza a Gerusalemme, ma dei malvagi ''arconti di questo eone''.

Evidentemente sulla terra firma i primi cristiani, al pari degli ebrei tutti, dovettero esperire di persona, sulla pelle del popolo di Israele, una malvagità decisamente più materiale e terrena. Ad opera di ben altri ''arconti''. Che ben presto subentrarono ai primi. E non solo nell'allegoria. Ma nella ''Storia''.